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Moonisa: “Morte di un innocente”. Una tra le infinite dimensioni del creato (IV).
25 Agosto 2008
 

È per onorare una frase del dottor Di Scalzo («raccontala questa tua Africa») che ho cominciato a scrivere questi articoli e che scrivo anche questo in particolare. Chi lo legge, dovrebbe aver letto quello precedente (ode per Tellusfolio/ semi indesiderati/ paesi-usanze e disincanto), per capirne bene il contenuto.

Avevo concluso il paragrafo “paesi-usanze e disincanto” con: «Il destino del piccolo Jeremiah va incontro a un nuovo giro di vite importante. Let’s wish him well!!!» Tale chiusura appare, ora, alla luce degli eventi nuovi, come una premonizione d’epilogo e mi s’incista nel cuore, a guisa di spina.

 

Sunday, durante la sua assenza dovuta alle nozze, lasciò il bambino a casa di suo fratello. Misurando la circonferenza della sua pancia gonfia, al suo ritorno, verificai che, durante quella settimana, non era scesa del regolare centimetro settimanale, ma non me ne stupii, perché sapevo che, insieme ai suoi cuginetti, aveva sicuramente usufruito della tremenda dieta usuale, a base di gnam. Ricominciai a somministrargli una dieta iperproteica serale e continuai a fare pressioni sul padre perché si rendesse conto della gravità del problema e facesse altrettanto con gli altri pasti della giornata. L’uomo si profondeva in ringraziamenti e promesse, ma aveva negli occhi l’espressione distratta e quasi divertita dell’attenzione doverosa e condiscendente.

Il matrimonio di suo padre fu per il bambino motivo di orgoglio e di gioia, perché, finalmente, gli diede modo di poter esibire una mamma all’uscita da scuola. Ebbi modo di scoprire varie volte che il bambino aveva mangiato cibi diversi da quelli che io gli avevo mandato e di tornare a scontrarmi con il muro dell’ignoranza testarda di Sunday.

Giunse il momento della mia partenza. Lasciai in freezer piccole porzioni di carne proporzionate al bambino e raccomandai a Sunday di non fargli mancare le proteine. Egli mi ringraziò ripetutamente e fece promesse che non riuscirono a scaldarmi il cuore. Feci promettere a mio marito che avrebbe continuato a provvedere ai pasti di Jeremiah, sapendo che, oberato di lavoro com’era, mio marito avrebbe sì fornito il cibo a Sunday, ma che non avrebbe avuto tempo e modo per controllarne di persona la destinazione. Il destino del bambino era nelle mani di suo padre, di colui che lo aveva ridotto in quelle condizioni. Sperai con tutto il cuore di aver scalfito le errate convinzioni di quell’uomo e partii, sentendomi pervasa da un senso di impotenza e d’inutilità. Feci, in seguito, richiesta, via e-mail e via telefono, delle misure settimanali del bambino, ma non ottenni che bofonchiamenti frettolosi; a distanza di un mese, mio marito mi telefonò piangendo: «Il piccolo Jeremiah è morto». Non ci potevo credere e, soprattutto, non potevo accettare che, in questo nostro terzo millennio pieno di nazioni potenti, di tecnologia, di consumismo e di obesi (per ‘abbuffate’ continue), i bambini debbano ancora morire di denutrizione. Povero Jeremiah. Povero uccellino implume caduto dal nido. Povero fiore reciso prima di incontrare la primavera. Povero piccolo uomo avvizzito e morto prima di poter crescere-vivere-invecchiare… Piansi. Mio figlio mi disse: «Non devi sentirti in colpa, non li puoi salvare tutti». Aveva ragione, ma io ne volevo salvare almeno uno: volevo salvare quel particolare bambino.

Provai rabbia e rancore contro Sunday e contro la sua testarda ignoranza. Urlai contro mio marito, che non mi aveva detto del precipitare della situazione, «per non farmi preoccupare» e che mi aveva impedito così di fare un qualche tentativo estremo di evitare al bambino ‘le cure’ dannose e incompetenti dell’ospedale che si era inventate malattie assurde e aveva dato il colpo di grazia, con vari veleni-antibiotici, al piccolo fegato già martoriato. Uno pensa che ‘in quei posti’ debba esserci una certa conoscenza delle patologie endemiche e ricorrenti. Non è così (fatta eccezione per la malaria). Coloro che si piccano di essere medici e paramedici, in quelli che passano per ospedali e/o ‘cliniche’, nulla ne sanno e scambiano tranquillamente le macchie-piaghe (che seguono al gonfiore della denutrizione/e dell’alimentazione con soli carboidrati) per malattie esantematiche. Credo, in ogni caso, che soltanto i carboidrati delle solanacee causino una simile conseguenza perniciosa. Dubito che il pane e la pasta farebbero altrettanto.

Non volevo sentire Sunday, non volevo parlargli, per non sbattergli in faccia le sue responsabilità, e non telefonai. Lo fece lui. Mi chiamò sul cellulare, subito dopo aver sepolto il bambino. Piangeva, farneticava: «I miss my child! I want my child! I thought I’d make a family, but now I’m confused. I lost my first girl, I lost my wife, I lost the second little girl and now Jeremiah… I think I’m unlucky. There’s something very wrong with me. I miss my child, I want my child!»

Tutta la mia rabbia cedette il posto a una pena che sciolse il nodo-rancore che induriva il mio cuore. Dissi qualche frase di circostanza. Sunday si lasciò andare alla rituale ‘commemorazione’ degli ultimi momenti di vita del bambino. Disse che l’accaduto non era colpa di nessuno, perché il bambino aveva «d’improvviso» manifestato una sorta di «strano morbillo». Tentai di ricordargli che gli avevo già spiegato ripetutamente che l’esantema sarebbe stato il passo successivo al gonfiore e che avrebbe preceduto la morte, ma poi mi arresi… Mi tornò in mente S. Agostino: come travasare il mare in una buca…? Provai pena per Sunday. Era devastato dal dolore; mi stava chiedendo conforto. Non dovevo infierire. Gli dissi ciò che il fatalismo della cultura africana può accettare, mi ripromisi di fargli rimborsare da mio marito la ricarica che aveva consumato chiamandomi e chiusi nel cuore il ricordo di quell’ennesimo bambino sfortunato. Un rimorso tagliente prese forma e si annidò nella mia mente: avrei dovuto fare di più; avrei dovuto smuovere mari e monti e magari portare il bambino all’estero, per salvargli la vita. Io, allora, però, non sapevo affatto che il bambino sarebbe morto. Pensavo che, come il fratello di Sunday, si sarebbe ripreso e sarebbe tranquillamente cresciuto…

Feci delle ricerche e scoprii che quella patologia si chiama ascite, che la pancia si gonfia quando il fegato, stremato dall’eccessiva quantità di glicogeno, comincia a creare e a immagazzinare liquido nel peritoneo e che l’esantema compare quando il fegato giunge al capolinea. Ne rimasi sconvolta.

Ancora non so se il piccolo Jeremiah avesse delle reali chance di sopravvivenza, ma so che il senso di colpa resterà con me, comunque, e che non mi darà tregua (anche se, razionalmente, sono consapevole delle difficoltà insormontabili che mi avrebbero impedito di portar via il bambino dall’Africa, se ci avessi provato - Tanto più che io non sono Madonna e non posseggo i suoi mezzi). Tornerò in Africa e, anche se sarà un’impresa disperata, tenterò di spiegare a più persone possibili che lo gnam contiene molto glicogeno e che non può e non deve essere la sola base dell’alimentazione… Lo dirò a madre Semira,* la suora oblata di Nazareth che ha creato in Nigeria una scuola, nella quale ospita più di ottocento bambini (dal nido alla scuola media), di varie etnie-religioni-culture. Lei nutre bene e veste i suoi bambini; dà loro istruzione dignitosa e ambienti adeguati, perché diventino adulti capaci di costruirsi un futuro (e possibilmente di darne uno anche alla loro nazione). Jeremiah è morto perché suo padre lo ha portato ad Abuja; se fosse rimasto nella scuola di madre Semira (ove era stato accolto) sarebbe vissuto. Madre Semira è il volto della speranza e la risposta all’Africa che è stanca di elemosine e di pietà e che ha bisogno di parità. C’è un P.T.A., nella scuola di madre Semira, che, come tutti i Consigli d’Istituto, si riunisce e discute sui problemi. Potrei, forse (in nome della speranza, che non deve mai morire) cominciare a divulgare il problema dell’ascite da lì…

 

Moonisa

 

 

* Madre Semira torna spesso alla sua casa madre, in Alberobello, per attingere al conto corrente postale gli aiuti-pane inviati dai volenterosi. Il c.c.p. 19332709 è intestato a Istituto Religioso Oblate di Nazareth - Alberobello, ma è specificamente di madre Semira. Ho regalato a madre Semira un cellulare. Il suo numero è: 002348035902432 (chiamare costa solo qualche euro, se non si fanno lunghi discorsi).

 

 

 

Didascalie delle immagini

Copertina – Queste culle (in acciaio, perché il legno si deformerebbe e verrebbe attaccato dalle termiti) hanno vari donatori. Due di esse sono un dono di don Mauro, parroco di Agrate Brianza.

All. 1 – Il cibo per tutti i bambini viene preparato da suor Concepita in giardino, in un gran pentolone sul fuoco, sotto un capanno aperto ai quattro venti, ma rispetta un menu preciso e completo dei vari alimenti e delle ricette locali. I bambini aspettano con ansia e in religioso silenzio le loro porzioni. Amano la merenda e sono ghiotti soprattutto di quella del mercoledì (zobo e dough nut/ carcadé e bombolone).

All. 2 – Divisi per fasce d’età, i bambini occupano, a turno, il refettorio. Le attività didattiche le svolgono con insegnanti nigeriani, che conoscono bene tutte le loro etnie. Tutti i bambini sono bravissimi nelle varie drammatizzazioni, nelle danze e nel canto. Da due anni sono stati scelti e premiati come gli allievi più bravi dello Stato.

All. 3 – I bimbi del secondo anno della materna.

All. 4 – Non mancano le ore di ricreazione e di gioco ai bambini di madre Semira, che, come l’onda del mare, è ovunque e dappertutto, per procurare loro tutto ciò che serve (presso le flour mills per la farina/ presso gli Hausa, per la mucca da macellare/ nei mercati più sperduti, per i vari tuberi, cereali e ortaggi/ ecc., ecc., ecc.).


Foto allegate

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