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Jean-Jacques Peyronel. «Laicità positiva»: per chi? 
Ma quello che il papa ha detto in Francia a proposito di distinzione tra Stato e Chiesa sembra non valere per l’Italia attraversata da ondate di neoclericalismo
05 Ottobre 2008
 

Il n. 37 del 26 settembre 2008, della Riforma, settimanale valdese e più latamente protestante, si apre con un interessante articolo di Jean-Jacques Peyronel in cui tra l'altro si richiama il convegno radicale brussellese del 28 agosto scorso. Crediamo sia utile proporlo ai lettori di Notizie Radicali. (e a quelli di Tellusfolio, ndr)

 

 

«La laicità non è in contrasto con la fede», ha detto il papa nell’aereo che lo portava a Parigi. Bene, finalmente un papa che riconosce il valore per tutti i francesi della legge del 1905, esecrata da tutti i suoi predecessori a partire da Pio X. Ma appena arrivato a Parigi, nei saloni dell’Eliseo, ha dichiarato di apprezzare l’espressione usata dal suo illustre ospite nel suo controverso discorso nella Basilica di San Giovanni in Laterano il 20 dicembre 2007, di «laicità positiva». Per cui si potrebbe pensare che anche per lui, la laicità tout court, quella in cui vivono felicemente tutti i cittadini francesi da oltre un secolo, sia invece in contrasto con la fede e quindi «negativa». Ma essendo questo papa persona intelligente e profondo conoscitore dell’«esprit français», si potrebbe anche pensare che abbia voluto invece rendere un omaggio alla «positività» della laicità francese. Ha detto infatti testualmente: «Sul problema dei rapporti tra la sfera politica e la sfera religiosa, il Cristo stesso aveva già offerto il principio di una giusta soluzione quando rispose a una domanda che gli veniva posta: “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Mc 12, 17). La Chiesa in Francia gode attualmente di un regime di libertà. La diffidenza del passato si è trasformata a poco a poco in un dialogo sereno e positivo, che si consolida sempre di più». Poi ha aggiunto: «In questo momento storico in cui le culture si intrecciano, è diventata necessaria una nuova riflessione sul vero senso e l’importanza della laicità». Benissimo, ma allora perché non iniziare da una riscoperta di quella che è stata, alla fine dell’800 e all’inizio del ’900, la nascita del concetto stesso di laicità?

La laicità francese infatti si basa sulla distinzione, rigorosa ma non rigida, dei piani e dei concetti. Ad esempio, quando si parla di spazio pubblico va precisato che esso si compone di due piani distinti che non vanno confusi: quello politico-istituzionale proprio dello Stato e delle sue istituzioni – a cominciare dal Parlamento dove gli eletti del popolo, e soltanto loro, sono chiamati a fare le leggi – e quello della società civile in cui tutti, singoli e associazioni, possono esprimersi liberamente a patto di non turbare l’ordine pubblico. Ora, in Francia, dal 1905, tutte le chiese, comprese le parrocchie cattoliche, sono considerate giuridicamente come «associazioni cultuali» e in quanto tali sono parte integrante della società civile e quindi dello spazio pubblico («Dal punto di vista dello Stato laico, le chiese non sono delle istituzioni, sono delle associazioni», scrive al riguardo Jean Baubérot nel suo ultimo libro, La laïcité expliquée à M. Sarkozy). Per cui quando si dice che la legge del 1905 ha relegato le religioni nella sfera privata, escludendole dallo spazio pubblico, si dice una cosa non vera. Come spiega molto bene Catherine Kintzler, esponente di spicco della laicità francese, nel suo recente Qùest-ce que la laïcité?: «La Repubblica laica pone a fondamento della città il principio di laicità che impone la rigorosa astensione dei pubblici poteri [rispetto a qualunque credenza o non credenza, ndr], e proprio da questo principio di astensione (da non confondere con sottrazione!) a livello politico-istituzionale deriva il fatto che «nella sfera della società civile tale astensione non è richiesta e che tutte le posizioni, purché non siano contrarie al diritto comune, sono lecite». Lo Stato in quanto tale non ha da essere né pluralista né tollerante, ma soltanto neutro, ed è proprio grazie a questa neutralità (da non confondere con indifferenza) che la società civile può essere pienamente pluralista e tollerante. La laicità quindi non va confusa con la tolleranza o il pluralismo; sono cose diverse che si verificano nei due piani distinti dello spazio pubblico. In un suo articolo apparso su Le Nouvel Observateur il 26 febbraio scorso, intitolato «La laicità non è la tolleranza», Jean Daniel cita questo «stupendo pensiero di un grande filosofo protestante, Paul Ricœur»: «Se davvero le religioni devono sopravvivere, esse dovranno adempiere a molte esigenze. Dovranno in primo luogo rinunciare a ogni specie di potere che non sia quello di una parola disarmata; dovranno inoltre fare prevalere la compassione sulla rigidità dottrinale...». La differenza tra laicismo e laicità non sta, come spesso si dice, nel fatto che il primo sarebbe un’ideologia e la seconda solo un metodo, bensì nel fatto che il primo vorrebbe cacciare via le religioni anche dalla società civile mentre la seconda è quella che vi permette invece la loro piena espressione.

Se invece, con la «laicità positiva», si intende far rientrare le religioni nel piano politico-istituzionale di modo che esse possano «ispirare» direttamente l’elaborazione e la formulazione delle leggi, si ricade semplicemente in una nuova forma di clericalismo che, come il vecchio, è l’antitesi della laicità. Lo ha detto molto bene il pastore Daniele Garrone, decano della Facoltà valdese di teologia, nel suo intervento al Parlamento europeo di Bruxelles, il 28 agosto scorso, nell’ambito del convegno “Laicità e religioni” promosso dal Partito Radicale Transnazionale: «Penso cioè che la teologia cristiana, proprio a partire dal centro della sua confessione di fede, la cristologia e la teologia della croce, dovrebbe rivendicare la laicità, la neutralità religiosa della sfera pubblica, il separatismo, in vista di una testimonianza autentica perché non legata ad alcun vincolo imposto ad alcuno né ad alcun privilegio. Nella nostra comprensione, proprio Cristo come rivelazione di Dio e come unica mediazione implica la laicità della piazza su cui il suo nome è annunciato e l’esclusione di ogni mediazione e tutela clericale».

Queste infatti sono le regole della democrazia che peraltro collimano perfettamente con i principi della laicità. Alle chiese, tutte, non spetta il compito di fare o di influenzare le leggi ma di predicare l’Evangelo: allo Stato non devono chiedere null’altro che garantire loro la piena libertà di esercitare il proprio culto e di testimoniare pubblicamente la loro fede. Che è esattamente quello che afferma il primo articolo della legge francese del 1905. Nell’ambito della società civile, le chiese, tutte, possono dire quel che vogliono. Se poi non sono capaci di farsi ascoltare nella piazza pubblica, reale o virtuale, in cui circola di tutto, questa è affar loro ma non possono pretendere dai pubblici poteri di avere un palco più alto e altoparlanti più potenti degli altri. La laicità alla francese è stata inventata per permettere a tutti, religioni comprese, il vivere insieme nonostante le differenze. Di questo, in fondo, il papa sembra avere preso atto, e ha preso sottilmente le distanze dal presidente francese, affermando a Lourdes, davanti ai vescovi francesi, di non auspicare una revisione della legge del 1905, perché riconosce una «specificità francese che la Santa Sede desidera rispettare». Peccato che questo non valga per l’Italia!

 

Jean-Jacques Peyronel

(da Notizie radicali, 2 ottobre 2008)


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