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Valter Vecellio. Del Governo Berlusconi, dell’opposizione, di noi stessi
12 Settembre 2008
 

È poco più di un articoletto scritto in una manciata di minuti prima di chiudere Notizie Radicali, quello cui fa riferimento Angiolo Bandinelli, che dalla sua risposta viene arricchito: integrato dal molto che non c’è e che avrebbe dovuto esserci. Io per primo sono sorpreso per le reazioni: non solo quella di Bandinelli, che con il suo intervento ancora una volta ha fornito a tutti noi preziosi elementi di riflessione. Sono anche giunti SMS ed email di consenso e di incoraggiamento. Grazie a tutti.

Il problema appena accennato, e da Bandinelli molto meglio descritto e raccontato, c’è tutto; e non solo all’ormai imminente congresso, ma anche prima e anche dopo, sarà opportuno e necessario discuterne.

In effetti la situazione è difficile, complessa; disperante, si sarebbe tentati di dire. Soprattutto perché chi dovrebbe/potrebbe reagire, rivela tutti i suoi limiti, le sue lacune, le sue incapacità, i suoi “vuoti”.

Dopo il diluvio elettorale, i radicali – più propriamente bisognerebbe dire Pannella, ancora una volta – hanno organizzato quell’evento politico che è stata l’assemblea di Chianciano, e i successivi appuntamenti. Iniziativa importante per il solo fatto che ha avuto luogo. Chianciano è stato il modo adeguato e puntuale di reagire alla “punizione” elettorale impartita a una sinistra che nel complesso si era presentata all’appuntamento elettorale in modo maldestro e sgangherato. La premessa da cui si è partiti è che troppa parte della società politica si è trovata senza rappresentanza nelle istituzioni: un “vuoto”, un “silenzio” dannoso per tutti, non solo per i “puniti”. Il senso più proprio dell’iniziativa è stato forse colto da Furio Colombo: «È impossibile non cogliere nel lungo percorso di Pannella fino ai giorni nostri il seme pedagogico dello spingere alla discussione politica, in tutti i modi e per qualsiasi ragione. Nel caso di Chianciano la ragione più importante era evitare il silenzio».

È stata offerta, insomma, una tribuna, un laboratorio. Una second chance. Si può provare a tracciare, per quanto sommario, parziale, un primo bilancio?

 

Michele Salvati, che è uno dei maggiori teorici del PD, ed è ascoltato “consigliere” del suo vertice – o almeno della sua componente diessina – descrive una situazione che nelle sue grandi linee corrisponde alla realtà: «I partiti della sinistra radicale sono scomparsi dal Parlamento e sono in crisi profonda. La ‘società civile’ che promuoveva i girotondi è smobilitata. Nella CGIL al posto di un Sergio Cofferati pressato dalle iniziative della FIOM e delle minoranze di sinistra, abbiamo un Guglielmo Epifani, che sta promuovendo un forte ricambio interno in direzione riformistica…». Salvati ne ricava che il PD deve cercare di chiarire «a se stesso e al Paese la sua identità riformistica proprio attraverso le misure che accetta come il governo propone, quelle che cerca di modificare e quelle che respinge. Per ognuno di questi casi spiegando il perché alla luce dei criteri di efficienza e di equità. Cinque anni sono molto lunghi. La situazione è molto grave e chi governa, anche se governa bene, corre comunque il rischio di scontentare gli italiani: oggi il potere logora chi ce l’ha, a differenza di quanto pensava Andreotti. Se il PD non spreca questi anni in faide interne, se non fa opposizione massimalistica, se dà l’idea di avere un progetto credibile per il paese, la possibilità di succedere al centro-destra nelle prossime elezioni politiche non è così incredibile come può sembrare ora».

Tre ragionevoli, condivisibili SE. Troppi, forse.

 

Claudio Fava, portavoce di Sinistra Democratica, dice che è urgente e necessario «organizzare a sinistra un incontro tra storia, cultura, sensibilità, linguaggi che hanno scelto la sinistra non come muse, ma come luogo di trasformazione del presente, laboratorio politico». E aggiunge che «con il voto di aprile gli elettori ci dicono che non si sentono rappresentati da partiti ridotti a segmenti brevi, minuti, autoreferenziali, e che vogliono una sinistra che sia capace di rappresentarli spostando in avanti il ragionamento sulla identità». Il voto del 14 aprile, dice sempre Fava, è «una lezione che ci chiede di organizzare la sinistra su di un piano di verità, di innovazione, di critica del presente e del passato, di capacità di rischio, di fantasia politica, di inclusività…».

 

Nelle stesse ore arriva un documento, strutturato in undici tesi “dopo lo Tsunami”, elaborato da Centro Studi e Iniziative per le Riforme dello Stato. Ad ascoltare la relazione di Mario Tronti, tanti gli invitati: da Alfonso Gianni a Patrizia Sentinelli, da Elettra Deiana a Maria Luisa Boccia; e poi Goffredo Bettini, Massimo D’Alema, Pierluigi Bersani, Gianni Cuperlo, Fabio Mussi, Claudio Fava, Pietro Folena, Famiano Crucianelli, Sandro Curzi, Miriam Mafai, Beppe Vacca, Alfredo Reichlin, Mauro Calise… L’elenco dei partecipanti è nutrito e prosegue, ma fermiamoci pure qui: tanto, come si sarà capito, nomi di radicali non ce ne sono, nella lista degli invitati non ne risultano. E anche questo vorrà dire qualcosa.

Secondo il CSIRS, «bisogna dire: il popolo della sinistra ha il diritto di avere, per sé, una forza politica. E poi dire: l’Italia per stare in Europa e nel mondo ha bisogno di una sinistra»; e si propone «una Grande Sinistra moderna, critica, autonoma, autorevole, popolare… La vera novità è un passo verso il passato e un passo verso l’avvenire». In luogo della “mossa del cavallo”, teorizzata anni fa da Vittorio Foa, si suggerisce la “mossa della torre”: riprendere la strada “dritta e lunga”, fino al dilemma: «fare un grande partito della sinistra o un grande partito nella sinistra»?

 

In attesa che il cruciale, decisivo, interrogativo venga sciolto (e si vedrà come) diamo un’occhiata a quanto propone Walter Veltroni; ci ricorda che «pensare la laicità al futuro è una delle ragioni costitutive del PD, uno dei tratti identitari che fanno di esso un partito nuovo, che ha saputo e intende rompere gli schemi oppositivi del Novecento per contribuire a costruire e per abitare quella che Habermas chiama la società post-secolare». PD che, secondo Veltroni, si propone come «uno dei luoghi ove l’incontro tra ispirazioni e cultura si realizza in modo quotidiano e duraturo, una delle ragioni che rendono affascinante l’impresa del PD».

Vien davvero da dire: nebbia fitta in Valpadana. Ma ancora scampoli di “dibattito”: Cesare Salvi, che annuncia l’avvio della sua fondazione Socialismo 2000, sostiene che in un paese come l’Italia, «con la sua storia, la sua tradizione, dove il mito della globalizzazione liberista non affascina più nessuno…c’è spazio per una vera sinistra. Gli attori politici hanno la responsabilità di costruirla».

 

Ho cercato di riassumere una parte delle “riflessioni” emerse in questi giorni; con questo campionario di idee e di affermazioni, dove si pensa di poter andare, per fare cosa, con chi, e come? Chi può mai entusiasmarsi di fronte a simili propositi e programmi?

Salvi è l’unico che si avvicina a uno dei nodi che abbiamo individuato a Chianciano (e molto prima, a dire la verità): «Bisognerà parlare anche della forma partito, dei suoi limiti. Come aiutare i partiti? Questo tema lo vediamo squadernato in tutto il sistema politico italiano. Il PD è un’organizzazione feudale di gruppi e di fondazioni, mentre la destra viene gestita in modo padronale».

Ancora una volta, come un anno fa, più di un anno fa, ignorati, esclusi, lasciati ai margini. Nonostante – o forse proprio per questo? – non ci si debba rimproverare, “pentire” di particolari colpe, nonostante non si siano commessi particolari e gravi errori. Per questa sinistra vale quello che scriveva Chesterton: «Ho scoperto che gli uomini non sono casualmente impegnati, bensì perennemente e sistematicamente impegnati, a gettare l’oro nelle fogne e i diamanti in fondo al mare».

 

La segretaria di Radicali Italiani Antonella Casu è andata al congresso dei Verdi. Più o meno ha detto loro: «A Chianciano, dopo le elezioni che hanno costretto anche noi a scelte dolorose e costose, abbiamo promosso un luogo di dialogo, senza alcuna pretesa di egemonia, senza alcuna pretesa di farne un soggetto politico, per riflettere insieme sui problemi e le responsabilità che ci attendono». Bene. Cioè male. Dal dibattito congressuale non mi pare di aver colto alcun segno di disponibilità in questo senso, solo un passaggio nell’intervento di Marco Boato, che nel mondo verde attualmente è abbastanza emarginato. E dopo il congresso dei Verdi, che cosa è accaduto? Chi, come questo dibattito è stato alimentato, nutrito? Non da noi, da loro: silenzio totale, indifferenza totale, su tutta la linea. Sono impegnati in altre faccende.

 

Aldo Schiavone recentemente ha descritto con efficacia la situazione che siamo costretti a patire: «Siamo un paese smarrito, inquieto, in alcune sue parti spaventato, alla ricerca di se stesso, di un nuovo equilibrio fra memoria e innovazione, che vuol sapere, ma vuole anche essere lasciato libero di dimenticare, con gli occhi aperti e con la testa lucida, ma senza più punti di riferimento, pieno allo stesso tempo di energie e di incertezze». Se, come può esser vero, c’è bisogno, in questa situazione, di una nuova razionalità che sia più critica e più inclusiva; se è necessario un ritorno del pensiero dialettico che sia espressione di libertà e al tempo stesso rivalutazione del valore positivo delle contraddizioni; se è necessaria un’idea di società che abbia al centro l’irradiamento di una nuova eguaglianza, non alternativa al rapporto tra tecnica e mercato, ma complementare e integrativa, e che sia in grado di rendere trasparenti le sue zone d’ombra e di irresponsabilità; se c’è bisogno di più etica e più politica, e dunque di una sinistra più forte e di un bipolarismo mite, come non rilevare – con sgomento e amarezza – che tanto c’è da fare?

Ora comunque stanno raccogliendo quello che hanno seminato, con gli interessi. Il guaio è che sembrano non rendersi conto di quello che accade attorno a loro, né perché. «Il PD deve svegliarsi», dice Anna Finocchiaro. «Il PD non c’è… Non ha ancora attecchito, va radicato nel territorio, bisogna decidere democraticamente…». Se si va avanti così, dice Giorgio Tonini, «Il PD fa la stessa fine dell’Unione».

 

Tra i dirigenti dei DS, uno dei più capaci, attenti, concreti – anche, certamente, nelle logiche più squisitamente di potere – è senz’altro Pierluigi Bersani, esponente di quel “partito dell’Emilia” abituato da sempre a fare i conti con i gusti del sale; Bersani credo si possa dire che ha poco o nulla a che spartire con le “figurine” e la “nutella” alla Veltroni. Anche da Bersani viene un atto d’accusa lucido e pesante: «È mancata una discussione di massa sul voto. Questa avrebbe aiutato a ritrovarsi, a reagire prima, a elaborare il lutto. Tutto questo dobbiamo recuperarlo. L’assemblea costituente ha rappresentato il primo segno di questo recupero». Bersani poi invita a spulciare la composizione della nuova direzione: «C’è già la promozione – certo ancora insufficiente – di nuove personalità, di nuovi gruppi dirigenti e di nuove generazioni. Il processo di rinnovamento è in corso, lo vedo in giro per l’Italia. Al centro, certo, bisogna essere più permeabili a valorizzare queste esperienze. Ma non basta essere giovani. Servono giovani di lungo corso, che abbiano già maturato esperienza, che godano di credibilità esterna. Ne abbiamo tantissimi nel nostro partito…».

Se però si chiede a Bersani di specificare meglio, se ne ricava una risposta in puro politichese, sintesi e cifra delle difficoltà in cui il PD si dibatte: «Questo famoso rimescolo può avvenire solo sul terreno politico e della cultura politica. Senza discutere del rapporto tra valori e politica o del nostro concetto di mercato o della nostra visione di partito, ad esempio, non si capisce in che direzione possa andare l’intreccio tra posizioni socialiste, liberali, cattolico-democratiche, ecc. Io credo che il rimescolo debba avvenire senza buttar via le parole. Né la parola sinistra, né la parola popolare. Che, però, bisogna far coesistere con nuovi termini. Il punto non è quello di mettere d’accordo me e Fioroni. Ma di consegnare alle nuove leve una cultura politica che non le inscatoli dentro cose che non ci sono più».

 

Con il progetto della Rosa nel Pugno, i 31 punti del programma individuati e redatti nel settembre 2005 a Fiuggi, Radicali Italiani poteva considerare conclusa la sua “missione”. È andata, invece, come è andata. Dei socialisti si è detto; qualche parola però vanno spese sui radicali: non abbiamo saputo dare adeguato corpo al progetto del PRT; il Grande Satyagraha è decollato con forme e obiettivi che si vanno precisando man mano che procede la “navigazione”, ma non si è riusciti ancora a fare corpo e sostanza all’ambizioso disegno dell’Organizzazione Mondiale della Democrazia e delle Democrazie. La Rosa nel Pugno poteva e doveva costituire uno dei serbatoi e dei laboratori per questo progetto politico. Così non è stato, e si è rivelata più che saggia la decisione da una parte di non consentire che venisse dilapidato il simbolo della Rosa nel Pugno come inevitabilmente sarebbe accaduto se si fosse aderito alle richieste di Boselli e compagni. Dall’altra si smentisce l’opinione di quanti ritenevano (ma forse ora hanno cambiato idea?) esaurita la funzione di R.I.

Radicali Italiani è più che mai l’utensile necessario per quel progetto che Pannella sintetizza in “superare Livorno”; ma anche per il rilancio di quella politica “estera” che passa attraverso il rilancio (e il necessario recupero) della parola “pace”, per la ripresa delle campagne globali sull’ambiente, o sulla giustizia: opportunamente individuata come la prima, grande emergenza del paese; e tutti quei temi definiti “eticamente sensibili” che sono “semplicemente” i diritti civili di sempre: la libertà della ricerca (non solo scientifica), l’eutanasia, ecc. Temi e questioni che vedono l’Associazione Luca Coscioni in prima fila, svolgere una funzione essenziale per il contributo militante e teorico che in tutti questi anni ha saputo e potuto assicurare. Essenziali “segmenti del programma radicale nella sua tensione alternativa”, come li ha definiti Angiolo Bandinelli.

La “cosa” radicale, in questi anni, ha saputo superare molti momenti difficili, critici. Lo ha saputo fare perché ha resistito – e anzi, respinto – le tentazioni di arroccamento, di chiusura; di ricerca identitaria fine a se stessa, una sorta di solipsismo; ha combattuto la logica del clan e al contrario ha accettato le sfide “aprendosi”, facendo esplodere contraddizioni anche al suo interno, e favorendo processi di ibridazione.

Ogni volta che questo è accaduto, e che questo processo si è realizzato, la “cosa” radicale ha trovato anche gli anticorpi e i contravveleni che hanno consentito di superare le crisi. Questo è probabilmente il patrimonio più importante dei radicali.

Tuttavia oggi ci si trova a dover fare i conti con alcune questioni e alcuni “nodi”. Siamo chiamati a fare i conti con nuove soggettività, con la accentuata crisi dei partiti; a dare significati nuovi a concetti come democrazia e partecipazione; interrogarci sulla natura di un’azione riformatrice che non sia mera invocazione: temi che fanno parte della tradizione della sinistra, e che vanno ripensati, rimodellati.

Dobbiamo fare i conti con una realtà non esaltante: Berlusconi ha vinto, con Berlusconi ha vinto il peggio del vecchio che si somma con il peggio del nuovo; ed ha vinto non perché Berlusconi sia cambiato rispetto al Berlusconi che si conosceva dieci-quindici anni fa. Piuttosto è la società italiana ad essere mutata. Il berlusconismo ci ha inquinato in modo assai più profondo di quanto non appaia e non si creda.

Gian Battista Vico la chiamava l’eterogenesi dei fini, e gli infiniti paradossi della vita. Quanto a paradossi, se ne possono citare a iosa; l’eterogenesi dei fini, per quel che ci riguarda, è molto più rara. Chissà se avremo la gioia di assistere un giorno a questa eterogenesi. Una confessione, infine: mentre stendevo queste note, quasi senza soluzione di continuità, mi ballava la canzone di “Rinaldo in campo”, il musical di Garinei e Giovannini. Le obiezioni di Dragoné sono fondate, ragionevoli, “sagge”: «Siamo rimasti in tre, tre somari e tre briganti…». E pur tuttavia: quand’è, capitano, che balziamo sull’arcione, quand’è che piombiamo addosso ai Borboni?

 

Valter Vecellio

(da Notizie radicali, 11 settembre 2008)


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