Il poeta e critico toscano continua la sua indagine, ricorrendo al paradosso estetico, sull'arte del Novecento nei suoi esiti contemporanei.
Nel numero 92-93 di Erba D’Arno inaugurai questa rubrica per dire la mia sul degrado civile e culturale di Firenze, peraltro denunciato da varie parti. L’intervento, se fu vano forse sul piano della prassi, comunque valse da sfogo salutare, condiviso da parecchi lettori. Importante è che si alzi una voce e abbia il coraggio – modestissima audacia, del resto – di proclamare che non se ne può più, che il re infine è nudo, che quello che si respira da troppo tempo non è, detto in modo educatamente represso, un odore poco gradevole, bensì puzzo intollerabile.
La rubrica non ha subito l’assalto alla diligenza dei lettori, qual era auspicato. Molti hanno timore di esporsi, di fare brutta figura nella fascia sociale cólta o presunta tale – quella popolare è assai più spontanea – e pensano che le cose, tanto, vanno come vanno: perché porsi dunque in attrito con la gente? Se ne può sempre aver bisogno… La nostra società – un’anonima società per azioni, più che una vera civiltà – subisce la dittatura della (si scusi la chimera lessicale) Massa Mass-Mediatica; ed è, paradossalmente, proprio l’uomo-di-cultura-di-successo che più si appiattisce sul Luogo Comune, e tanto più è riconosciuto come tale dalla “3M Spa” quanto più ne teorizza la Banalità Trionfante. Se si vuole aver successo – lasciate che i pargoli vadano alla TV, ottima insegnante – bisogna vendersi l’anima; e nel farlo non c’è più vergogna, anzi, protervia ammiratissima. Francamente non so controbattere a chi l’anima (?) se l’è venduta. Dico soltanto: Signore e signori, finiremo tutti in un astuccio di legno e non come stradivari ma stoccafissi; se un pochino vogliamo suonarla una nostra musica, facciamolo finché siamo in piedi. Quanto ai permalosi, «amicus Plato, sed magis amica veritas».
Stavolta non intendo spendere molte parole, ma solo additare una situazione che, a me, letterato all’antica e dunque accantonato dai tempi, parrebbe parlare da sola. Ma certo quella che per me è verità epifanica, sinottica, per altri non sarà evidenza altrettanto nuda. Ma ci deve bloccare il timore de – ancora una volta, ancora una volta! - l’insuccesso? E dunque!
Dunque tutto, veramente TUTTO, oggi, si può definire arte, e tutti oggi sono potenzialmente, democraticamente artisti. Guai a dubitarne! Non si tratta solo di idee iperuranie, e infatti per tali questioni si scatenano gli avvocati, perché non poche persone, con la cosiddetta arte, ci vivacchiano alla grande. Ma il re è nudo come un verme - che almeno ha la sua naturale dignità di verme - e lo è da troppo tempo, tanto che l’occhio ci si è avvezzato, e questo panorama delirante appare normale. Propongo un confronto, che sarà anche drastico, anche rozzo, ma che ha il pregio di non essere ambiguo. Poi ciascuno la pensi come gli pare. Ma, per favore, o «sì sì», o «no no», la chiacchiera è malafede. (Quella dell’arte non è solo un fatto di gusti personali, ma molto, molto di più, è un dato di civiltà condivisa: se questa ancora esistesse.)
Qui di séguito vedete una scultura di Nino Pisano, la Madonna del latte, conservata a Pisa nel museo di San Matteo. È un’opera del sec. XIV, ovvero di un’età ancora superstiziosa, preilluministica e quindi semibarbarica, quel Medioevo che con smagliante sicurezza è considerato dalla “3M Spa” l’Età delle Tenebre. Non è un Luogo Comune affermare di quanto si disprezza come antiquato, premoderno: «è roba del Medioevo»? Ebbene questa Madonna è roba che proviene dall’Età delle Tenebre.
A fianco vedete una “scultura” di Maurizio Cattelan, l’italiano al mondo più quotato sul mercato dell’arte, ed è perciò ben rappresentativa della nostra Età Postmoderna, ovvero l’apice de «Le magnifiche sorti e progressive». Bella, vero? Senz’altro è storicisticamente significativa. E ciò basta ai sedicenti critici, ai mercanti nel tempio, per fare di Cattelan l’italiano al mondo più quotato sul mercato dell’arte (Tempio e Mercato oggi democraticamente coincidono). Sembra che gli artisti cinesi, che di mercato ormai se ne intendono più di noi, imitino, dopo scarpe televisori profilattici ecc. ecc., anche i bambolotti impiccati del Nostro, magari mettendoli, ecco l’originalità, a capo all’ingiù. L’Italia – risiamo al Rinascimento? – fa di nuovo scuola nel mondo. WOW !
La Madonna del latte di Nino Pisano; e i bambini-bambolotti impiccati di Cattelan non fanno forse riflettere? Che facciamo? Definiamo Età delle tenebre quella di Nino Pisano ed Età delle magnifiche sorti & Progressive quella di Cattelan?
Non vi fa riflettere, darwinianamente riflettere?
P.S. Forse non è superfluo apporre in calce la confessione di Pablo Picasso all’età di «sessantacinque o sessantasei anni», fatta a Giovanni Papini in una sua visita ad Antibes, dove il pittore risiedeva. Si tralascia la cornice, ma si riporta per intero il discorso dell’intervistato. Il testo completo si trova nel Libro nero, un testo dell’autore fiorentino non più ristampato da almeno cinquant’anni; e se ne intuisce la ragione. Parla qui Picasso.
Voi non siete un critico né un esteta, mi ha detto, e con voi posso parlare liberamente. Da giovane, come tutti i giovani, ho avuto anch’io la religione dell’arte, della grande arte. Ma poi, col passar degli anni, mi sono accorto che l’arte come s’intendeva fino a tutto l’Ottocento, è ormai finita, moribonda, condannata e che la cosiddetta “attività artistica”, con la sua stessa abbondanza, non è che la multiforme manifestazione della sua agonia. Gli uomini vanno sempre più disaffezionandosi di pitture, sculture e poesie, nonostante le contrarie apparenze. Gli uomini di oggi hanno messo il loro cuore in tutt’altre cose: le macchine, le scoperte scientifiche, la ricchezza, il dominio delle forze naturali e delle terre del mondo. Non sentono più l’arte come bisogno vitale, come necessità spirituale, a somiglianza di quel che in altri secoli accadeva. Molti di loro seguitano a fare gli artisti e ad occuparsi d’arte ma per ragioni che con l’arte vera hanno poco a che vedere, cioè per spirito d’imitazione, per nostalgia della tradizione, per forza d’inerzia, per amore dell’ostentazione, del lusso, della curiosità intellettuale, per moda o per calcolo. Vivono ancora, per abitudine e snobismo, in un recente passato, ma la grande maggioranza, in alto e in basso, non ha più una sincera e calda passione per l’arte, che considera tutt’al più come spasso, svago e ornamento. A poco a poco le nuove generazioni, innamorate di meccanica e di sport, più sincere, più ciniche e più brutali, lasceranno l’arte nei musei e nelle biblioteche, come incomprensibili e inutili relitti del passato.
«Un artista che vede chiaro in questa fine prossima, come è avvenuto a me, cosa può fare? Troppo duro partito sarebbe quello di cambiar mestiere, e pericoloso dal punto di vista alimentare. Ci sono, per lui, soltanto due strade: cercare di divertirsi e cercare di far quattrini.
«Dal momento che l’arte non è più il cibo che alimenta i migliori, l’artista può sfogarsi a suo talento in tutti i tentativi di nuove formule, in tutti i capricci della fantasia, in tutti gli espedienti del ciarlatanismo intellettuale. Nell’arte il popolo non cerca più consolazione ed esaltazione; ma i raffinati, i ricchi, gli oziosi, i lambiccatori di quintessenze, cercano il nuovo, lo strano, l’originale, lo stravagante, lo scandaloso. Ed io, dal cubismo in poi, ho contentato questi signori e questi critici con tutte le mutevoli bizzarrie che mi son venute in testa, e meno le capivano e più mi ammiravano. A forza di spassarmela con tutti questi giochi, con queste funambolerie, con i rompicapo, i rebus e gli arabeschi, son diventato celebre abbastanza presto. E la celebrità significa, per un pittore, vendite, guadagni, fortuna, ricchezza. E ora, come sapete, son celebre, son ricco. Ma, quando son solo, fra me e me, non ho il coraggio di considerarmi un artista nel senso grande e antico della parola. Veri pittori furono Giotto e Tiziano, Rembrandt e Goya: io sono soltanto un amuseur public, che ha capito il suo tempo e ha sfruttato meglio che ha saputo, l’imbecillità, la vanità e la cupidigia dei suoi contemporanei. È un’amara confessione, la mia, più dolorosa di quel che vi possa sembrare, ma ha il merito di essere sincera.
«Et après ça», ha concluso Pablo Picasso, «allons boire».
Et après ça si potrebbe completare il panorama rinviando al libello di Salvador Dalì, I cornuti della vecchia arte moderna, soavemente paranoico, così gradevolmente sincero. Per chi non se la sente di accodarsi al carro del vincitore.
Marco Cipollini