§ 1. «Cos’è Ecuba per lui, o egli per Ecuba, ch’egli debba piangere per lei?» Così Amleto, o videlicet il sommo Guglielmo, che sotto tale maschera si rapporta alla tragica eroina troiana (e quindi pure alla sua stessa maschera Amleto), sotto la cui maschera sta un personaggio attore, sotto la cui maschera sta un attore reale… Dov’è, alla fine, la verità? In una faccia nuda in fondo a tale mise en abŷme di nomi-fantasmi? No, è nella superficie, che è il fondo vero di tutta la questione. Nietzsche scrisse che un antico Greco assistendo a una tragedia pensava, all’opposto di noi moderni: Quella è la verità e la nostra di spettatori è la finzione-illusione.
§ 2. Lo storicismo romantico, e poi il positivismo, svalutò l’opera di fantasia, assegnando un plusvalore etico-estetico a quella narrativa che trattava di eventi reali, considerata perciò testimonianza di una società (che “andava cambiata”) o di un periodo storico: era questo l’elemento che contava, non l’inganno (!) della finzione. Si noti, in realtà, che qualsiasi lacerto documentale inserito in un romanzo — sia pure una filologica “grida” del Manzoni — cessa, sic et simpliciter, di essere mero documento per acquisire un valore metaforico. È seguita di poi la letteratura cosiddetta impegnata, la quale, cessato il movente della provocazione (il vetusto facit indignatio versum di Giovenale), cessa da sé di esistere. In tale prospettiva, quanto di finzione, di “ipocrita”, la letteratura non poteva non comportare, era svuotato al suo interno dall’acido dell’ironia: restava la maschera, senza più dietro una faccia umana. L’ironia, promossa dalla critica più ideologizzata, per un secolo e mezzo ha vampirizzato il sangue vivo di tanta arte e letteratura; ma per il batticuore popolare resiste e resisterà nei secoli l’idea del plusvalore dell’“evento vissuto”. Ne deriva che la divaricazione tra arte elitaria (non necessariamente “colta”!) e arte popolare non è mai stata così accentuata come nei nostri tempi. E mentre i prodotti “artistici” si sono fatti sempre più strampalati e insulsi, quanti film, romanzi e sceneggiati si fregiano dell’autocertificazione “tratto da un fatto realmente accaduto”: come se fosse un titolo di merito. E non si capisce che quel fatto diventa vero solo se l’opera che ne tratta risulta convincente sul piano poetico o artistico. Parimenti, una brutta poesia sui cosiddetti valori è un disvalore.
§ 3. Prendiamo I promessi sposi e l’Orlando furioso, due opere nate da concezioni opposte, ma entrambe narrazioni letterarie. Il romanzo, sviluppandosi come storico, si tira dentro un fardello di pagine che Goethe avrebbe tranciato con mano pesante. Inoltre questa “storia milanese” finisce per contenere non poche inesattezze storiche, se non dei veri e propri “falsi” (la figura del cardinale Borromeo), inevitabili dato che un’opera narrativa ha le sue proprie leggi. Il romanzo storico appartiene a un genere ibrido, e dunque, dovendo “servire due padroni”, quando uno quando l’altro lo deve tradire. L’Orlando furioso, ottemperante solo alla sua ricreazione fantastica, così esplicita che non “inganna” nessuno, basa la sua verosimiglianza sulla propria forza metaforica. Il fatto è che la Historia e la Poesia-Narrativa sono geneticamente diverse e compatibili solo per un margine assai ristretto, in quanto nella prima vige la contrapposizione falso/vero, a cui l’altra è beatamente estranea. I “fatti vissuti”, che tanto accendono l’emotività popolare, quando siano descritti in un romanzo, sia pure Cristo si è fermato a Eboli, o addirittura Se questo è un uomo, da Storia si metabolizzano in storie. Dunque il substrato del vissuto non conta niente? Certo che conta! Ma una volta “giocato” come romanzo deve temere soltanto una riuscita artistica mediocre. Il valore di Il partigiano Johnny non sta tanto nella sua testimonianza di guerra partigiana, quanto in quello epico e poetico, né più né meno come l’Iliade. La Troia e le Langhe, s’intende le entità storico-geografiche, si contèntino di esserne state dei pre-testi generativi. La realtà poetica parla di un’altra realtà e quindi vive proprio nella sua finzione: è per questo che è vera.
§ 4. Un cumulo enorme di lirica odierna è autobiografica; preciso: lo è poveramente, quando essa sia priva, oltre che di un briciolo di arte della parola, di ogni valenza simbolica. Chi la scrive, sinceramente disposto, pensa perciò di testimoniare una realtà personale che debba essere condivisa da tutti come verità. Illusione totale. La miseria mitica — dico tutto in una parola — della lirica odierna confina una simile confessione nel recinto asfittico dell’ego, e lì si esaurisce; tutt’al più è pane (e companatico) per gli psicologi. Manometto una citazione d’autore: Datemi una maschera e vi mostrerò la mia faccia vera. Né l’una senza l’altra.
§ 5. Che cosa è un piccolo e afroso satiro per me, o io per lui, perché io debba partecipare la musica delle sue canne forate? Semplicemente, è quello che è nella maschera dei versi, che parlano di un doppio flauto da cui esce proprio la musica di quegli stessi versi; così che nei riflessi dell’acquea superficie, alla fine, s’intravede una profondità non altrimenti percepibile nel cosiddetto mondo reale.
§ 6. MUSICA DALLE VERDI PROFONDITÀ
Sulle soglie di un sonno oppresso d’afa, aeree
si sciolgono le solide immagini in sogno…
Mi perdo in me, mi perdo in me… Voi non udite?
Dal bosco più ombroso, quale musica esala?
Fra il cuculo sperduto nelle verdi forre
e qua e là di cicale il limio luminoso,
languido s’insinua un rigagnolo di suono…
Se lo udiste, laggiù, remoto filamento
d’oro, nelle verdi profondità vedreste
seduto su una roccia, lievemente curvo,
soffiare un satiretto nella doppia canna,
stranito e indolente, camuso il corto naso,
duri gli zigomi, come nodi di legno
turgono i cornicini entro ciocche selvagge
sporche, per verdi intrichi, di fiori e rametti.
Non suona di sé, ma è il mondo muto e possente
che tutto si espande da quella inconscia cruna.
Il suo occhio obliquo, che tollera spalancato
tra le ciglia strinate il sole meridiano
o il fulmine lesionante il nero universo,
ogni ricco delirio o primordiale orrore,
che mai fissa in sé con la larga pupilla
specchiata in un gorgo di sangue notturno?
Dalle due cavità della fistula, colme
d’ombra come le vive narici sagaci,
cola una melodia ruvida e molle, un lento
di sogni resinosi assiduo gocciolare,
cola a lungo, e il codino piumoso s’arriccia
per non so quali sensi fascinosi e oscuri,
le dita sugose di bacche oltremature,
il cui dolce fermento gli ha ubriacato il cuore,
più stringono il duplice calamo, che versa
una musica storta, ora flebile e franta,
perché a lui più ansimante scandiscono i polsi
per una febbre acerba un ritmo forte e ignoto.
Smuore una nota, un’altra… Di colpo egli cessa,
e scagliate nel folto le canne maliose,
gettasi nello stagno tiepido e cangiante
d’erbe e di fango, che d’oro macula il sole:
al croscio fragoroso in ricascanti schizzi
saltano ammutoliti i ranocchi all’intorno,
come viscidi cuori palpitano occulti
fra le ciglia verdi del ciclopico occhio,
fissano con acute glutinose sfere
il putrido paradiso appena perduto,
che al trionfatore al centro in cerchi si richiude.
E il sacro fanciullo, le palpebre calate
sopra i globi violacei, si crogiola immerso
in quella melma dolce, respira leggero,
quiete assorbe dal grembo dell’antica madre…
Si odono soltanto, percepibili appena,
su dal torbido fondo gorgogliare bolle
qua e là, come gli occhi di un mostro, delicati.
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