Un testo
di Alessandro De Francesco
Con questa nota si inaugura un’ulteriore traiettoria in “via d’uscita”, mirata sulla lettura di un singolo testo che merita attenzione, a parere di chi scrive, non soltanto per il valore letterario dello stesso, bensì anche per la prospettiva di “uscita” che attraverso esso è possibile intra-vedere.
Il primo appuntamento di questo ulteriore percorso incontra un testo inedito di Alessandro De Francesco, che presso questo sito trova già pagine dedicate alla propria opera (richiamo in calce). Rimandiamo a tali pagine in merito ai rapporti evidenti di questa scrittura con la filosofia fenomenologica e con alcune linee di ricerca della poesia contemporanea europea, in particolare francese.
Ciò che qui si vuole porre in evidenza è in primo luogo un rilievo di carattere formale, ovvero il superamento della distinzione poesia#prosa in favore di una forma del testo propria che da entrambi i codici mutua quanto occorre per una propria auto-definizione (così un utilizzo non casuale degli a capo che tuttavia non significa verso; così un “montaggio” delle immagini consequenziale che tuttavia sfugge ad un principio di narratività). A ciò si aggiunga la scomparsa della punteggiatura a favore di un utilizzo dello spazio bianco che, tentando ancora indebiti parallelismi con il linguaggio filmico, sembra corrispondere ad un vuoto pieno di senso, come un rumore di fondo [insomma sembra di ascoltare la suoneria del telefono nel bianco-spazio posto al quarto verso(?)]. La sintesi di tali considerazioni conduce ad un’impressione abbastanza netta e cioè che nell’allestire la scrittura su pagina, l’autore attui una sorta di scarto ultra-mediale, superando il limite della logica-forma per arrivare ad una sollecitazione dell’immaginario di primo grado (ciò che David Lynch compie nel suo cinema, che non a caso esercita esplicite influenze sulla scrittura di De Francesco).
Venendo a ciò che il testo significa, entra in gioco una riflessione che non può prescindere dalla “lettura” della forma sopra accennata. Se forma è contenuto, allora la stessa portata interrogativa che producono il superamento del genere e lo scarto dal codice e dalle sue leggi, costituiscono strumento e vettore di un interrogativo sul rapporto tra identità e funzione, tra conoscenza e riconoscimento. Privando un oggetto, fosse anche l’oggetto “uomo”, della sua funzione dichiarata, è possibile immaginare e rivelare una ulteriore funzionalità dello stesso oggetto, magari del tutto scissa dalla prima? Rimarremmo in un ambito “poeticamente” logico ma irreale – vengono ad esempio le opere di Panamarenko – o la scomessa sarebbe giocata su un piano di effettività? E ancora: se si cancellano i dati di un sistema circoscritto (memoria) è possibile che si determini comunque un processo di riconoscimento di sé attraverso i dati dell’ambiente che circonda? E di quanto può variare l’identità attraverso una diversa identificazione? Qualora ciò fosse e nel momento in cui il processo di determinazione risultasse di auto-determinazione, saremmo di fronte ad un’ipotesi di “via d’uscita” tanto suggestiva quanto imprevedibile in merito agli esiti di quella che verrebbe ad essere una civiltà oltre la civilizzazione. Ma, a questo proposito e ponendosi di fronte ad uno scenario evidentemente postculturale, che valore assume la permanenza di un’ignoranza? È una domanda che rivolgiamo all’autore…
Giulio Marzaioli
lo cercano lo hanno privato di funzione come se il palazzo di fronte esistesse nella finestra soltanto gli propongono dei codici a barre che non sa leggere di comportamento lo chiamano al telefono ma potrebbe anche essere vuole sapere chi è da dove nasce si tende a vedere limiti altre cose nelle cose le cause dei fatti la mancanza di dati su tutto ma soprattutto su quanto importa due ignoranze
l’una voluta da qualcuno
l’altra permanente
Alcune pagine in rete sulla poesia di Alessandro De Francesco: