«Se puoi chiudere la mano a pugno, significa che la mano è vuota». (La tigre e il dragone, film di Ang Lee, 2000)
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A volte, i miei seminari cominciano così: chiedo alle persone di mettersi in coppia, preferibilmente con qualcuno che non conoscono, e di chiudere una mano a pugno. L'altra persona ha il compito di tentare di aprire quella mano. Ci crediate o no, fino ad ora tutti quelli che ignoravano l'esercizio (chi lo conosce ha l'incarico di chiudere il pugno e di non svelare il segreto per i venti secondi di durata), comprese le persone con alle spalle training ed approfondimenti vari, hanno tentato di aprire la mano dell'altra persona con la forza. Che ci riescano o meno, questa è la domanda che faccio al termine della prova: come vi siete sentiti, cosa provavate? Rabbia, angoscia, disagio sono le risposte più comuni sia che si stesse resistendo con il pugno chiuso, sia che si stesse forzando la sua apertura. A questo punto, invito qualcuno a rifare la cosa con me, ovvero a tendermi il suo pugno, e gli chiedo gentilmente di tenermi le chiavi, oppure gli offro una caramella, o ancora domando con un sorriso: potresti aprire la mano, per favore? E la mano, invariabilmente, si apre.
Questa minuscola faccenda mi conferma di continuo che riceviamo un intenso addestramento alla violenza, e che esso è talmente profondo e radicato da indurci a ritenerla il primo e il più efficace mezzo per ottenere ciò che vogliamo; mi conferma anche, naturalmente, che è possibile ottenere ciò che vogliamo con metodi creativi, senza ferire altri e senza ferire noi stessi.
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Il prossimo 2 ottobre è la “Giornata internazionale della nonviolenza”. Spesso le ricorrenze ufficiali sembrano non dire nulla: per esempio, ho perso il conto delle donne che in occasione dell'8 marzo mi chiedono sconsolate “C'e' forse qualcosa da celebrare?”. A questo punto, prima di imbarcarmi nella lista (composta da fatti per cui gioire, e da circostanze ove vi è da lottare per un cambiamento), replico: “Sì, personalmente comincio dal celebrare te, una donna intelligente e sensibile che può studiare, votare e amare se stessa grazie al lavoro e all'impegno di centinaia e centinaia di altre donne venute prima di lei”. Se quindi volete sapere cosa c'è da celebrare il 2 ottobre, eccovi un suggerimento: un terzo del nostro pianeta è composto da paesi in cui movimenti sociali hanno apportato grandi cambiamenti tramite azioni nonviolente. Questi movimenti hanno avuto successo in situazioni assai difficili, sfidando alcuni dei peggiori regimi del XX secolo: Marcos nelle Filippine, Ceausescu in Romania, l'apartheid in Sudafrica, il dominio sovietico in Latvia, Lituania ed Estonia. Se nel conto mettiamo, saltando indietro di cinquant'anni, la liberazione dell'India, la resistenza al nazismo in Danimarca e Norvegia, e il movimento per i diritti civili negli Usa, le persone che hanno sperimentato la forza della nonviolenza salgono a due terzi nel mondo. Se consideriamo che i movimenti femministi hanno alle spalle, globalmente, circa due secoli di vittorie ottenute con mezzi nonviolenti, lo spettro è ancora più ampio. Direi che di storie da raccontare, per cui festeggiare e da cui imparare ne abbiamo parecchie.
Nonostante ciò, la percezione comune è che la nonviolenza sia inefficace: continuiamo a presumere, con Mao, che “il potere nasce dalla canna del fucile”, e ciò non è sorprendente se si pensa alla tradizionale associazione degli uomini con il possesso e l'uso delle armi. Che uccidere sia l'essenza del “vero” uomo è un costrutto di propaganda che conta qualche migliaio di anni ed il sostegno di parecchie argomentazioni pseudo-scientifiche: su tutte, quella che la violenza sia il principale motore delle civiltà umane. Naturalmente è un falso, come le ricerche storiche, antropologiche ed archeologiche degli ultimi quarant'anni hanno ormai dimostrato: l'umanità è sopravvissuta ed ha prosperato perché i suoi membri hanno saputo condividere le risorse, essere solidali, cooperare, trattarsi l'un l'altro con considerazione per un lunghissimo periodo di tempo.
Le ricorrenze servono anche a questo, a non perdere la memoria: guardare indietro ci dà le radici necessarie affinché lo slancio in avanti non sia un salto nel vuoto. E non ha importanza da che parte si arrivi alla nonviolenza, se a suggerirla è una fede religiosa, una disamina laica della storia, o semplicemente un empito umano. È davvero importante, invece, capire bene cosa la nonviolenza è, come può trasformare la nostra vita e la sorte di questo pianeta in pericolo; è davvero importante sapere che non si tratta del “karaté dei quaccheri” o di una semplice tecnica che possiamo prendere e lasciare a nostro piacimento alternandola con la “violenza purtroppo necessaria”: in questo caso anche se la userete non funzionerà, perché ci avrete messo il cervello e non il cuore. Allo stesso modo non funzionerà se pensate sia solo un percorso individuale dello spirito, qualcosa che vi serve a meditare in mezzo ai fiori e a sentirvi in pace con voi stessi: perché ci avrete messo il cuore e non il cervello.
Ogni volta in cui pensiamo di poter separare con un taglio d'accetta la razionalità dalle emozioni dimentichiamo che esse sono strettamente connesse, che le nostre vite sono connesse, e che tutto ciò che è vivo sulla Terra è in relazione. La relazione ci permette non solo di sopravvivere, ma di vivere bene, di esercitare i nostri talenti, di amare. E ci permette di condurre lotte nonviolente sopportandone fatiche e sofferenze e godendone tutti i momenti di gioia.
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Questo direi, se dovessi parlare a qualcuno per celebrare la Giornata internazionale il 2 ottobre: non mi sono mai pentita di aver scelto la nonviolenza, e nei momenti bui è stata la mia ancora di salvezza, perciò mi auguro, e vi auguro, di avervi presto con me sulla medesima via.
Maria G. Di Rienzo
(da Voci e volti della nonviolenza, 27 settembre 2008)