(Milano, 13 dicembre 2004) La voce arrochita dal fumo, il dono di Orfeo pulsante nelle vene dell’anima. Alda Merini, settantaquattro anni, milanesissima e creatura, con la potenza della sua arte, universale, è la più geniale interprete della poesia italiana. I suoi versi scavano dentro, irrimediabilmente, con dolore e nostalgia, recandoti a oceani di languore e disperazione e consapevolezza, muovendo fantasie sublimi – Terre Sante anche in manicomi – splendide concrezioni d’amore, come rarissimamente è dato di scorgere. La poetessa, che ama molto la provincia di Sondrio tanto da esservisi recata più volte per incontri e letture, con gran gentilezza ci ha rilasciato quest’intervista.
Signora Merini, lei vive in una casa lungo il corso del Naviglio Grande da lungo tempo. Come si trova in questa zona della metropoli meneghina?
«Un po’ male e un po’ bene; ne ho apprezzato molto la modernità, però talvolta mi sento anche sconvolta...».
Se dovesse fare un paragone con il passato?
«Il Naviglio era povero e squinternato, ma i poveri erano credenti: voglio dire, c’erano fiducia e solidarietà».
Oggi, lunedì 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, Alda Merini sarà a Roma per essere premiata con una medaglia d’oro dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi…
«Sono spaventatissima, visto che l’ultima volta che ho preso l’Intercity ho avuto problemi a una gamba» – la Merini ha subito, recentemente, una delicata operazione al femore – «ed emozionatissima. Non so che abito indossare, non trovo le scarpe. Lei che cosa dice?»
Dico che farà un figurone, comunque andrà vestita. Il suo abbigliamento di versi sarà, poi, straordinariamente scintillante. Signora Merini, ci parli ancora dell’umanità che popolava queste vie…
«Se si faceva la polenta, ce n’era anche per il figlio di un’altra. Io abito qui da cinquant’anni. Sa che sono la zia di Pierre Carniti (l’ex sindacalista, nda)? Adesso, però, le voglio raccontare un aneddoto. Capitava qui di soffrire anche la fame; come lei saprà, io sono stata in manicomio. Quando mio marito mi veniva a trovare, gli dicevano “Almeno lei mangia”. Pensi alla miseria che ci poteva essere» – non si può certo dire che manchi la schiettezza ad Alda Merini o che ella si nasconda dietro paraventi d’inutili o vacue parole; diretta, Alda è diretta e mira al bersaglio della coscienza – «Un’altra cosa le voglio raccontare: la Festa dei Navigli è stata inventata da Michele Palici, un famoso ghisa (vigile urbano, in milanese, nda). I nostri ghisa ci volevano bene; allora loro erano un mito: li vedo ancora sui podi a dirigere il traffico. Michele era il marito di una mia cara allieva; sa, io facevo ripetizioni ai ragazzi di qua, ho avuto tanti discepoli, i miei fidanzati» – ride a crepapelle – «Michele è morto di crepacuore, quando gli è morta la moglie. Ciò le dà l’idea di com’erano i nostri amori. Erano una bellissima coppia. Questa è la nostra nostalgia».
Che cosa le piace maggiormente della zona in cui lei vive e che cosa, invece, non ama?
«Non amo il carovita. Considerati i miei problemi di mobilità, sono costretta a comprare nei negozietti dove mi pelano un po’. Credo che se ne approfittino, come succede spesso con gli anziani. Però vorrei anche dire che a me piace Milano, e buonanotte! Noi abbiamo dei bellissimi monumenti, anche se i milanesi non li guardano neppure, mentre ho sentito tanti stranieri urlare di meraviglia davanti al Duomo. Il Duomo per me è sempre una novità, ogni volta che lo guardo: come un grande libro. Mi piace anche il Castello. Il problema del milanese è che non ha mai tempo; in meridione, invece, conoscono l’arte del far niente. Chì te ghee el cartelìn... (tr. “Qui hai il cartellino”..., nda). Dovremmo dedicarci un po’ di più alla contemplazione, alla ricerca in noi stessi e della verità, perché noi in realtà non ci conosciamo».
Un colloquio con Alda Merini è così: felicemente spiazzante, sempre. Questo vagare fra parole apparentemente eterogenee, ma fecondissime, balzando da un’immagine all’altra, da un argomento all’altro, un filo rosso a legare, tuttavia, avvenimenti e uomini. Come potrete ben comprendere dalla domanda e risposta successive.
Ha mai dedicato dei versi ai Navigli, ne è mai stata ispirata o li ha citati in qualche modo nei suoi componimenti?
«Sono nata in via Lanzone, dove un liceo mi bocciò all’ammissione in esso. Fui l’unica respinta in italiano», ride ormai divertitissima al ricordo. «Il verdetto diceva: “Rivela preparazione meccanica ed è impacciata e confusa; anche in italiano appare incerta e come trasognata”. Mia madre, leggendolo, svenne. Poi, la mia insegnante di matematica alle Professionali, ridendo, mi chiedeva sempre di rileggerglielo. Ero brava anche in geometria – sa? – non solo in italiano».
Alda Merini e il Premio Nobel (che potrebbe finire sui Navigli)…
«Non lo voglio. Mi hanno già fatto abbastanza male; sarebbe una legnata in testa» ancora ride e sorride, con soave ironia. «Io amo la semplicità, il mio piccolo appartamento dove sono nati i miei figli. Sto scrivendo con Francesco Nuti una canzone che farà parte del suo prossimo disco: La verza. In una terra sconsolata come i Navigli io ho trovato una verza e l’ho creduta un fiore. Quando l’hanno letta, mi hanno rinchiusa in manicomio...».
Non è che ci regalerebbe dei versi creati per l’occasione di quest’intervista?
«Naviglio, ti ringrazio per tutte le oscenità nascoste/ che si sono mescolate ai sogni:/ vederti ridente, dimenticare la guerra/ -forse è un sogno che abbiamo tutti noi vecchi-/ e diventare giovani, come siete voi, ragazzi/ che venite a imparare da me/ la scuola della dimenticanza». S’arresta... «Che mi dice?».
– Dico che realizzare quest’intervista mi ha rinfrancato e il mattino, ora e poi, mi pare foriero di bellezza e speranza.
Alberto Figliolia
(dalla “Bottega letteraria” n. 19 – 'l Gazetin, gennaio 2005
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