Si chiamava madre Rosa, dell’ordine delle Suore Insegnanti di Maria Immacolata fondato da Antonio Maria Claret, santificato. Mi voleva un bene da morire, madre Rosa. Davvero, da morire. Mi vedeva già stampata sui santini col mio visetto smunto e i riccioletti biondi e l’espressione di putto. E poi mi chiamavo Maria come la Madonna e come Maria Goretti, santa e martire.
Madre Rosa mi contemplava con il suo sguardo amoroso e segnava mentalmente il mio destino. Era piccolina e grassoccia, di stampo contadino. Una mamma mancata, madre Rosa. Che esplicava tutta la sua indole materna su di noi, bambini del dopoguerra, obbedienti come piccoli soldatini e affamati di tenerezza come pulcini bagnati.
Madre Rosa era la nostra chioccia. Ci teneva sotto le sue capienti ali spollastrando lieta. A me mi teneva più stretta di tutti, perché immaginava che sarei stata la gallina dalle uova d’oro. Che avrei fatto accorrere, come Maria Goretti nel santuario di Nettuno, pellegrini oranti e piangenti che avrebbero lasciato l’obolo ai piedi della verginella defunta nella teca, portandosi via un’idea di purezza odorosa di gigli marci.
Madre Rosa mi curava come il fiore preferito del suo giardino, annaffiandomi di affettuosissimi insegnamenti e sperticate lodi. Io per lei stravedevo. M’avesse detto di buttarmi nel fuoco, oltre il quale avrei trovato la diritta via che conduce alla gloria degli altari, probabilmente mi ci sarei buttata.
Quello che mi salvò fu la scuola statale e laica.
In quarta elementare dovetti lasciare l’Istituto Maria Immacolata poiché la scuola non era parificata. Feci la quinta con la maestra Caterini, che veniva da Roma e aveva i capelli rossi. E che se la faceva con gusto col maestro Rosini.
La maestra Caterini mi aveva subito individuata: educata alla scuola del dovere e formata ai divini insegnamenti. Mi utilizzò al meglio. Praticamente mi nominò di fatto sua vice e dovevo sostituirla quando spariva per i corridoi col maestro Rosini. E quando rientrava in aula, più rossa che mai e scarmigliata, e sedeva in cattedra per rifarsi il trucco, se la prendeva con me perché non ero riuscita a tenere a bada come si deve la sua scolaresca. Che in sua assenza faceva ovviamente il finimondo riservando a me, che tentavo di riportare l’ordine, parolacce e linguacce.
Ebbene, io queste maestre qui le ho amate e tuttora le amo. Perché mi hanno insegnato ciò che non va fatto. Ciò che non va accettato. Ho avuto la possibilità, avendo avuto due maestre diverse tra loro come l’acqua dal fuoco, di guardare alla vita da diversi e opposti punti di vista.
Eccezionali a loro modo tutte e due, mi hanno dato il loro imprinting in tutta onestà e coerenza. Chi col velo sulla testa, chi con le chiome fiammeggianti. E mentre le ho avute come maestre hanno saputo essere un punto di riferimento nel bene e nel male e senza ombra di dubbio. Hanno entrambe saputo prendersi la loro totale responsabilità, civile e morale.
Oggi ciò non sarebbe più possibile. Né per i maestri né per gli alunni. Non siamo più quelli del dopoguerra, né quelli della ricostruzione, né quelli del boom, né quelli del ’68. Siamo figli dei nostri tempi, maturati in certe condizioni e orientati in certe direzioni.
Nel tornare indietro non si è mai più gli stessi, e non possono valere regole di un tempo passato.
Strano, dover parlare di ciò. Di una realtà così evidente e semplice. Un po’ come ripassarsi le vocali e le consonanti per mettere insieme una sola parola: Ragioniamo.
Maria Lanciotti