È risaputo: nella contemporaneità occidentale - e in quella occidentalizzata - le forme e gli attori della comunicazione offuscano messaggi e contenuti. D’altra parte, sempre più spesso, messaggi e contenuti sono apparenti, evanescenti, inesistenti, nella comunicazione dei media tradizionali. L’informazione essenziale alla nostra quotidianità, quella indispensabile al mantenimento della struttura sociale, passa ormai attraverso canali invisibili o circola in ambiti iper specialistici.
Il continuo aggiornamento delle banche dati, il flusso costante dell’informazione destinata agli operatori economici e finanziari, le elaborazioni quotidiane di miliardi di dati nei sistemi informativi di aziende e amministrazioni pubbliche, le comunicazioni telematiche obbligatorie inviate da pochi addetti anche per conto di milioni di soggetti privati (si pensi solo alle dichiarazioni fiscali), fanno si che nel sistema socioeconomico i messaggi essenziali circolino subito e “chi deve sapere sa”. Ciò non significa che se ne faccia sempre un uso corretto: l’intento speculativo e l’illiceità sono dietro l’angolo (e dentro i santuari, come dimostra ampiamente la gigantesca crisi finanziaria attuale). L’informazione di questo tipo è ad altissimo tasso di contenuto, poiché il contenuto sono i dati stessi, con tutte le possibilità di aggregazione e scorporo effettuabili su di essi. L’importanza di questi dati-contenuto diventa evidente laddove si entra nel campo dei c.d. ‘dati personali sensibili’, ma è in genere rilevante in molti settori di studio e di controllo (si pensi solo alla statistica, alla ricerca scientifica, alla sicurezza).
Nell’ambito dei mezzi di comunicazione di massa invece, a parte alcune nicchie ad alta specializzazione, si assiste al progressivo impoverimento dei contenuti e alla opinabilità dei dati talvolta riportati; si espandono, per converso, tempi e modalità espressive dell’opinionistica, della propaganda politica e dell’intrattenimento. Si assiste insomma alla proverbiale ‘marmellata’ mediatica dove identificare l’informazione, il dato su cui discutere, il programma politico su cui farsi un’opinione, è praticamente impossibile. I contenuti di questo tipo o stanno altrove, in archivi poco conosciuti, o sono inattendibili per deformazione comunicativa. E bisogna aggiungere che, sempre più di frequente, i contenuti sono spesso fittizi: in una parola, sono inesistenti. Ed è questo che maggiormente preoccupa, perché non siamo più nell’ambito, peraltro illusorio, della divisione dei fatti dalle opinioni, bensì siamo senza fatti (credibili) e senza (vere) opinioni.
La situazione ha del paradossale: possediamo gli strumenti per fare sofisticate analisi del linguaggio, deteniamo gigantesche banche dati e capillari strumenti di comunicazione, conosciamo le tecniche – logiche e scientifiche – della confutazione, ma non abbiamo più materia del contendere. Tutti gli approfondimenti, le ricerche e le testimonianze che potrebbero aiutarci restano tra addetti ai lavori, con l’utilizzo di codici e sottocodici riservati ad esperti e amatori; il varco creato dall’arte, la sua capacità di saltare filtri e mediazioni e rimandarci alla profondità dell’esistenza, sono oggi in fase di ripensamento e ‘manutenzione’.
Una situazione, dunque, che non consente molte speranze: recuperare sul terreno della correttezza e fruibilità dell’informazione sarà sempre più difficile. La virulenza crescente dei dibattiti politici e religiosi, ad esempio, è inversamente proporzionale all’ignoranza dei dati e della storia da parte dei contendenti. Sono essi piuttosto che dominano la scena, attori spesso improvvisati e senza informazioni che occupano i media e s’illudono di costruire e dirigere il nostro futuro.
Antonio Fiori