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Marco Cipollini: Realtà senza mito (III)
Claude Monet,
Claude Monet, 'Ninfee' (1905) 
09 Agosto 2008
 

§ 1. La realtà assunta nella sua crudezza, al di fuori di ogni mito, considerato mistificatore: ecco il mito cardinale dei tempi moderni. Ma tutto ciò che pensiamo ha un fondamento mitico, anche la scienza, oggi soprattutto la scienza: un mito riduzionistico che vuole reificare tutta la realtà, conferendo a questa prospettiva un valore univoco e assoluto, così che tutto il resto o non esiste o è privo di senso. Ma quanto è fondato il mito di una realtà senza fondamento mitico? E il sommo Guglielmo: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”. Ma quanto è “reale” ciò che non è concepito o concepibile dalla nostra mente? Non che non esista (oscuramente) quella “cosa” là fuori, della cui universalità peraltro noi facciamo parte, ma noi non possiamo fare a meno di pensarla per pensare che essa esista al di fuori della nostra mente. Come esseri (tuttora) umani non possiamo che partecipare la realtà che rientra nel recinto umano; ciò che ne resta al di fuori in pratica non esiste o, se preferite, non ci riguarda finché non possiamo farne esperienza.

 

§ 2. Pànta rheî, ovviamente. Le montagne stanno là, saldamente; ma anche questo è illusorio… Eccome se scorrono, al pari delle onde. Sono onde pietrificate per la nostra percezione, che non è geologica ma microbiografica; se assistessimo al loro film di milioni di anni proiettato in pochi minuti ne vedremmo la liquida ondosità. E se tutto diviene, tutto non è mai uguale a se stesso. Noi non siamo forme che si muovono dentro uno spazio-tempo precostituito, ma le nostre forme sono una tessera di quel fluido spazio-tempo; così, se uno di noi fosse atomicamente azzerato, tutto l’universo si contrarrebbe per la massa che ne fosse stata tolta. Per questo non ha senso il fantasmagorico “viaggio nel tempo”, dato che noi non possiamo separarci dall’hic et nunc. Siamo forme semiliquide che trascorrono, siamo noi stessi il fiume dello spazio-tempo. Ma noi, vedendoci all’interno dello spazio-tempo di cui siamo parte, ci percepiamo come forme solide immerse nel trascorrere delle cose che ci sono d’intorno.

 

§ 3. Le parole sembrano bloccare, incantesimare una liquida parte di realtà per un momento o per qualche secolo; ma scorrono anch’esse, forse con più lentezza di quella realtà, ma del panta rheî sono parte inalienabile. L’immagine del fiume è la più aderente a esprimere il divenire delle cose: lo specchio che liquido le riflette sta e non è, è il medesimo e non mai lo stesso. La parola fiume è illusoriamente immobile finché la pensiamo stampata; ma già il nostro pensiero è scorrimento, e poi anche la carta è panta rheî, una sottilissima lastra del pack libresco che prima o poi si scioglierà. Quando pronunciamo fiume, eccome se scorre. Il nostro discorso è un fluire di significato, e anche quando lo ripetiamo una, dieci volte con le parole medesime, non è mai esattamente lo stesso, né (forse) siamo noi chi noi fummo… E il Foscolo: “Non son chi fui; perì di noi gran parte”. In realtà il nostro quid consiste di tutto il nostro scorrimento. Occorre morire perché altri possano dire che noi fummo. Finché viviamo, noi siamo tutto il nostro scorrimento, percepito come presente.

 

§ 4. Eppure dobbiamo “fare il punto”, magari illudendoci che la posizione della nostra rotta mentale sia proprio “quella lì”, come se la nostra nave per un attimo s’immobilizzasse. Non è pericoloso illudersi, purché ne siamo coscienti. Leggiamo la medesima poesia più volte. Ci accorgiamo che ogni volta è leggermente diversa, in quanto noi stessi stiamo pantarheîggiando, e soprattutto perché il signficato di quei versi si va fluvialmente allargando e approfondendo dentro di noi. Una poesia ci cambia anche se non siamo del tutto coscienti del nostro cambiamento. Noi, in quanto percezione di noi, non abitiamo il cosiddetto “mondo”, ma la nostra memoria del mondo, e la memoria è fatta di immagini e di concetti, e i concetti non sono tali se non sono formalizzati in un fluido di parole, altrimenti restano vaghe sensazioni. Tutto il resto per noi è come se non ci fosse. Ed è come se non ci fosse quella parte di noi che potrebbe esserne — ma non lo è — cosciente.

 

§ 5. Chiudete gli occhi e provate a rivedere dentro di voi un quadro o una situazione vissuta. L’impressione, nonostante ogni sforzo di concentrazione, risulterà sempre sfocata, e finirete, ripetendo l’esperimento, per vedere (immaginare di vedere) non la cosa originaria, ma il ricordo di essa, e ogni volta, riprovandoci, vedrete l’ultimo ricordo immaginato: il ricordo di un ricordo di un ricordo... Tutto scorre, anche i nostri ricordi, perché non si tocca due volte la medesima acqua del fiumesistere. Ma con le parole è un po’ diverso che con i quadri o le situazioni vissute. Quando leggiamo un testo, o meglio se lo memorizziamo bene, le parole sono esattamente tali e quali dentro di noi, anche dopo dieci, venti anni, per niente sfocate. Forse esse avranno un’altra risonanza rispetto a quella prima volta — anzi, è certamente così — ma saranno quelle parole, tali e quali. La massima realtà espressiva della poesia vive nell’oralità, e la memoria è la sua dimora. Recitando a mente una poesia, noi entriamo di fatto nelle stanze arcane e luminose della nostra memoria.

 

§ 6. Pànta rheî; ma noi vorremmo stabilizzare il nostro divenire, che il nostro fiumesistere scorresse senza passare. L’arte e la letteratura dànno forma, e quindi realizzano questa illusione: sono il nostro modesto Eden quotidiano. Rileggendo un testo, ci sembra di rivivere il vissuto, un vissuto in cui le contraddizioni dell’esistere si armonizzano in un’atemporalità trascorrente… Ma davvero tutto ciò è illusorio, una fata morgana? O non è una effettiva percezione della nostra realtà come veduta provvisoriamente fuori dal tempo? La poesia e l’arte, comunque, rimangono le uniche forme che ci uniscono anche a quella enorme massa oscura di noi (cfr. § 1) che affiora solo nella nostra incoscienza di dormienti. L’arte e la poesia dànno forma all’informe, al mai-pensato. E se tutto ciò che pensiamo è mito, come può la realtà da noi conosciuta non esserlo?

 

§ 7. NOMEN FLUMEN


È un vaso mentale fatto di fiato il nome,

per attingere con la sua concava forma

il fluire inesplicabile delle cose,

che cose non sono, ma grumi del gran fiume

dell’essere, dalla lingua umana, che pure

si scioglie, cagliati labilmente quale ombra

di labbra su un vetro… Tutto liquidamente

scorre e noi scorriamo, morte generazioni

spingono vive generazioni mortali,

tutto fluisce sempre a rifondersi in tutto…

Potrà vetrificare la parola fiume

la corrente che stringere non può una mano,

e di cui simulacro più sarebbe dire

incessante correntecorrentecorrente?

L’esistere è di sé traditore e tradito,

divenendo per poter essere, sospeso

tra il ricordo funebre e la speranza incinta

di quanto, partorito, non è che ricordo.

Io che ti parlo, tu che mi ascolti, non siamo

che due pronomi nel mentre son pronunciati,

frammenti di un caos per un attimo connessi

nel paradigma di un’illusione, ché nulla

è mai sé stesso, ma è solo il frale riflesso

di un sogno d’eternità che mai sarà raggiunta…

a meno che… a meno che pure l’illusione

non sia che illusione, come il brillio dell’acqua,

e però un Sole esiste… Ma chi può giurare

col tenue respiro di una vita di foglia?

Non un io di fiato, che in sé sussiste come

ragno che si aggrappa alla sua bava oscillante.

Scorrono le parole, scorri tu che ascolti,

noi come una correntecorrentecorrente

siamo e non siamo, senza mai giungere al mare.

 

 

www.webalice.it/marcocipollini


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