Risulta assai arduo trovare oggi nel pur così vasto panorama letterario maestri ispiratori, poeti capaci di “segnare la strada”, indicare percorsi alternativi, creare poesia nuova. Che cos’è la poesia, che funzione assume nella società contemporanea? Sono interrogativi ai quali ogni poeta cerca di dare una propria risposta, spiegazione, dimensione attraverso una continua ricerca, cercando di indagare l’uomo nel suo inconscio, di carpire i suoi misteri, di attenuare l’angoscia esistenziale, oltrepassando la soglia dell’indefinito. Uno degli ultimi “incantatori”, che ha fatto la storia della poesia moderna è l’ormai ottantenne Andrea Zanzotto, considerato, a pieno titolo, dalla critica come uno dei più importanti ed illuminati poeti del secondo Novecento. Già Montale lo aveva indicato nel Diario postumo come suo erede, anche se il primo ad attirare l’attenzione sulla poesia di Zanzotto è stato Ungaretti.
La poesia, secondo le stesse parole di Zanzotto, è «prima figura dell'impegno: perché non solamente essa deve e può parlare della libertà, dire cioè la prepotente “sortita” dell'uomo dalle barriere di ogni condizionamento, e il superamento di qualunque “dato”; ma col suo solo apparire, col suo sì essa dà inizio alla sortita, al processo di liberazione. La poesia, come la libertà è “una sola parola” quella che “salva l'anima” in una suprema proposta qualitativa…». La sua ricerca si svolge tutta nell’ambito del linguaggio, della possibilità espressiva: «Il problema di Zanzotto è quello di produrre attraverso la lingua un punto di vista esterno alla lingua, di estrarre dall’esperienza linguistica della realtà, il mondo e di farlo esistere, dargli gioco e autonomia» (Bonfiglio). La sua indagine corre per certi versi parallela a quella compiuta dai poeti della neoavanguardia, ma con tratti caratteristici e motivazioni differenti. Il poeta si discosta da questa corrente, che del caos del mondo moderno ha fatto il perno della propria poesia. Zanzotto cerca di dare un ordine ad un mondo troppo complesso, esplora e rappresenta le angosce e le ossessioni, conduce un’incessante ricerca, una sperimentazione che rivela un linguaggio autentico, originale. Il suo modo di esprimersi è una mescolanza di latino, provenzale, dialetto veneto e petel, in una combinazione verbale che però non è mai fine a se stessa. Egli addirittura arriva a dubitare dell’esistenza di un mondo reale: si chiede, ponendo un interrogativo inquietante, se la realtà esista davvero, se tutta l’esperienza esistenziale non si riduca a puro stato allucinatorio, a pura vita psichica soggettiva.
La sua poesia può risultare, a volte, di difficile approccio, va quindi letta, riletta e meditata.
Penso di non violare alcun segreto se mi permetto di citare un’unica frase, da una breve personale che ho avuto l’onore di ricevere dal poeta il luglio scorso, messaggio rivolto alle nuove generazioni: «A voi giovani il compito durissimo di salvare la vita e la poesia». (Paola Mara De Maestri)
A questo ponte
A questo ponte
finisce il freddo del prato
finisce il freddo del cielo
e della cieca luce,
finisce il freddo del tuo volto
e del tuo cuore simile a una croce,
finisce il sole con spine.
Le danze segrete delle acque
e degli alberi
intorno al sole domato
io sento nel freddo del prato
che affonda sotto il ponte.
(in Andrea Zanzotto, A che valse?)
Quelle fittissime bacche rosse
a pannocchiette a pennacchi
dentro l’orribile precocità
d’un ottobre-cristallo
mentitore, come tutto lo è, qui–
quasi ferendo di beltà rancorosa
e amoroso rancore
tradiscono e inibiscono
in mille stordimenti
ma che cosa, ma chi?
Quei ramoscelli che si addensano in
immote emanazioni di
paralizzanti spari raffiche accecanti
di buriana
che ci avviluppa portandoci in bocca
latte-veleno di sue glaciali mammelle
o “troppo tardi” in fessure di stagioni oblique
-eppure non c’è, non risuona alcun “tardi” giammai –
Ecco le bacche invetriate fino a non avere più verbo alcuno
nella selvatichezza di un incerto recinto di spine
Sperduto in punta di lingua al confine
dl visibile e in grate catturate
come da barbie-miniwitches,
da loro affatturate.
(in Andrea Zanzotto, Carità romane)
BREVE NOTA BIOBIBLIOGRAFICA. Andrea Zanzotto è nato il 10 ottobre 1921 a Pieve di Soligo in provincia di Treviso dove tutt’oggi vive. Ha iniziato ad insegnare all’età di sedici anni. Laureatosi in Lettere all’Università di Padova nel 1941, ha poi vissuto a lungo all’estero, in Francia e in Svizzera. Oltre che poeta, è autore di racconti e di acuti saggi critici, specie su contemporanei (Montale, Ungaretti, Sereni). Dopo l’esordio di Dietro il paesaggio (1951) Zanzotto, attraverso Vocativo (1957) e IX Ecloghe (1962), sperimenta nuove soluzioni linguistiche, percependo l’invadenza drammatica della nuova realtà industriale. Ne La Beltà (1968), tra le raccolte più significative del dopoguerra, tutto viene posto in discussione. Seguono Il Galateo nel bosco (1978), Fosfeni (1983), Meteo (1996). Tutti i testi di Andrea Zanzotto, le poesie e prose scelte sono pubblicate da Mondatori, nella collana “I Meridiani” (Milano 1999).
(dalla “Bottega letteraria” n. 14 – 'l Gazetin, marzo 2004
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