§ 1. Eccoci beatamente sdraiati in un prato smeraldino delle Dolomiti, con tanto di vacca e campanaccio (e relativa cacca), e ci scappa di bocca un giudizio cartolinesco: “com’è bello! Sembra d’essere in un quadro!” E vedendo a Brera Pascoli di primavera di Segantini, rammento che esclamai: “com’è bello! Sembra d’essere sulle Alpi!” Se ne desume che un paesaggio naturale diventa bello quando è da noi assimilato a un’opera d’arte. Viceversa un’opera d’arte ci deve trasmettere una sua forza naturale per poter appagare il nostro sentimento estetico; che dunque scaturisce in un punto intermedio della nostra percezione estesa tra senso e intelletto, un punto che, facendo da fulcro, sostiene in equilibrio i bracci opposti della bilancia conoscitiva: uno che ha sul piatto la Natura, l’altro lo Spirito. Quando questi stanno pari, nemmeno ne distinguiamo più la specificità: il bello è, ovunque e comunque, bello.
§ 2. Platone aspirava a una Bellezza oltresensibile, come sarà per i mistici cristiani e di altre religioni. Ma per un artista e un poeta non si esce dalla suddetta bilancia (e Platone gliene faceva una colpa). La Natura in sé non è né bella né brutta, e lo Spirito, se assolutizzato al di fuori della realtà delle cose, non diviene per ciò “mistico”, ma vuoto cerebrale (che lasciamo agli aspiranti al Nirvana). Per questo l’arte astratta, castrandosi del mondo reale, vaporizza anche ogni sua velleità d’assoluto. Alienata ogni referenza storica o fenomenica, essa non esprime che vaghe sensazioni, prive di significato, e che questo sia stampellato con un titolo, ne denuncia l’assenza di sostanza. Mi spiace, Malevič, Kandinskij, Mondrian, Klee e quant’altri, ma la vostra “nuova spiritualità” non è stata “mistica” nella sua volontà di superare il mondo: lo ha semplicemente abolito con la pretesa “autonomia della forma”. Ma come può una “forma” essere autonoma da un contesto oggettivo? Nemmeno Platone fu così reciso. La nostra mente non elabora forme, ma immagini. L’arte astratta è irresponsabile verso il mondo e quindi è sterile, intellettualistica e antisublime, e dunque non sarà mai popolare. Fin dai suoi primordi l’arte occidentale è contrassegnata dal realismo, ciò che la caratterizza rispetto a tutte le altre; quanto vi è di astratto, dall’arte delle caverne in poi, è del tutto minoritario per quantità e qualità. Nella storia plurimillenaria dell’arte, l’esperimento astratto del sec. XX occupa una porzione infinitesima. L’astrazione delle forme invece ha molto più campo nel mondo islamico, ma essendo questo rigidamente dogmatico, essa vi è espressa in modalità geometriche e ripetitive, mentre l’astrattismo novecentesco è gratùito e individualistico.
§ 3. La percezione della bellezza si radica sempre in un substrato mitico — per sintesi, uso qui l’aggettivo nella sua gamma espressiva più vasta — e non solo in campo artistico. Quando uno scienziato o un matematico, conducendo un esperimento o elaborando un problema, è colpito da un sentimento di bellezza, questo non dipende dalla pura e semplice appercezione delle leggi fisiche o logiche che egli va studiando; ma dal considerare quelle, sia pure inconsciamente, un’ipostasi mitica della brutale realtà fenomenica, che pertanto acquista ordine e significato. Ordine e significato hanno sempre una valenza trascendente. Per questo la celeberrima formula einsteiniana E = mc² è uno degli idoli della religione scientifica del sec. XX, adorato anche dagli ignoranti di fisica. E pensiamo al valore simbolico dei cosiddetti “buchi neri”. Soltanto un’epoca ipnoticamente attratta dal nichilismo poteva concepire come possibili quegli immani gorghi del Nulla. Per favore, non sto degradando la scienza a superstizione se le attribuisco un carattere mitico! Al contrario, completo la sua umanizzazione. Cartesio vinse la prima fase della lotta per la scienza, quella riduzionistica, perché razionalistica e astratta; Vico si avvia a vincere la seconda, per conferirle una piena integrazione spirituale. Perché all’inizio di ogni attività umana, com’egli ha insegnato, c’è sempre un mito.
§ 4. Alcuni dei fenomeni quotidiani più impressionanti del nostro pianeta non appartengono più alla sensibilità comune. Il cielo stellato è stato abbuiato dalla friggente illuminazione urbana, e bisogna andare dove non è l’uomo per poter assistere turbati alla sua immobile esplosione. L’aurora, che un derelitto bracciante vedeva sbadigliando a ogni risveglio, oggi è per molti ridotta a una parola esoticamente sbiadita. Per secoli, se non millenni, Urano e Aurora sono stati Dei osservati da tutti, in ogni giorno della vita. Attribuire loro un profondo significato esistenziale fu naturale: il mistero abissale e generativo dell’universo, la perenne rinascita del mondo. Sublimità e Bellezza. Verità dell’essere. Addio.
§ 5. A proposito, avete mai osservato il momento preciso dell’aurora, cantato da Omero, «Quando, figlia di luce, brillò l’Aurora dita rosate»? A chi abita in riva all’Adriatico è concesso facilmente. Io, essendo stato imbarcato, l’ho potuto fare in mare aperto, con l’orizzonte piatto e affilato. Si tratta di attimi, come dal primissimo affiorare del Sole schizzano radialmente le verghe rosee della luce: eccola, ροδοδάχτυλος Нώς. Perché è indimenticabile, più dei fuochi d’artificio? Perché noi ci riconosciamo parte viva del cosmo, e ciò soddisfa una nostra necessità innata. In quegli istanti sentiamo che il nostro bisogno di aurora è pari al bisogno che ha essa del nostro specchio coscienziale: noi siamo l’aurora e viceversa. Al contrario, una visione filosofica attuale ci vuole alienare dal cosmo, considerandoci una misera muffa periferica, una nullità rispetto agli abissi galattici. Entrambe le visioni sono gratùite, ciascuno senta come vuole. Ma le ragioni dell’esistenza saranno sempre dalla parte di chi la rende meno infelice.
§ 6. Un altro attimo cosmico-epifanico si ha catturando con l’occhio il cosiddetto “raggio verde”. (Ricordate il film di Eric Rohmer, Le rayon vert?) Io l’ho veduto, come villeggiante tirrenico, al tramonto, ma pare che si possa scorgere anche come la prima scintilla dell’aurora. Bisogna avere fortuna metereologica e fissità di sguardo, sera dopo sera. Per ogni precisazione scientifica rinvio all’ineludibile Wikipedia. Il mondo antico, così sensibile a ogni messaggio della natura, non lo ha mai mitizzato perché non ci ha fatto caso; infatti noi possiamo distinguere solo ciò che il nostro intelletto ci predispone a vedere, e il mondo antico possedeva ben poco il senso della vita oltre la vita. Quel minimissimo guizzo verde, proprio nell’attimo in cui la luce sparisce, è una promessa di felicità, come se dicesse: Non temere, ritornerò. Siccome noi siamo animali simbolici, ancor prima che sociali, merita passare qualche tarda serata in riva al mare, con gli occhi puntati al Sole che si inabissa.
§ 7. INNO AL SOLE
Volano l’ampio cielo i cavalli del Sole,
incendiano il cielo con criniere di fiamma,
percorrono irrefrenabili le vie vuote
del cielo in una parabola smisurata,
per tutto il giorno corrono il limpido abisso,
poi lentamente scendono verso occidente,
e la volta a occidente è una brace che avvampa,
gli zoccoli dei cavalli battono aspri
sui monti di ametista, schizzano faville,
sempre più faville l’ampio riempiono cielo,
mentre tutta si fa l’oscurità abissale
scintillazione insostenibile di stelle
i cavalli del Sole si tuffano oltre
i monti blu intenebrati, volano sopra
la distesa infinita delle onde, onde
su onde, tingendole di riverberi fiammei,
e un lampo solca la superficie convessa
dell’oceano ventoso, gli zoccoli d’oro
sfiorano la spuma degli errabondi flutti
verso le altre sponde del globo, nel cui cielo
si spengono le eterne faville al fiottante
battito degli zoccoli, e il carro del Sole
trionfalmente scavalca i limiti del mare
che irradiano verghe di luce dolcerosea
nel cielo che si fa infinitamente d’oro,
e s’impennano con potenza irrefrenata,
scalpitano all’alto gli zoccoli abbaglianti
dei veloci cavalli, criniere di fiamma!
P.S. Questo è uno dei tanti modi plausibili di vedere, di vivere il mondo. Il Tramonto, il Firmamento, l’Aurora sono il grande mito visibile. Solo che noi lo vogliamo.
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