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Valter Vecellio. Del “presepe” del PD (e, un po’, anche di noi…)
04 Ottobre 2008
 

Cosa sia il Partito Democratico oggi, non si saprebbe dire. Viene in mente la famosa battuta nella commedia di Eduardo De Filippo: è un presepe che non ci piace. Ma non è tanto, o solo, questione di piacere o non piacere. È che il PD – e nel PD – con una pervicacia che lascia sgomenti e incupisce sfugge a questioni essenziali, preferendo un arroccamento sterile e miope. È per esempio incredibile che si preferisca continuare a lasciare spazio ai Di Pietro e ai loro demagogici appetiti politici; e si persista nel non voler considerare Pannella e i radicali come una risorsa nel PD. La proposta radicale, in estrema sintesi, non è tanto quella di creare un altro partito, piuttosto è mettere in crisi il partito fondato sulla tessera. Scommessa ambiziosa, certo. Ma possibile che non uno, nel PD voglia comprendere che è una scommessa che val la pena di giocare, in luogo di uno sterile posizionarsi di nicchia?

Le questioni poste dai radicali non sono solo i radicali a porle. Tempo fa Filippo Andreatta sul Corriere della Sera annotava: «Il PD è un partito nostalgicamente dominato, come i partiti di massa del 900 dalle segreterie e non da leader istituzionali… I parlamentari del PD sono nominati invece che eletti e questo riduce drasticamente le possibilità di un ricambio della classe dirigente rafforzando la partitocrazia. Si è utilizzata un’idea innovativa – quella del partito all’americana – per rilegittimare vizi antichi e tipicamente italiani invece che innescare quel processo di cambiamento radicale che i cittadini chiedevano». Peccato che queste riflessioni non abbiano trovato seguito.

Michael Walzer, intellettuale progressista americano molto caro al PD, osserva che il problema della politica di sinistra è quello di trovare un modo per sostenere opinioni impopolari e restare al tempo stesso connessi con il popolo o con buona parte di esso. Una strategia è quella di concentrarsi sui problemi politici concreti, quotidiani, dove si ha buone possibilità di convincere molti dei nostri vicini, e di restare dalla parte di quel popolo che si dice di rappresentare. Anche in questo caso, nessun seguito.

 

Tutto questo può portare – e ci porta – dritti a quello statuto radicale che in anni lontani venne elaborato tra Faenza e Bologna. Uno straordinario utensile non tanto e non solo per i radicali: un modello politico ed organizzativo straordinario, che andrebbe studiato; è per questo, probabilmente, che lo si ignora. Si può provare a parlarne al telefono, nella speranza che la telefonata sia intercettata e poi finisca nelle pagine dei giornali…

La situazione di non democrazia nella quale viviamo, è data da questa dolosa e cronica mancanza di informazione. Tempo fa il Centro d’Ascolto ha inoppugnabilmente documentato l’uso strumentale e tutto politico che veniva fatto – e si fa ancora – delle vicende relative all’ordine pubblico. Lo stesso discorso si può fare per la comunicazione politica, ridotta a battute (alzi la mano chi sa cosa accade nelle aule delle commissioni parlamentari?), alle questioni che oggi vengono definite “eticamente sensibili”, quelli che un tempo erano i “diritti civili” (a quando un dibattito serio sul testamento biologico?); sappiamo tutto di monsignor Bagnasco, Fisichella, Betori, Ruini; al contrario i Martini e i Tettamanzi non hanno diritto di cittadinanza; e poi quell’informazione negata che va dalla Birmania alla Cina, dalla Cecenia al Darfour: che, evidentemente, sono poco divertenti, poco sexy.

C’è poi l’antica maledizione che grava sui radicali: possono dire e fare qualsiasi cosa, giusta o sbagliata che sia, non importa. Semplicemente non esistono, abrogati. I radicali sono gli unici che hanno reagito al “diluvio” delle ultime elezioni, senza abbandonarsi a un cupio dissolvi suicida; ma tutto è stato ignorato. Paradigmatico l’ultimo editoriale di Emanuele Macaluso sulla sua rivista, Le nuove ragioni del socialismo: si analizza la situazione politica, si danno i “punti” a tutti; una bella, esatta, condivisibile “fotografia” dell’esistente, con un assente. I radicali, ovviamente.

 

La domanda è questa: perché, nell’invitare a cercare di ragionare sul fatto e sul che fare, Macaluso e tutti gli altri, abrogano i radicali? Cinquant’anni e passa di storia radicale non sono sufficienti a dimostrare quanto questo tentativo di cancellazione, quest’ostracismo sia miope, controproducente, masochista e fallimentare?

Pannella ogni tanto evoca “il ragionevole sregolamento dei sensi”, di Arthur Rimbaud; frase-programma che si può accostare a quanto raccomanda Erasmo da Rotterdam. In fin dei conti il suo “Elogio della follia” è un incitamento innanzitutto ad avere il coraggio di essere “pazzi”, pretendere cioè in tutta serietà di mutare quello che viene ritenuto immutabile. Un po’ quello che un poeta definisce “l’assurdo che ci sfida, per spingerci ad essere fieri di noi”.

 

Aiuta a comprendere il “ragionevole sregolamento dei sensi” un intervento di Sergio Stanzani, in occasione della riunione dei segretari e dei tesorieri di qualche tempo fa: «Siamo riusciti con poco a fare molto. Il problema è se sia sufficiente; ma noi non possiamo perdere la consapevolezza di essere unitari. Il mio dissenso con Capezzone è questo: lui non è mai stato unitario. È stato un singolo, si è sempre occupato di se stesso. Ed è per questo che io sono qui, voi con le vostre presenze, i vostri volti, e lui sta da un’altra parte».

«È necessario, non è tempo buttato via, quello di fare delle riflessioni organizzate sulle organizzazioni», dice Stanzani. «Il problema del momento organizzativo oggi c’è e dobbiamo cercare di avere dei momenti di riflessione, di studio, proprio come facevamo una volta».

 

A Gianfranco Spadaccia, una volta, m’è accaduto di confidare un senso di inadeguatezza rispetto alle sfide che lanciamo e che ci vengono lanciate. Senza voler mitizzare gli anni Cinquanta e Sessanta, la mia opinione era (ed è) che chi li animava aveva una “marcia” in più. «C’era Marco, motore e sole del sistema radicale», ha risposto Spadaccia. Ma Pannella c’è ancora, ho obiettato. «E poi c’eravamo noi», ha proseguito Spadaccia; e ha aggiunto, per descriversi: «Noi disadattati».

Il significato da dare a quel “disadattati” mi pare sia molto simile a quello che Erasmo da Rotterdam dà alla “follia”, e va nel senso di Rimbaud. Ma allora: forse noi siamo diventati un po' meno “disadattati”; siamo – o abbiamo la tentazione – di diventare un po “adatti”? Oppure – e la cosa non esclude l’altra – c’è una società, un mondo che rispetto allora, un mondo ad allora, vive altre “disattitudini” (si potrà dire così?). Oggi, se lo siamo, come siamo “disadattati”?

 

Valter Vecellio

(da Notizie radicali, 3 ottobre 2008)


 
 
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