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Marco Cipollini: Realtà infinite (VI)
Da: Camille Flammarion,
Da: Camille Flammarion, 'L'astronomie populaire', Paris, 1880 
17 Settembre 2008
 

§ 1. Era primavera, e passeggiavo in un parco pubblico, stellato di pratoline. A un tratto, prossima al piede ne vidi una che mi guardava. Folgorato. Quante ne avevo calpestate! Dei morti dice il poeta: «Hanno l’impercettibile sussurro,/ Non fanno più rumore / Del crescere dell’erba,/ Lieta dove non passa l’uomo». Se è inevitabile camminare sul verde vivente, almeno siamo coscienti del sopruso. Ciascuna creatura, carnea o vegetale che sia, sa di esistere e patisce se il suo processo vitale è ostacolato. Forse non abbiamo più diritto di vivere di una pratolina, e comunque esse erano al mondo molto, molto prima di noi e pure dei giganteschi sauri catafratti di squame, e scommetto che ci saranno ancora dopo di noi (l’ipotesi disponga all’umiltà). Quel cespo fiorito occupava tanto suolo quanto mezza mia orma, ed era l’intero suo mondo. Indifferente a tutto ciò che accadeva oltre il palmo del suo orizzonte, gli bastavano per vivere uno spruzzo di pioggia e uno spiraglio di sole. “Non calpestarmi,” disse la pratolina, appena mossa dalla brezza. Nel sussurro di un vento leggero Elia avvertì la Presenza e si coprì il capo col mantello. Queste cose accadono, solo che ci apriamo alla loro realtà. Quattro anni fa.


§ 2. Ciascuna forma ha, in quanto tale, dei confini precisi, oltre i quali (e internamente ai quali) cessa la sua entità formalizzata in un nome. Un legame profondo e forse inesplicabile unisce la forma nominale e la forma reale. Con le forme viventi questo vincolo è ancor più misterioso perché esse mutano nel tempo — anzi, esse incarnano il tempo (cfr. III, 2) — e i nomi, che sempre uguali circoscrivono la loro metamorfosi, ne mantengono l’identità. Se grazie a un microscopio, cambiando scala di visibilità, varcassimo la “muraglia nominale” di una pratolina, la vedremmo composta di fibre montagnose e di fiumi linfali e, penetrandovi più sottilmente, di complicate faglie molecolari e, ancora più in profondità, di sistemi atomici simili a quelli planetari, e così via, spalancandosi a noi universi uno dentro l’altro, scopriremmo abissi in qualche modo paragonabili alle galassie, via via precipitando nell’infinitamente infimo, nel vacuum della materia. Il cosmo s’infinisce tanto oltre di noi quanto dentro di noi, e la nostra individualità nominale è il sottile diaframma tra questi due infiniti… Due? Ma ogni realtà, vivente o non vivente, è fatta d’infiniti che s’infiniscono, e infinito è l’orizzonte delle realtà, passate presenti future. Tra l’infinito a noi esterno — comune a tutti, e che comprende quindi tutti gli altri infiniti interni “singoli” — e quello a noi interno, “noi” esistiamo a un livello per così dire intermedio (ammesso che un infinito possa avere un punto intermedio!), circa il quale un’enciclopedia ha la pretesa di collezionare l’universo delle forme nominali, passate e presenti. Tra l’ameba e la balena, la nostra è la dimensione più giusta per possedere una coscienza dell’essere? Forse. Non so. L’occhio d’oro della pratolina mi disse: “non vantarti, perché non hai niente da insegnare alla mia realtà. La mia esistenza non è inferiore alla tua, essendo il rapporto fra noi improponibile. Io vivo nella mia pienezza, come tu vivi nella tua. Tu non sei il mio Dio”.


§ 3. È solo su base dogmatica che privilegiamo moralmente la complessità organica in quanto tale: io un gigante complicato e intelligente, di fronte alla pratolina semplicina stupidina. (Se mai capitassero qua Alieni craniosissimi che per informativa terrestre avessero letto il Nietzsche di «nulla è vero, tutto è permesso», che discorsetto gli sorrideremmo?) Tuttavia è solo a un certo livello evolutivo che s’innesta la capacità di nominazione — ma, ammesso che per noi il linguaggio degli animali è limitatissimo, avete mai ascoltato un usignolo? — e, soprattutto, la coscienza di «cosa è bene e cosa è male». Ma anche qui sarebbe da disputare: uno scoiattolo, grazie al suo DNA, sa precisamente cosa è bene per la prosecuzione della sua specie. E poi la coscienza ha questo di garbato: che, non possedendola, non se ne avverte la mancanza. Insomma, se la pratolina c’è, significa che deve esserci, tale e quale è. L’homo darwinensis, immettendo un bel pizzico di lievito superomistico (“verticale”) nella “orizzontale” teoria evoluzionistica del Carlo Magno dei naturalisti, s’illude di essere una pratolina pinnacolarmente migliorata, ovvero il protozoo più fortunato, anche se i rifornitori della Premiata Macelleria Novecento avrebbero non poco da ridire. In verità il fiore è un’altra cosa rispetto all’uomo: le loro rispettive realtà che cos’hanno in comune? Le colossali gerarchie evolutive istituite dagli studi biologici rendono graficamente le diramazioni temporali delle metamorfosi viventi, non una loro classificazione morale. Se a un certo punto si è innestata una coscienza complessa (conoscitiva + morale), ciò ha dovuto essere supportata da una particolare complessità organica, ma non è dimostrato che quella sia dipesa “meccanicamente” da questa. L’“innesto” neurologico può essere analizzato, ma le sue ragioni originarie (perché è avvenuto così e non altrimenti?) restano misteriose: Caso e Necessità rimarranno sempre opzioni gratùite. E se il nostro cervello, di cui il resto del corpo è una rete di servizi identica alla scimmia, fosse, più che un produttore, un trasmettitore di pensiero? E se nei suoi limiti lo fosse anche una pratolina? (Nota bene: il “pensare” pratolinesco non sarebbe un’arciminima frazione del nostro, ma un’altra coscienza dell’essere… Già, il pensiero pensato da chi? La vecchia Anima mundi che riaffiora carsicamente… Ecc.) E comunque, per la parmenidea tautologia dell’essere, tutto è necessario al tutto per essere il tutto che è.

 

§ 4. Sì, siamo troppo diversi noi e una pratolina. Eppure qualcosa ci lega, sia ciò la finitezza creaturale sia la legge naturale mors tua vita mea; e qui Eraclito (cfr. IV, 10) è irrefutabile, anche accettando san Francesco, che declina tutto fraternamente in una prospettiva altra. Quanto alla complessità organica, l’universo soffrirà più della mia soppressione che non di quella di una pratolina? Dubito assaissimo della sensibilità etica delle galassie, e che del retaggio morale, del resto, sia unica depositaria la forma vivente a cui appartiene il sottoscritto… Chissà! Miliardi alla potenza di miliardi di spore coscienziali nubilanti fra le galassie, e milioni di Adami… Torniamo coi piedi in Tellus. Ciascuna forma vivente è un giusto discrimine tra i suoi due infiniti, esterno e interno, e non deve “renderne conto” ad alcun’altra. L’infinito esterno, che è vertiginosamente immane nella prospettiva umana, preso in sé non è né grande né piccolo: è-quanto-è. Tanto vale per l’infinito interno. “Grande” e “piccolo” sono riferimenti umani, parlano di noi, non dell’oggetto in sé. Però l’universo per noi esiste nei limiti della nostra visione (cfr. V, 4); quanto non è umanizzabile, ovvero è innominabile, in pratica non esiste (cfr. III, passim). I nostri limiti formali sono dunque limiti conoscitivi e morali, che l’Ulisse dantesco non accetta. Che ne è dell’abisso oltre l’abisso oltre l’abisso delle ultime galassie? E dell’abisso oltre l’abisso oltre l’abisso degli atomi di cui siamo composti? Noi, involucri umani, camminiamo in mezzo a queste due voragini, lungo il margine esiguo della nostra percezione; riguardo la quale è da notare che lo spettro arcobaleno della radiazione cosmica recepito dal nostro occhio è un sugherino smarrito sulle lunghezze d’onda dei marosi elettromagnetici… L’universo, a parte i colori virenti e viventi di un parco vicino a casa o il brillio fantasmatico di una notte stellata (cfr. V, 4), resta per noi un oceano totalmente tenebroso. “Noi” percepiamo solo il “nostro”.

 

§ 5. Se non sono percepito da una pratolina, per essa io non esisto. E allora chi mi parlò mutamente? Fu un’illusione? (E se anche fosse stata, un’illusione non è già qualcosa?) Sì, qualcosa accadde! Se siamo troppo diversi, io ed essa, pure un quid ci unisce… Spero che non sia solo il rapporto mors tua vita mea. Di certo è la pratolina che deve temere l’uomo, non il contrario. Probabilmente la Scienza finirà, afferratala per il collo modiglianesco, per estorcerle informazioni… Potremo perfino avere un’idea della coscienza esistenziale di un fiore? Non lo escludo. Se mai accadrà, conosceremo però solo la nostra percezione di tale coscienza (cfr. V, 3), non saremo mai, strettala in pugno, dentro di essa. L’esistenza di una pratolina è l’esistenza di una pratolina [ripetere ad libitum], non è “innestabile” nella nostra, e della nostra non è meno misteriosa. Anzi, proprio per la sua maggiore semplicità, è forse più misteriosa della nostra, perché più vicina all’origine (edenica?) della vita. Di certo un punto a suo favore è che essa non soffre l’inquietudine di “voler essere” più che sé stessa. La pratolina non ha alcuna “colpa primordiale” da scontare, ed è — perciò io la guardo con emozione — al di fuori della Storia: pura incarnazione del Tempo. (In parte non lo è più un cane, che è un lupo rimodellato e asservito all’uomo: il cane si sente inferiore all’uomo, divenuto il suo capobranco.) La pratolina può essere calpestata, ma non addomesticata. Essa lì, accanto al nostro piede, elargisce grazia e bellezza al pari di qualsiasi opera d’arte umana (cfr. II, 1) e proclama — guardala, ed essa ti guarderà! — l’innocenza perduta dell’uomo.

 

§ 6. ABISSI IN UN OCCHIO D’ORO

 

Parco di primavera, aperta gloria

di mille e mille pratoline: è un cielo,

e vanno i miei cinquantasette anni

leggeri sopra il suolo tutto stelle,

finché su te mi chino… tu mi guardi!

I petali a me drizzi come ciglia

stupefatte, irraggianti un occhio d’oro

che nulla vede perché vede il tutto

né me distingue dalle bianche nubi,

eppure tu mi guardi… Su te è il vuoto

immane, che ora è luce ed ora è buio,

reca ardori e tempeste, e troppe stelle,

che disperate brillano nel nulla

spillando steso un telo d’illusione

sul primordiale abisso che abolisce

ogni pensiero umano, ogni parola…

 

Ma anche dentro il minuscolo tuo cosmo,

esatto e denso, si comprime un vuoto,

perché in te penetrando noi vedremmo

fiumi di linfa e montagne fibrose, e

sempre più a fondo, dentro le muraglie

di molecole agli occhi si aprirebbe

solitudine di atomi, e in ognuno

altri abissi vedremmo ed altri mondi

quasi pianeti intorno ai loro Soli,

e se più vi affondassimo, altri ancora,

come in fuga di specchi verso il nulla,

infimi si aprirebbero universi…

Così tra l’infinito firmamento

che in alto ci sgomenta e l’infinita

voragine che è in noi, noi procediamo

sul franoso discrimine dei giorni.

 

Tu vivi quieta un fato sempre uguale,

sigilli questa gleba che è il tuo mondo,

estraneo ti è già il prato, e il grande cielo

per te è nient’altro che un soffio di luce

che avida bevi, e ti richiudi a sera

e le stelle tu ignori, fredde, eterne,

tutto in te è l’universo, mentre un’ampia

pace io respiro in questa nicchia d’ora

dove il mio male s’imperla in parole,

e ovunque intorno a me è un limpido enigma

di cose che hanno in sé, pur se fugaci,

memoria di un esistere per sempre…

Voce di liuto ha il vento in questa lenta

d’erbe distesa, e i pioppi, bisbiglianti

di luce, mai mi risero innocenti

come ora, da un eden mai perduto…

 

Ma solo tu, che ho atteso da una vita,

come una tazza trabocca di latte

di un’immemore quiete colmi il cuore

se alla brezza marina soavemente

così una cieca danzatrice, ignara

d’esser vista, si scioglie in un delirio

armonioso sue tenebre obliando,

danza in silenzio per sentirsi viva

e non sa la bellezza che ne spande –

soavemente in onde oscilli d’erba

sotto l’immensità di questi cieli

luminosi, in cui nuvole fan vela

verso mai dove? col vento che invola

gli anni e le foglie, e per un mio sospiro

infiniti si schiudono universi

nella cruna dorata del tuo occhio.

 

 

www.webalice.it/marcocipollini


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