Voleva essere un duro, Jmmy. Sognava di fare il gangster nel suo paese, in Veneto. Organizzò una rapina in banca, ma fu arrestato. Non aveva ancora 18 anni e finì nel carcere minorile di Treviso. Poi fu trasferito in Sardegna, questa volta nel carcere minorile di Quartucciu, vicino a Cagliari. Arrivò col sogno di evadere. Riuscì a farsi trasferire in una comunità che si chiamava «La Collina». Quando ebbe il permesso di uscire, scappò e si mise a correre tra la gente. Poi si bloccò e tornò indietro. Si accorse in quel momento che la sua vita era cambiata e che anche la sua mente e il suo cuore non erano più gli stessi. Jmmy era un'altra persona. Questa la trama di un libro di Massimo Carlotto, scrittore noir di successo, e di un film firmato dal regista Enrico Pau. La comunità “La Collina” esiste davvero. Si trova a Serdiana, a 17 chilometri da Cagliari. L'ha fondata don Ettore Cannavera ed è lui che la guida. Nell'82 era parroco a Santa Margherita di Pula, borgata turistica con ville e alberghi di lusso, quando il presidente del Tribunale per i minori, Federico Palomba (che poi divenne presidente della Regione e ora è deputato al Parlamento), lo convinse a creare una comunità per minori su cui pendevano provvedimenti giudiziari.
In un appartamento di Sant'Avendrace, quartiere popolare di Cagliari, don Ettore cominciò così ad accogliere ragazzi tra i 14 e i 18 anni, con un progetto, e insieme un sogno: far capire ai giovani che qualcuno si occupava di loro e che a loro ci teneva veramente. Si pranzava tutti insieme e se qualcuno arrivava in ritardo lo si aspettava. Nessuno toccava cibo fintanto che il ritardatario non era arrivato. I ragazzi capivano.
Nel 1993 don Ettore divenne cappellano nel carcere minorile di Quartucciu, una struttura moderna, ben diretta, ma pur sempre un carcere. «Mi resi conto» dice «che i ragazzi, espiata la pena, molto spesso tornavano in carcere». Pensò allora a una comunità per ragazzi più grandi, dai 18 ai 25 anni. Anche perché le pene si scontano nel carcere minorile sino al compimento del ventunesimo anno di età, poi si va nel carcere degli adulti e tutto diventa più difficile. Suo padre, aveva una vigna e fu lì che, con l'aiuto dei volontari dell'associazione Cooperazione e Confronto, educatori, pedagogisti, psicologi e insegnanti, il primo ottobre 1995 nacque la comunità “La Collina” alla quale la Magistratura di Sorveglianza affida i «giovaniadulti» del carcere minorile di Quartucciu come misura alternativa alla detenzione.
La Regione paga cinque stipendi a psicologi, e pedagogisti che lavorano a tempo pieno e si chiamano operatori di condivisione. «Perché i qui» dice don Ettore «non si educa dando ordini, bensì vivendo con i ragazzi». Il resto lo pagano gli ospiti (300 euro al mese) che si ritagliano un piccolo guadagno lavorando all'esterno. Sono loro che autogestiscono la comunità, dal pranzo alle pulizie. I posti sono dodici. In questo periodo i ragazzi sono undici, quattro di loro sono stranieri. Tre sono stati arrestati per omicidio.
La vita a “La Collina” è regolata da orari rigidi: ci si alza alle 6 e mezzo e si va a letto alle 22 e 30, dopo una giornata di lavoro. «l primi mesi, in carcere, li senti. Poi fai il detenuto e ti adatti. Qui invece», osserva don Ettore, «le regole sono severe. Non c'è mai un momento libero». Il mercoledì c'è l'incontro con personaggi della cultura, dello spettacolo, dello sport (l'ultimo, in ordine cronologico, è stato Gigi Riva). Il giovedì è il giorno dell'accoglienza. Il ritrovo è in una cappella, ma non nella cappella tradizionale (quella è da un'altra parte), bensì in un luogo nel quale il pavimento è ricoperto di tappeti e di cuscini colorati e, alle pareti, insieme con le immagini della Madonna, ci sono pagine del Corano e simboli di altre religioni. Si leggono brani biblici e si prega, nel silenzio più assoluto.
I risultati arrivano. In carcere la “ricaduta” è molto più alta che a “La Collina”: su 35 ragazzi solo due sono rientrati dietro le sbarre. Gli altri hanno un lavoro e una nuova vita. Don Ettore non si è fermato. Con i soldi della Regione ha costruito un caseggiato per ospitare una comunità di sei ragazzi con sofferenza mentale. «Perché» spiega «troppi finiscono in psichiatria e troppi sono i suicidi in carcere».
(da “La Chiesa degli ultimi” ne Il Messaggero di santAntonio, Padova, luglio-agosto 2008, pag. 24)