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“Vicky, Cristina, Barcellona” di Woody Allen: libero amore in Spagna
23 Ottobre 2008
 

Ecco come un narratore può compiere uno studio psicologico su due personaggi dalle opposte personalità: li mette a confronto con una stessa situazione, meglio se inaspettata e abnorme, tale che non vi si possa reagire secondo convenzione. E osserva il loro diverso comportamento.

È un esperimento che, per chi ha memoria cinematografica, Woody Allen aveva in parte tentato in un film di qualche anno fa, Melinda e Melinda. E che ora rinnova con Vicky, Cristina, Barcellona.

 

La situazione abnorme è la seguente: durante un viaggio in Spagna, due ragazze americane sono abbordate da un pittore locale, il quale, senza mezzi termini, propone loro un rapporto a tre. Una accetta; l’altra rifiuta.

La ragazza che accetta è curiosa, allegra, sensuale, affascinata dall’arte e dagli artisti. Quella che rifiuta, senza essere una repressa, è più rigida e pianificatrice; crede nel matrimonio; ed è incline alla malinconia.

Ma ognuna delle due ragazze incarna, in una certa misura, il lato in ombra della personalità dell’altra. E così la ragazza curiosa allegra eccetera, con la stessa graziosa volubilità con cui ha accettato il rapporto a tre (il terzo lato sarà una ex del pittore), finisce per stancarsene, e se ne ritrae. Quella più rigida, dopo una notte d’amore trascorsa con il pittore, resta inquieta, tormentata: non accetta più la prospettiva di una vita matrimoniale con l’uomo che pure ama.

Come risultato dell’esperimento che ho detto, si può apprezzare l’evidenza con cui risultano i due ritratti: sfumati, variegati, morbidamente contraddittori; descritti con partecipazione, ma anche con distacco umoristico; tali comunque da darci l’impressione di essere vivi (merito, certo, anche delle attrici: Scarlett Johansson è la prima ragazza; e Rebecca Hall, la seconda).

Ma Vicky, Cristina, Barcellona probabilmente vuole essere anche un apologo intorno al seguente problema: è meglio l’amore libero, senza vincoli legali, senza ruoli prestabiliti e senza l’appartenenza reciproca ed esclusiva della coppia tradizionale; o è meglio la sicurezza del matrimonio?

Qui la risposta è sospesa. Il bene e il male non sono prestabiliti o attribuibili con certezza.

È vero che il triangolo, dopo una crisi iniziale, conosce una fase di profonda armonia. Ma è anche un’armonia precaria; e quando uno dei tre componenti si ritira dal gioco, i due rimasti si abbandonano, come fatalmente, a un comportamento distruttivo. E la seconda ragazza finisce per concludere che, per il proprio carattere, il matrimonio non è una soluzione esaltante, ma è forse la più adeguata.

 

La vera morale, pessimistica, dell’apologo è che nessuno, in amore, riesce mai a essere davvero soddisfatto. Però, la soluzione del dilemma è demandata al pubblico. E caso mai a qualcuno interessasse, per quanto mi riguarda, trovo che il personaggio interpretato dalla Johansson sia, tutto sommato, più simpatico.

 

Gianfranco Cercone

(da Notizie radicali, 23 ottobre 2008)


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