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Leggere insieme: pagine da "La notte" di Elie Wiesel
Elie Wiesel
Elie Wiesel 
25 Settembre 2008
 

Per “Leggere insieme”, presentiamo alcune pagine tratte dal libro di Elie Wiesel La notte, un romanzo autobiografico, in cui l’autore racconta la sua triste esperienza nel lager.

Wiesel ha dodici anni, quando viene brutalmente sottratto, per pura follia umana, alla normalità della sua vita, vissuta serenamente con i genitori e le sorelle, e condotto in un campo di concentramento, dove sarà strappato con violenza alla sua adolescenza e reso testimone della più turpe aberrazione umana. Perderà la madre e la sorella e assisterà impotente alla morte del padre.

Scampato miracolosamente alla morte, Wiesel ha voluto narrare quanto da lui visto e vissuto, perché tutti sapessero e meditassero.

La notte, come il titolo stesso indica, è un romanzo di morte; un documento fotografico di uno dei più cupi periodi della storia dell’umanità.

Leggiamo insieme alcune pagine, tratte dal libro, in cui l’autore descrive il rapporto col padre nel lager, con l’invito, rivolto essenzialmente ai giovani, a leggere il testo integrale, per la sua valenza storico-educativa.

A. L.

 

 

Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.

Mai dimenticherò quel fumo.

Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.

Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere.

Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.

Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai. (dal cap. III)

 

Verso le cinque del mattino ci cacciarono dalla baracca. Dei kapò ci picchiavano di nuovo, ma io non sentivo più il dolore dei colpi. Un vento gelido ci avvolgeva. Eravamo nudi, scarpe e cintura in mano. Un ordine: «Correre!» E tutti a correre. Dopo qualche minuto di corsa, una nuova baracca.

Un barile di petrolio sulla porta. Disinfezione. Ci si bagna tutti. Poi una doccia calda. In gran fretta. Usciti dall’acqua, si è cacciati fuori. Correre ancora.

Ancora una baracca: il magazzino. Lunghissime tavole. Montagne di casacche per detenuti. Noi corriamo. Quando passiamo ci lanciano pantaloni, giacca, camicia e calzini.

In pochi secondi abbiamo cessato di essere uomini. Se la situazione non fosse stata tragica avremmo potuto scoppiare a ridere.

Detti un’occhiata a mio padre. Com’era cambiato! I suoi occhi si erano offuscati. Avrei voluto dirgli qualcosa, ma non sapevo cosa.

La notte era completamente passata. La stella del mattino brilla in cielo. Anch’io ero divenuto del tutto un altro uomo. Lo studente del Talmud, il ragazzo che ero, si erano consumati nelle fiamme. Restava soltanto una sembianza. Una fiamma nera si era introdotta nella mia anima e l’aveva divorata. Erano accadute tante cose in così poche ore che avevo perduto la nozione del tempo. Quando avevamo lasciato le nostre case? E il ghetto? E il treno? Soltanto una settimana? Una notte, una sola notte? Da quanto tempo ci tengono così nel vento gelido? Un’ora? Solo un’ora? Sessanta minuti?

Era sicuramente un sogno. (dal cap. III)

 

A mio padre venne improvvisamente una colica, si alzò e andò dallo zingaro, chiedendogli educatamente in tedesco:-Scusate…Potete dirmi dove si trovano i gabinetti?

Lo zingaro lo squadrò a lungo, dalla testa ai piedi, come se avesse voluto convincersi che l’uomo che gli rivolgeva la parola fosse in carne e ossa, un essere vivente con un corpo e un ventre. Poi, come improvvisamente risvegliato da un lungo sonno, allungò a mio padre uno schiaffo tale che lo fece cadere per terra. Mio padre tornò carponi al suo posto.

Io ero rimasto pietrificato. Cosa mi era dunque successo? Avevano picchiato mio padre, davanti ai miei occhi, e io non avevo battuto ciglio. Avevo guardato e avevo taciuto. Ieri, avrei affondato le mie unghie nella carne di quel criminale. Ero dunque così cambiato? Così in fretta? Il rimorso cominciava a tormentarmi. Pensavo solamente: non li perdonerò mai.

Mio padre doveva aver intuito tutto e mi sussurrò all’orecchio: “Non fa male”, sulla guancia ancora il segno rosso della mano. (dal cap. III)

 

Un giorno, mentre tornavamo dal lavoro, vedemmo tre forche drizzate sul piazzale  dell’appello:tre corvi neri. Appello. Le SS intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia. Tre condannati incatenati, e fra di loro il piccolo pipel, l’angelo dagli occhi tristi…

Il Lagerkapo si rifiutò questa volta di servire da boia. Tre SS lo sostituirono.

I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.

Viva la libertà!” gridarono i due adulti.

Il piccolo, lui, taceva.

Dov’è il buon Dio? Dov’è?” domandò qualcuno dietro di me.

A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte.

Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramontava.

Scopritevi! “Urlò il capo del campo. La sua voce era rauca. Quanto a noi, noi pingevamo.

Copriteli!

Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora…

Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi.

Dietro di me udii il solito uomo domandare:”Dov’è dunque Dio?

E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:”Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…

Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere. (dal cap. IV)

 

Per un lungo momento restammo sul piazzale dell’appello. Nessuno osava strapparsi da quel miraggio. Poi arrivò l’ora di andare a letto, e i detenuti tornarono a piccoli passi ai loro blocchi. Li sentii augurarsi un buon anno!

Partii di corsa alla ricerca di mio padre, anche se avevo paura di dovergli augurare un felice anno, cosa a cui non credevo più.

Lo trovai in piedi vicino al blocco, appoggiato al muro, curvo, le spalle accasciate come sotto un grande peso. Gli andai vicino, gli presi una mano e la baciai. Cadde una lacrima. Di chi era quella lacrima? Mia? Sua? Non dissi nulla. Lui neanche: non ci eravamo mai capiti così perfettamente.

Il suono della campana ci rigettò nella realtà: bisognava andare a letto, tornando da molto lontano. Alzai gli occhi per vedere il volto di mio padre chinato su di me, per cercare di sorprendere un sorriso o qualcosa che gli assomigliasse su quel suo viso smunto e invecchiato. Nulla, neanche l’ombra di una qualsiasi espressione. Vinto.(dal cap.V)

 

La campana era appena suonata.

In fila!”

Poco importava adesso che il lavoro fosse duro. L’essenziale era trovarsi lontano dal blocco, lontano dal crogiolo della morte, lontano dal centro dell’inferno.

Ma io vidi mio padre che mi correva incontro e tutto a un tratto ebbi paura.

Che succede?”

Trafelato, non riusciva ad aprire la bocca.

Anche a me …anche a me… hanno detto di restare al campo”.

Gli avevano registrato il numero senza che se ne fosse accorto.

E allora?” dissi angosciato.

Ma era lui che voleva rassicurarmi: “Non è ancora certo. Ci sono ancora delle probabilità di farla franca. Oggi faranno un’altra selezione…una selezione decisiva…”

Io tacevo.

Lui sentiva mancargli il tempo. Parlava velocemente: avrebbe voluto dirmi tante cose. Si ingarbugliava con le parole, la voce strozzata. Sapeva che presto avrei dovuto andare al lavoro, e lui sarebbe rimasto solo, così solo…

Tieni, prendi questo coltello,” mi disse “non ne ho più bisogno. Ti potrà servire. E prendi anche questo cucchiaio. Non li vendere. Presto! Su, prendi quello che ti do!”

L’eredità…

Non dire così, papà”. (Mi sentivo sul punto di scoppiare in singhiozzi). “Non voglio che tu dica così. Conserva il cucchiaio e il coltello. Ne hai bisogno quanto me. Ci rivedremo stasera, dopo il lavoro”.

Lui mi fissò con i suoi occhi stanchi e velati dalla disperazione e replicò:

Te lo chiedo per favore… Prendili, fai ciò che ti dico, figlio mio. Non abbiamo tempo… Fai ciò che ti dice tuo padre”.

Il nostro kapò urlò di mettersi in marcia.

Il commando si diresse verso la porta del campo. Sinistr’, destr’! io mi mordevo le labbra. Mio padre era rimasto vicino al blocco, appoggiato al muro. Poi si mise a correre, per raggiungerci. Forse aveva dimenticato di dirmi qualcosa…Ma noi marciavamo troppo velocemente… (dal cap.V)

 

Tre giorni dopo la liberazione di Buchenwald io caddi gravemente ammalato: un’intossicazione. Fui trasferito all’ospedale e passai due settimane fra la vita e la morte.

Un giorno riuscii ad alzarmi, dopo aver raccolto tutte le mie forze. Volevo vedermi nello specchio che era appeso al muro di fronte: non mi ero più visto dal ghetto.

Dal fondo dello specchio un cadavere mi contemplava.

Il suo sguardo nei miei occhi non mi lascia più. (dal cap. IX)

 

 

Elie Wiesel è nato a Sighet, una cittadina della Transilvania, nel 1928. La sua famiglia apparteneva a un gruppo di ebrei ungheresi stabilitisi in Romania. Rinchiuso prima nel ghetto e poi deportato nel 1944, conobbe i campi di concentramento di Birkenau dove perderà la madre e la sorella, di Auschwitz, di Buna e di Buchenwald dove assisterà impotente alla morte del padre. Scampato miracolosamente allo sterminio, dopo la Liberazione si stabilì dapprima in Francia, dove studiò e si dedicò al giornalismo, e poi negli Stati Uniti. Attualmente insegna all’Università di Boston.


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