Penso che l’amico Ettore Ferrari nella sua qualità di assessore all’immagine, sia il primo a capire la mia insistenza sul Santuario, sulla sua piazza e sulle adiacenze. Oltre al fatto che ci sono cresciuto e che ci abito accanto, dopo averla sognata nei lunghi anni di lontananza, c’è di mezzo anche la mia ben nota sensibilità estetica e ambientale. Parte integrante e conclusiva dello scenario che il Santuario e la sua piazza costituiscono e rappresentano, è la grande fontana. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Vedo adesso che non si è finito di liberarne la visione e il godimento (nonché eventualmente anche l’uso) dalla impalcatura creatale in occasione del recente centenario. La piazza rimane comunque a disposizione per eventuali tornate liturgiche di massa. Anche se – ma questo è un altro discorso – si sente il bisogno di un ritorno in (o, se vogliamo, alla) Chiesa. Troppa piazza finisce con avere effetti – mi si permetta il bisticcio – spiazzanti sulla stessa religiosità, sugli arcana fidei, in definitiva sul mistero.
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Qualcuno dopo aver letto nell’ultima puntata di queste Rimeditazioni ed essendo a conoscenza del mio passato di partigiano della riforma liturgica, con l’aria di prendermi in castagna mi ha detto: allora tu sei per il ritorno del latino, dato che il grande patrimonio liturgico trasmessoci dalle generazioni passate è inseparabile dal latino. Ho accettato la provocazione e gli ho risposto seduta stante: ben venga il ritorno del latino. Intendiamoci: non è che con questo io compia un passaggio di campo, accodandomi ai lefebvriani. Continua ad essermi cara l’antica formula dei Padri: ecclesia semper reformanda, Chiesa sempre da riformare. Ma alla base di ogni riforma durevole c’è il resourcement di memoria conciliare, che vuol dire riattingimento alle sorgenti. Ma questo resourcement diventa una cosa intellettualistica oppure la via di un possibile sbracamento senza il passaggio attraverso la tradizione, o le tradizioni. Entra tra l’altro in gioco la responsabilità verso il proprio retaggio ereditario. Questo è proprio il caso del latino. Bisogna riuscire a far coabitare, magari, che so, alternandole, oppure riservando il ricorso al latino per certe occasioni più solenni.
A proposito dell’uso del volgare valgono due osservazioni: certe traduzioni sono in alcuni punti quasi impraticabili o, in ogni caso, prive di qualsiasi afflato letterario, trascrizioni più che vere e proprie traduzioni e comunque da rifare (un discorso a parte meriterebbe la scelta dei lettori. Non ci stava pensando e occupandosene nei suoi ultimi anni Vittorio Gassman?). L’altra osservazione, legata per molti versi alla prima, è che l’assunzione nella vita religiosa del volgare, nel nostro caso dell’italiano, dovrebbe servire ad imprimere allo stesso una nuova valorizzazione e un supplemento di nuova dignità e validità, due cose ambedue opportune nel generale decadimento.
Mi sovviene e mi aiuta qualche ricordo legato agli anni milanesi e al mio impegno in attività culturali connesse alla fondazione di due storiche librerie tuttora esistenti e operanti, quella della Corsia dei Servi e quella della Nuova Corsia. Ne ho accennato, mi pare, in una puntata precedente. Attività che mi misero in contatto, e talvolta in rapporti di amicizia, con taluni esponenti del mondo letterario e culturale. Penso, per esempio, tanto per dirne uno, a Salvatore Quasimodo che non era un praticante, se non occasionale. L’abbandono, quasi totale, del latino lo ha lasciato disgustato, proprio lui che era stato il traduttore del vangelo di Giovanni nella raccolta dei quattro a cura del grande monsignor De Luca.
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Batti e ribatti, tanto per rifare il verso ad una trasmissione televisiva, che si presenta all’insegna di una obiettività che poi si rivela del tutto vergognosamente mancante, dunque, batti e ribatti, sono venuto a capo di una delle ragioni del disagio, e più che disagio vero e proprio malessere, che pervade la nostra vita politica. Di che si tratta? È presto detto: si tratta dello spettacolo offerto quotidianamente da una maggioranza che si comporta come se fosse all’opposizione. Urge, come prima cosa, un ritorno alla normalità, anche se questa parola può far ribrezzo a qualcuno degli estremisti presenti nell’opposizione (e Prodi fa bene a tenerveli dentro. Ho però detto solo come primo atto). A proposito di estremismo, un vero e proprio comunista, conscio della sua storia, non dovrebbe dimenticare il profetico pamphlet di Lenin intitolato: Estremismo malattia infantile del comunismo.
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Più passano gli anni e più mi confermo in una convinzione maturata al vaglio di un lungo e accidentato, ma in fondo lineare trascorso storico, che vede nella Chiesa una realtà in cammino nella storia e interagente con essa e, anzi, produttrice di storia. Un cammino, che per essere una cosa seria, non può non avere a suo seguito gli opportuni bagagli. Tra essi i dogmi che, ricondotti alla loro radice etimologica, non sono né più né meno che degli insegnamenti dotati di una fondata e ispirata sicurezza. Niente di più lontano, a ben vedere, da ogni forma di autoritarismo personale o di gruppo. Per comprenderli e valutarli nella loro giusta dimensione, la cosa migliore è ripercorrere il travaglio che ha portato alla loro formulazione.
Camillo de Piaz
(da Tirano & dintorni, febbraio 2006)