§ 1. “Il linguaggio è l’organo metafisico dell’uomo”, così un illuminato Bruno Schulz. In principio fu la Parola e tutto nacque dalla Parola, se non fosse nato dalla Parola il tutto non sarebbe nominabile. Nominare i mille volte mille frammenti del tutto, detti cose, fu il compito originario dell’uomo, e gli rimase nonostante la colpa di hybris che lo amputò dal suo fondamento. Da allora l’inquietudine è la linfa di ogni suo sentimento, la prova provata di tale scissione per cui egli smania di ricongiungersi all’Unità perduta: tutti i suoi desideri pollonano da quell’unica radice.
§ 2. I nomi sono stampi mentali delle cose (cfr. VI, 2) e per cercare un senso nelle cose l’uomo ne fa metafore dell’Assenza. Ma nominarle all’uomo non basta perché nessun Discorso può riconnettere in Unità i frammenti del tutto; anzi, è proprio la nominazione che crea la frammentazione. Ma l’uomo non può agire altrimenti, perché non possiede che le parole per uncinare le cose. Vorrebbe oltrepassarne l’orizzonte per ritrovarne il senso originario, ma il nominarle lo reclude ancor più nella loro metamorfosi (cfr. III, 3). E allora smania di sfondare il diaframma della Realtà per vedere la Verità (cfr. IV, passim). Con quale mezzo, se le parole lo tradiscono? Non possiede che le parole! Potesse udire con i suoi orecchi la Parola!
§ 3. Egli così la invoca, incessantemente, anche nel sonno la invoca e non lo sa: tanto gli urge nominare la piaga primordiale, come se ciò bastasse a sanarla. Ma il Monosillabo è sacro, e dunque innominabile. Nominarlo è concesso, ma rischiando l’idolatria: rifuggi da chi lo ha sempre in bocca! Chi con tutta l’anima lo ricerca, non lo nomina, perché ciò lo tradisce riducendolo a cosa, e dunque separandolo ancor più da chi lo ricerca. Il Monosillabo dev’essere pensato, non pronunciato. Pronunciarlo non acquieta la sete, ma è una manciata di sale nella gola prosciugata. Pensarlo è come un’ombra immensa e silenziosa che si propaga su ogni parola pronunciata. Vi si può solo accennare con timore per mezzo di perifrasi, di metafore, di ossimori, di ellissi, di negazioni, o meglio ancora con un certo sguardo elusivo.
§ 4. A questo punto della ricerca di un senso della Realtà, delle infinite Realtà di cui partecipiamo (cfr. VI, passim), i passi sbandano, rallentano incerti… Non resta che invocare mutamente il Principio di ogni Realtà, la faccia eclissata del Mito sublime. Senza nominarlo. “L’innominato non esiste per noi,” ancora Schluz. Ma nei desolati e vuoti silenzi dell’universo questo innominabile esiste proprio perché innominato. Qui la punta del piede irrigidito, tastando il margine dell’abisso, si ferma.
§ 5. INNO AL SIGNORE DEL POZZO
Il tuo nome è impronunciabile, osceno.
Cucirò le mie labbra che ne smaniano,
pregne le forerò con ago e refe:
perché mai dischiuderle nel tuo nome?
È inutile invocarti, sei lontano
oltre mille galassie, più lontano,
nelle estreme profondità del cuore…
il mio cuore è un abisso i cui confini
precipitano oltre il primo ricordo,
oltre il primo vagito è già un abisso…
Se ti rivolgo parole inceppate,
forse mi ascolti e nulla può sfuggirti,
ma in risposta non odo che un fruscio,
la sensazione di chi è spiato,
che forse è solo la smania di udire…
Se tu sei l’essere assoluto, allora
io che patisco la tua enorme assenza
sono io a non esistere, io un sogno
sfibrato fra i tuoi cigli lì ad aprirsi,
e sarà abbagliamento del mio nulla.
Se sono un’ombra, un ritaglio di niente
che scivola sul selciato dei giorni,
l’ombra di chi sono? Sono può dirlo
un’ombra? Oh vivere si può di avido
continuo scontento? Ma se feroce
sete mi piaga, acqua, devi esserci!
Dove ti cercherò? A quale abisso
tenderò le mie labbra screpolate?
Nubi obese di pioggia non trascorrono
i tuoi deserti cieli teologali,
da cui le sole gocce che a noi cadono
sono le nostre lacrime salate,
cieli inimmaginabili oltre i cieli,
nelle cui vacue immensità si sperde
ogni sospiro che alto a te leviamo…
Dove ti cercherò? Nella profonda
sete di te mi affaccio, ma da questa
cisterna vuota e buia, mai dal fondo
mi consola una sillaba di luce…
Veder potessi, o pozzo, in te riflesso
come in pupilla il mio volto remoto,
o anche una stella dall’oscuro baratro
su me incombente, e così essere certo
che al vuoto nero, in cui mi sporgo e tremo,
c’è pur qualcosa laggiù, non è il nulla!
Ma se lascio cadere nel tuo fondo
un grido di pietà, tutto è silenzio…
Se tu sei solitudine e silenzio
perché mi generasti? Come posso
chiamarti padre? Dalla tua perfetta
eternità, cui niente bisognava
del mio cuore accattone, fa’ una volta
che salga a me non la tua voce, apparsa
a chi illuso la udì dolce e paurosa,
ma del mio chiedere l’eco stremata
dai confini deserti e indifferenti
dell’universo. Ed io saprò che esisto.
SIC CIS
TE SINE TE
SICCIS
(Il motto latino significa: così [è], al di qua di / Te, senza di Te, / agli assetati.)
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