Non stampano più Palante e le vignette di Juventud Rebelde mi fanno cacare, umorismo da quattro pesos e un centavo direbbe mio nonno, ma se vuoi ridere basta comprare il Granma, compay! E allora esco al mattino presto, ché tanto lo so come va a finire, il vecchietto all’angolo si stufa di vendere giornali per meno di un peso e allora va in giro per Centro Avana e ammolla il Granma ai turisti a prezzo decuplicato, ché loro lo leggono davvero, lo portano a casa come souvenir, mi pare giusto che lo paghino. Il Granma di oggi parla del compleanno di Fidel, mica cazzi. Se tanto mi dà tanto è un’edizione imperdibile, di quelle che faranno il giro del mondo e saranno segnalate a futura memoria per vis comica naturale, ché io ho studiato un po’ di cinema e di teatro, pure se per campare porto a giro turisti, e me l’hanno insegnato tante volte che il miglior umorismo è quello involontario.
– Dammi il Granma, compay! – dico.
– Perché tutta questa foga, amigo? Cosa credi che ci sia di tanto importante? Non accade mai niente in questa cazzo di isola.
– Niente? Oggi è il compleanno di Fidel. Ti pare poco? Sono cinquant’anni che resistiamo agli imperialisti. Ti pare che non stia accadendo niente, amigo? Non mi piace questo disfattismo…
Il vecchietto mi allunga il Granma con espressione costernata. Mi sa che gli ho fatto paura, come attore drammatico mi sono proprio piaciuto, ho interpretato una parte da chivatón che nemmeno il miglior membro del partito avrebbe detto cazzate simili, mancava una bella guayabera al posto della maglietta scucita per essere più credibile, ma l’abito non fa il monaco e poi non c’ho un chavito, volevo vedere con cosa la compravo.
– Tranquillo compay, tranquillo. Mica ti denuncio… – dico.
Il vecchietto pare rassicurato, mi dice che il Granma non me lo fa pagare, tanto le copie che restano le rivende ai turisti e ci fa la cresta sopra, aggiunge che mica voleva essere disfattista, lui lo sa che è il compleanno di Fidel, che resistiamo, che pure lui resiste a base di riso, fagioli e bistecche di soia. Sorrido e saluto. Per spaventare la gente a Luyanó basta fingersi uno del partito e tutti si mettono sull’attenti.
Mi fermo a leggere sulla prima panchina libera del parco, sotto una ceiba gigantesca che dà un po’ di refrigerio, intorno a me diverse ragazzine in minigonna fanno l’autostop e sembrano a caccia di turisti.
Oggi il Granma parla di Meo Porcello, Hugo el libertador, il mio personaggio da romanzo, il Cid Campeador del Venezuela, la petroliera di Cuba, la flebo personale d’un regime agonizzante. Meo Porcello fa gli auguri al suo amico Fidel Castro e rende pan per focaccia.
– Tu e tuo fratello Speedy m’avete regalato una crosta del Che e non so dove metterla, forse in cantina, ma pure là spaventa i topi… e io vi regalo una crosta venezuelana, un bel quadretto di Simón Bolívar, che vale un cazzo, ma vuoi mettere il simbolo, vuoi mettere quante battaglie farà venire in mente a questo ragazzino di ottantadue anni, arzillo e vispo come un vecchietto al parco.
Meo Porcello commemora la Giornata della Gioventù, a Caracas, e pensa a Fidel, eterno ragazzino che giocherebbe ancora coi missili, se solo avesse il tempo e glielo lasciassero fare. Fidel è un esempio di costanza rivoluzionaria e di coraggio, tu guarda adesso che s’è messo a far la corte a Putin, vecchio compagno d’armi ai tempi del Kgb, democratico convertito per esigenze di pagnotta.
Meo Porcello ha dentro di sé una vis comica potente, una cosa che Cantinflas se lo beve in un paio di scene, lui mica ci deve pensare, le cazzate gli vengono naturali.
– Fidel è uno di quelli, come ha detto il poeta, che lottano tutta la vita, un imprescindibile, padre nostro, di noi tutti, di tutta questa terra, di questo rinascimento di popoli che stiamo vivendo in tutta l’America Latina – dice.
Siamo arrivati alle preghiere. Fidel nostro che ancora non sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, sia fatta la tua volontà, dacci il nostro pane razionato, in cielo come a Cuba. Lo stiamo santificando, chissà il vecchio come si toccherà i coglioni, superstizioso com’è. Mi resta il dubbio di sapere qual è il poeta che ha detto la frase pronunciata da Chavez, forse Garcia Marquez, ma lui non è un poeta, forse José Martí, pure mio padre è uno che parla sempre di lottare tutta la vita, mi sa che siamo tutti poeti. E poi la conclusione del discorso è stupenda, si parla di un rinascimento dei popoli in America Latina e forse l’ha visto lui, io non ne so niente, ma può essere che mi sia distratto, a volte mi capita, sono un tipo che si concentra poco.
Ma quel che conta sono gli auguri, caro Meo Porcello. Cento di questi giorni, compagno Fidel. Attaccati il quadro di Bolívar dove sai e stringi i denti, ché Raúl ti sta rimpiazzando bene, non si sente mica la mancanza. E poi ci guidi ancora dalle colonne del Granma, sei la luce dei nostri giorni con le tue Riflessioni, tuoni contro gli atleti disertori che esibiscono lussi infami, contro i vermi che fuggono, contro i georgiani che muoiono sotto i colpi di cannone, contro il mondo intero che non ti comprende. Nemmeno noi, Fidel. Nemmeno noi. Sono anni che non ti comprendiamo, ma tu non ci pensare. Non adesso che è prossima la fine e non potresti cambiare. Alla scuola di cinema mi hanno insegnato che un finale deve essere conseguente alla storia, non si possono introdurre invenzioni surreali che spiazzerebbero lo spettatore. E allora tu resta comunista hasta la muerte. Poi dopo si cambia, però. Per ogni cosa arriva la sua fine.
Alejandro Torreguitart Ruiz
L’Avana, 13 agosto
Traduzione di Gordiano Lupi