L’editore – «...non bisogna saccheggiare il vocabolario… chi scrive deve avere l’umiltà di mettere la propria scrittura al servizio della storia, mai il contrario».
È uscito da pochi giorni in tutte le edicole d’Italia Avana killing, un vero e proprio romanzo che si snoda rispettando, forse inconsapevolmente, lo schema di Todoroff, protagonisti, antagonisti, intreccio, suspense, risoluzione dell’intreccio, finale a sorpresa. Come tutti i lavori di Lupi è difficile da inquadrare in un genere preciso. Quando il lettore pensa di trovarsi nell’ambito del noir, il ritmo della narrazione rallenta, gli squarci di mare e delle notti che ne portano il respiro, dilatano il tempo e incorniciano la presentazione dei protagonisti,indagati nell’animo, nei loro amori ed odi , nella perdita di se stessi e loro ritrovamento.
Il motivo conduttore del testo consiste quindi da una parte nell’attesa della risoluzione di eventi tragici che macchiano di orrore, sangue e dolore la vita di molti e dall’altra, nell’occhio che indaga i loro movimenti, i dubbi, le paure in un lento procedere quasi senza tempo. Una regia doppia come se all’accaduto non potesse non essere dato spazio al dolore che sempre accompagna i crimini e le pazzie della mente.
L’Avana rimane quadro essenziale nel quale si muovono protagonisti, comparse e azioni, i riferimenti al periodo speciale sono accennati ma esistenti; anche qui, come in tutta la produzione di Gordiano Lupi, la povertà, l’arrangiarsi, l’illecito derivato dalla miseria, la solitudine di esistenze perse, aiutano a capire e introducono il lettore in un mondo dove santeria e religione, Dio e Diavolo, sortilegi e confessione si mescolano, si ingarbugliano, si raccontano attorno ad una figura di madre.
Isabel rimarrà l’unico personaggio non deturpato dal tempo, bella anche quando scossa, madonna piangente una pietas che la spingerà fino alla fine, oltre l’umano, oltre il pensabile e oltre il giusto. Di lei si colgono le affettuosità, le dolcezze, l’incredulità, la passione per il figlio, i capelli scomposti dal vento, il passo lento come se volesse ritardare il succedersi degli eventi. Il coma si insinua come dubbio anche nel lettore, di una “dormienza” quasi migliore ad una vita disperata e senza via d’uscita.
La tracotanza è punita dagli dei – dicevano gli antichi greci – l’uomo non può e non deve pensare di essere se non una scacco in mano alla divinità, alla fatalità, al destino. Solo quando ciò verrà accettato, il romanzo si concluderà in un risistemazione delle tessere che, infinite si erano macchiate di sangue nel mare che faticosamente respirava.
Patrizia Garofalo
CAPITOLO UNO
Storia di Isabel e Roberto:
fatiche e delusioni
Isabel si chiedeva perché fosse accaduto proprio a lei. Da più di un mese Roberto era ricoverato all’ex Ospedale Militare della Villa Panamericana e non dava segni di vita. Coma, avevano detto i medici. Coma profondo. E nessuno ne comprendeva il motivo. Suo figlio era sprofondato in un letto, collegato con dei fili ai monitor e alimentato con delle flebo.
La povera donna provava a darsi coraggio e cercava di convincersi che si trattava di uno strano virus e che prima o poi avrebbe abbandonato il corpo del figlio. Le restava soltanto quel ragazzo di vent’anni e non voleva perderlo. Senza di lui la sua vita non avrebbe avuto più senso.
Isabel era rimasta sola con Roberto quando lui aveva cinque anni. Fu allora che il marito scappò a Miami a bordo d’una zattera. Enrique era stato membro del partito e aveva frequentato la redazione del Granma, sognando di diventare giornalista, aveva creduto in quella rivoluzione e nelle idee socialiste. Era vero che con il tempo la passione si era stemperata. Era vero che le cose erano cambiate. Ma lei non capiva perché la delusione avesse portato suo marito al punto di voler scappare da Cuba come se fosse diventata una prigione. Isabel invece amava lo stesso la sua terra, non era disposta a fuggire con lui.
Discutevano spesso del suo progetto di espatriare, per andare a cercare altrove la libertà e una nuova vita. Lui cercava di convincerla a seguirlo con il loro bambino, ma lei era irremovibile. Non riusciva a vedersi in una terra straniera, lontana dal suo mondo.
“Ci siamo”, aveva annunciato una sera. “Finalmente ci sono degli amici che stanno organizzando delle zattere. Dobbiamo decidere, o adesso o mai più”.
Erano due posizioni inconciliabili: lui sognava una nuova vita, al di là di quel braccio di mare che li separava dalla Florida, lei era tenacemente legata a quella realtà, per quanto fosse dura e senza prospettive future.
“Pensa al futuro di nostro figlio”, diceva lui per convincerla. “Negli Stati Uniti avrebbe molte opportunità, potrebbe fare grandi cose”.
“Il futuro di nostro figlio è qui, non da profugo in terra straniera”, si ostinava lei.
Fu così che Enrique, quando le zattere furono pronte a salpare, prese la decisione. “Io me ne vado, Isabel. Non ne posso più di stare qui a morire di fame. Voglio provare a fare le cose in cui credo”.
“E tu pensi che dove andrai lo potrai fare?”
“Almeno potrò provarci”.
Non si erano detti altro. Lui era partito la notte stessa da Mariel con altri disperati. Le zattere erano riuscite a passare inosservate tra le maglie delle motovedette di sorveglianza e ad approdare sulla costa degli Stati Uniti. E Isabel era rimasta sola col suo bambino.
I primi tempi erano stati durissimi. Lei non faceva che piangere, mentre il piccolo le tirava la gonna e chiedeva: “Cosa c’è mamma? Perché piangi?”.
Lei scuoteva la testa. “Non è niente, Roberto. Il tuo papà un giorno tornerà e saremo felici come prima”.
Invece Enrique non era tornato e non aveva più dato notizie di sé. A Isabel non restava che considerarsi vedova, tirare su da sola quel figlio che cresceva bello e sano e più cresceva più assomigliava al padre, le ricordava gli occhi neri e profondi, i capelli arricciati e il sorriso aperto che illuminava un viso fiero e spavaldo.
Isabel aveva un buon lavoro, anche se mal pagato. Era maestra alla scuola primaria di Alamar e qui iscrisse anche il figlio, così lo poteva portare con sé in classe e accudire mentre era in servizio. E poi lavorare la faceva star bene, il contatto con i ragazzi, sapersi utile a qualcuno era pur sempre una cosa importante. Ma i pochi pesos dello stipendio non bastavano per provvedere a tutte le necessità della casa e del bambino. Doveva cercare un’altra fonte di reddito.
Per una bella donna come lei sarebbe stato facile procurarsi dei guadagni extra, vista l’abbondanza di turisti disposti a pagare per procurarsi un incontro erotico, ma Isabel non era disposta a simili compromessi. Non solo non valorizzava la sua bellezza, ma faceva di tutto per occultarla. I suoi meravigliosi capelli biondi si limitava a lavarli, senza mai metterli nelle mani di un parrucchiere. Il suo corpo esile e slanciato veniva avvolto in pantaloni e giubbetti jeans. Si poteva dire che nessuno avesse visto le sue gambe e la scollatura del suo seno. Solo i suoi occhi, i suoi luminosi occhi azzurri non riusciva a mascherarli. Anche se talvolta resi opachi dalla tristezza e dalla fatica, quegli occhi catturavano subito l‘attenzione. Ma la compostezza e la dignità del suo atteggiamento non incoraggiavano nessuno alla confidenza, nessun uomo dei pochi con cui veniva a contatto si permetteva di molestarla.
Una fonte di guadagni supplementari la trovò nel commercio clandestino. Trafficava con ogni sorta di merci. Alimentari, soprattutto. Vendeva in città quello che comprava dai contadini. Non mancavano i rischi perché il mercato nero era una cosa controrivoluzionaria che la legge puniva con la galera. Quando Roberto compì dieci anni Fidel proclamò il cosiddetto periodo speciale. Isabel ricordava bene quel discorso, perché andò in Piazza della Rivoluzione a sentirlo. Furono parole dure e preoccupate quelle del lider maximo. Ci sarà da stringere la cintura e rimboccarsi le maniche, disse. Parevano soltanto parole, uno dei tanti lunghi discorsi che avevano lo scopo di tenere desto lo spirito rivoluzionario. Isabel non avrebbe mai immaginato quello che sarebbe accaduto dopo. Era caduto un muro a Berlino e un mondo diviso in due blocchi non esisteva più. Fuori dall’orbita dell’Unione Sovietica, Cuba rimaneva sola a lottare, ultimo baluardo di ideali che il tempo stava sgretolando inesorabilmente ovunque. E i cubani, ormai soli, senza alleati e senza risorse, ne avrebbero subito le conseguenze. La ricetta era soltanto soffrire, rinunciare al superfluo e perfino al necessario. Questo era il senso delle parole di Fidel.
Isabel ricordava di aver passato anni senza assaggiare il sapore della carne, la tessera del razionamento permetteva di comprare una sempre minore quantità di alimenti. Alla bodega gli scaffali erano quasi sempre vuoti. La stampa e la televisione incolpavano di tutto l’embargo statunitense, spietato affamatore d’un popolo che però non cedeva, a denti stretti reagiva alla prepotenza del più forte. Cominciarono a sparire gatti e cani per le strade di città e paesi e all’Avana c’era chi diceva che il fegato che vendevano al mercato nero venisse dai cadaveri dell’obitorio. Furono anni duri. Isabel ricordava di averli affrontati con coraggio e di aver patito la fame perché a Roberto non mancasse niente. Quando era libera dalla scuola andava alla fabbrica di plastica di Guanabacoa vicino al Cementerio Viejo e qui attendeva che i capi azienda cessassero il servizio. Isabel era d’accordo con alcuni operai e comprava da loro a poco prezzo bicchieri, piatti, secchi, bottiglie di plastica che poi rivendeva con un piccolo guadagno ai ristoranti di Alamar. Oppure acquistava scatole di biscotti nella fabbrica sulla via Blanca, poco prima della Rotonda di Guanabacoa. Uno scatolone di biscotti glielo davano per cinquanta pesos e lei poteva rivenderli a più del doppio. Poi c’era il Ristorante Pio Pio di Guanabacoa che serviva pollo fritto e patate a ogni ora del giorno ai pochi cubani che se lo potevano permettere. Isabel era diventata amica dell’amministratore e del capo dispensa che le fornivano quotidianamente venti libbre di riso e un buon quantitativo di fagioli per cento pesos. Il riso e i fagioli si vendevano bene un po’ ovunque, poi quel che avanzava lo portava a casa per metterlo in tavola.
Unico conforto in quella vita dura e senza svaghi erano le sue visite alla parrocchia di Alamar, la chiesa della Caridad, dove officiava padre Antonio. Quel prete le era sempre piaciuto, le incuteva affetto e soggezione insieme. C’era qualcosa di ieratico e di particolarmente solenne nel modo in cui diceva la messa, specialmente quando si voltava verso i fedeli con quelle sue grandi mani benedicenti.
Isabel andava in parrocchia non solo alla messa della domenica ma, quando poteva, anche durante la settimana, magari con la scusa di confessarsi. Padre Antonio, con quello sguardo buono e saggio, riusciva sempre a dirle qualcosa che le risollevava o spirito. A volte parlavano a lungo anche fuori dal confessionale, nella grande sacristia o anche seduti sui gradini del sagrato. Isabel gli confidava le sue pene, i suoi crucci, i suoi piccoli peccati. E soprattutto gli parlava di Roberto, gli chiedeva consiglio per crescerlo e fare di lui un uomo coscienzioso e responsabile.
Per fortuna Roberto cresceva in fretta, a quindici anni già portava a casa denaro e si dava da fare. Vendeva pepeghé ai turisti, quelle pastiglie energetiche di colore giallo che curano il colesterolo ma hanno anche prodigiosi effetti sulla virilità dei maschi. Trafficava con puri cubani comprati di contrabbando dagli operai della fabbrica di sigari vicino al Capitolio. Procurava ragazze ai turisti. Era minorenne e rischiava poco, la polizia non lo perquisiva e lo lasciavano passare. Lei era contenta di quel figlio che nel fisico era tutto suo padre ma aveva un carattere completamente diverso.
“Mamma, io non ti lascerò mai e con me sarai sempre al sicuro”, le aveva detto il giorno del suo diciottesimo compleanno, davanti a un dolce che avevano acquistato non senza sacrificio.
Isabel era nata davanti al mare di Alamar, in faccia all’oceano. Aveva sempre visto le barche dei pescatori spingersi oltre l’orizzonte di buon mattino. Aveva sempre saputo fare a meno del superfluo. Non si vive per avere, diceva Fidel. Per lei era sempre stata quella la regola di vita. Lei aveva suo figlio e quella era la ricchezza, non desiderava altro. Un modo per vivere lo avrebbe sempre inventato.
I cubani qualcosa inventano sempre, le diceva suo padre quando era piccola, anche quando c’era l’odioso dittatore Fulgenzio Batista inventavano. La Rivoluzione avrebbe dovuto cambiare le cose e lo Stato avrebbe provveduto a tutto. Ma questo non era più vero da tanto tempo, purtroppo.
Roberto cresceva ed era sempre più di aiuto. Le strade dell’Avana divennero presto per lui terreno di caccia. Era un bel ragazzo, di alta statura, con le spalle larghe e i modi sicuri. Piaceva a tutte le donne e lui aveva imparato a piacere soprattutto a quelle che pagavano. Incontrava straniere di tutte le età, le accompagnava a ballare, faceva conoscere gli angoli segreti della capitale, e dopo aver fatto la guida turistica finiva a letto con loro. Aveva capito da tempo che vivere voleva dire lottare, senza guardare troppo per il sottile. E lui lottava, con il sorriso sulle labbra, come sua madre gli aveva insegnato a fare, perché la vita era quella e andava vissuta con coraggio. Anzi, con spavalderia.
Da AVANA KILLING di Gordiano Lupi, Edizioni Sered, 2008
In LETTERATITUDINE, Massimo Maugeri ha intavolato, a partire dal romanzo di Lupi, e conduce un'interessante discussione sulla situazione cubana, Yoani Sánchez, etc.
Qui per chi fosse interessato a intervenirvi o a seguirla.