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Rino Formica. Chianciano e dintorni. Lettera aperta ai compagni socialisti
21 Luglio 2008
 

Rino Formica non ha certo bisogno di presentazione: dirigente socialista, più volte ministro, è componente del Comitato politico-organizzativo della riunione del prossimo 12-13 settembre della “Convention del dopo Cianciano”. Formica, che era già intervenuto con una importante comunicazione alla riunione di qualche settimana fa, ha ora ha scritto una “lettera aperta ai compagni socialisti” che, evidentemente, non ha solo loro come destinatari; si tratta, come si vede, di un prezioso documento di riflessione e di elaborazione. L’augurio è che non resti isolato. Questo spazio ovviamente è a disposizione di quanti vorranno intervenire.

 

Care compagne e cari compagni,

 

la Costituente socialista non ha retto alla prova del fuoco elettorale. Una prova ineludibile per chi voglia proporre al paese un’utile e chiara risorsa di governo (tale è stato sempre agli occhi dei lavoratori italiani il socialismo democratico e riformista) e non solo una testimonianza politica e ideale. L’iniquità della legge elettorale combinata con l’insolenza dell’appello al voto utile spiegano solo in parte l’assai magro risultato. Né interessa qui disquisire sul deficit di leadership politica o sulla debolezza dell’attuale gruppo dirigente, quando ha voluto caricare il peso eccessivo delle ambizioni personali sulle fragili spalle di una proposta politica che alcuni di noi voleva larga ma che altri invece hanno ristretto dentro le antiche pratiche del carrismo, questa volta legando le scarse forze dei socialisti non tanto a una prospettiva politica ma a un personaggio, Romano Prodi. Se si aggiungono le passate compagnie radicali, certamente affini ma non organiche alla storia del socialismo italiano, che hanno costretto la proposta socialista dentro il mono-tema del laicismo, una maschera di ferro applicata alle potenzialità e alla vitalità del socialismo italiano, come si erano espresse dal Midas in poi nelle forme della “questione istituzionale”, diventa ancor più chiara la lettura della crisi della Costituente socialista.

 

L’elemento che rende incerto non solo il quadro politico ma quello democratico è costituito dalla quasi assenza di voci che reclamano l’urgenza della “questione istituzionale”, vale a dire la necessità e la priorità di rimetter mano al patto costitutivo, al suo nucleo centrale, al principio fondante dal quale partì l’opera della Carta costituzionale. Non stiamo quindi parlando di ordinaria manutenzione. Stiamo ponendo il tema della straordinaria revisione. E se ci fu nel lavoro costituente un punto di partenza da riprendere, non per una eccentrica volontà di “ridiscutere tutto” ma per leggere dentro la storia della Repubblica senza lenti ideologiche, decifrarne le contraddizioni e ricercare le soluzioni, quel punto di partenza va ricercato nell’ordine del giorno Perassi nel quale veniva detto che «La seconda sottocommissione, ritenuto che né il tipo di governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare». Nel quale Odg l’opzione parlamentare è da preferire alle altre non per un giudizio di valore ma in quanto corrispondente alla democrazia compromissoria che solo il sistema parlamentare poteva sostenere.

 

La domanda oggi è: quel principio da cui partì la Costituente, con l’adozione del sistema parlamentare, che aveva le sue ragioni nel compromesso di due sistemi politico-ideologici cui corrispondeva la divisione del mondo in campi contrapposti, regge ancora il peso dello stravolgimento degli equilibri di potenza e della scala dei valori ideologici e culturali in atto?

 

Non c’è dubbio che la Carta costituzionale è un capolavoro di unità, non esercizio di machiavellismo politico, cui si applicò una classe dirigente di prima grandezza e che non avremmo mai più avuto. Tenere assieme, formando una “comunità di visione”, la rappresentanza del comunismo internazionale, quella delle liberaldemocrazie occidentali vittoriose, la forza morale e politica della Chiesa cattolica, il ventre molle del conservatorismo nazionale, è stata operazione grandiosa. Non lavoro di banale compromesso, di sommatoria di elementi diversi, ma creazione in Italia di una via originale (la “terza via”) alla formazione della base democratica e alla governabilità.

 

Cosa rimane oggi della Terza via? Con la scomparsa dei partiti storici, con la chiusura (potremmo dire) delle due ambasciate, del comunismo internazionale (il PCI) e del cattolicesimo politico (la DC) e con il venir meno di quella particolare forza, di quel particolare fermento politico che fu il PSI, con le sue incertezze, le impennate, ma con l’indiscusso dinamismo che frenò l’incedere della crisi del parlamentarismo, l’impalcatura del sistema parlamentare sta piegandosi pericolosamente.

 

Tutti ne sono consapevoli, molti reclamano profondi rimaneggiamenti “tecnici”, qualcuno denuncia l’inadeguatezza delle tecnicalità, ma l’unico “tavolo riformatore” oggi veramente affollato è quello delle leggi elettorali. E si comprende. A partiti virtuali, ad organizzazioni usa e getta, a classi dirigenti residuali, sopravvissute e selezionate con strumenti populistici, a culture politiche non più feconde ma prodotte per successive incorporazioni di suggestioni alla moda e quasi sempre d’importazione, non resta che la scorciatoia delle leggi elettorali. Per guadagnar tempo, per non deperire, per far fronte all’emergenza della governabilità.

Ci sono anche teorici, non sappiamo quanto disinteressati, di un simile stato di cose e che fanno di necessità virtù. Citiamo per tutti il prof. Valerio Onida, il quale in un recente opuscolo edito dal Sole-24 ore (sarà un caso?), rileggendo la Costituzione, scrive:

«Il sistema parlamentare scelto dal costituente italiano presenta caratteri di massima flessibilità: è in grado di funzionare in modi assai diversi, in presenza di sistemi politici diversi. (…). È chiaro come sia importante il modo di formazione della Camere, cioè il sistema elettorale».

 

Ecco servita la riforma. Non è necessario ripensare alle ragioni che portarono all’ascesa e poi alla cancellazione della prima repubblica, che sono le ragioni dalle quali far discendere le culture e le idee di rinnovamento. Serve, per toglierci dalle ambasce, soltanto l’intercambialità dei sistemi elettorali che dovranno servire di volta in volta le specifiche esigenze della governabilità (locale? nazionale? sovra-nazionale?). Serve un metodo, la flessibilità, da applicare a tutti i livelli, dal sistema dei partiti a quello istituzionale, ma non agli interessi consolidati e corporati, per questi non c’è flessibilità, per questi vale il principio della centralità.

Dobbiamo dire con chiarezza al paese che è in atto una linea tendente a svuotare (flessibilizzare secondo Onida) gli strumenti e le idee della politica, promuoverne la loro fungibilità, teorizzando il carattere liquido, transeunte, empirico delle istituzioni e delle forme della politica. Partiti liquidi e leggeri, istituzioni flessibili, teorie politiche empiriche. Il “pieno”, (vale a dire i contenuti pesanti) è dato dai centri di alimentazione, riproduzione e conservazione dei giacimenti valoriali, identitari, religiosi e così via. Partiti leggeri incastonati dentro quadri di riferimento pesanti. Questa sembra essere la soluzione che si va preparando.

La vediamo operante in Italia, attraverso il rapporto passivo e strumentale dei due schieramenti, di destra e di sinistra, con la Chiesa cattolica. Un rapporto che vuole nascondere il vuoto e la liquefazione delle forme della politica.

 

Un rapporto tra l’altro considerato non utile perfino dalla parte più avanzata della Chiesa cattolica che, per mantenere la credibilità e la forza dei propri “giacimenti” valoriali, ha bisogno di un sistema di relazioni con la società e con la politica che si alimenta attraverso la dialettica e la competizione tra la propria visione e quella dello Stato laico.

 

Per il motivo del rapporto sterile con la “questione cattolica” avuta dal centrodestra e dal centrosinistra, è stato un errore inchiodare la proposta laica dei socialisti alla fissità della denuncia delle “interferenze” delle gerarchie, piuttosto che porre la questione di una nuova laicità, condivisa da tutte le componenti della società e in grado di far uscire la questione cattolica dalle secche dello scambio politico.

 

Ritorniamo alla domanda iniziale: perché la crisi irreversibile della Costituente socialista? Abbiamo detto delle ragioni della congiuntura politica, delle avversità, della gracilità del partito, dell’illusione di lanciare un progetto facendo leva sulla sua coerenza intrinseca, senza il supporto degli apparati, senza il consenso delle macro-strutture dei poteri. Ma c’è una ragione ancora più profonda che spiega l’esaurimento della Costituente, e questa sta nella realtà delle cose, nella fine definitiva dei partiti storici della repubblica.

 

In sostanza con la Costituente socialista si voleva ridare vita, in uno slancio sentimentale estremo, alla storicità (vale a dire alla necessità storica) del socialismo riformatore in un quadro politico nel quale la storia dei partiti s’è fermata, non c’è più e con essa le culture e, se vogliamo, anche le sotto-culture. Oggi sono rimasti i simulacri del vecchi partiti, solo maschere vagamente somiglianti.

 

Va subito però aggiunto che il mutamento della geografia dei partiti storici non è avvenuto solo per fattori esterni, per volontà occulta di poteri oscuri, è avvenuto perché è venuta meno nel ceto politico e nella società, in un momento particolare di passaggio epocale (la crisi del comunismo, l’affacciarsi della globalizzazione e, in Italia, l’urgenza di nuovi modelli di governabilità che poggiassero su un nuovo patto costituzionale), è venuta meno, dicevamo, l’intelligenza e la volontà di concepire per la politica nazionale una grande stagione di revisionismo.

 

Se vogliamo individuare il punto di caduta del sistema democratico della Prima repubblica, questo sta precisamente nell’aver escluso dall’orizzonte della politica nazionale la fatica di dar vita a una fase di revisionismo, sostituendolo con il più comodo e tradizionale nuovismo. Il nuovismo ha dunque sconfitto il revisionismo.

 

Eppure non mancano i precedenti. All’inizio della storia della repubblica ci sono stati slanci di grande e audace progettualità, eccome! Da parte dei socialisti per come hanno voluto la rupture dell’esperienza della monarchia. De Gasperi per come ha disegnato e perseguito il tracciato liberaldemocratico e laico (laicità concepita da un cattolico liberale come lui) per la giovane democrazia. I comunisti per come hanno amministrato l’utopia rivoluzionaria nella continuità della tradizione storica nazionale e dentro le regole del costituzionalismo. Da parte del terzismo cattolico dei “professorini” che con grande tenacia e visione ideologica configurarono quel particolare compromesso politico e sociale con la sinistra che ha dato forma allo Stato e al rapporto tra politica, società ed economia.

 

Qui sta l’origine e lo snodo delle contraddizioni, qui bisognerà ritornare non per gusto della storiografia, ma per necessità politica e per l’avvenire.

 

Tutta roba del passato? Tutti temi da vedere in una dimensione di riflessione storica? Oppure è vero esattamente il contrario, vale a dire è proprio da un ripensamento di quel terreno di culture politiche e ripercorrendo il fiume carsico che ha portato quei fondamenti e quei principi a ibridarsi con i passaggi materiali e forzosi di revisione costituzionale e a confrontarsi con la mappa dei nuovi poteri, dei nuovi centri di potere cresciuti dentro e fuori i confini nazionali; è da questo insieme di modernità e nello stesso tempo di indebolimento della dimensione della politica, di invecchiamento dei partiti che bisogna ripartire per un nuovo revisionismo, per un nuovo riformismo di sistema.

 

Dobbiamo ammettere che la sinistra entra nella fase discendente quando manca a questo confronto, non riuscendo a ripensarsi fuori dei confini della propria tradizione, considerando la propria storia nei termini statici di conservazione dei patrimoni e non di dinamismo politico, in cui le tradizioni più vitali sono quelle che con maggiore velocità intercettano le sfide della modernizzazione e ne assorbono i fermenti positivi.

 

Eppure dovremmo, noi socialisti, trarre lezione dal non lontano passato quando, dopo la prima grande scossa che rovinò direttamente sul sistema dei partiti democratici (ci riferiamo a Tangentopoli) vedemmo l’albero della furia giustizialista e non scorgemmo la foresta della crisi del sistema.

 

Chi meglio dei socialisti poteva, allora, sparigliare il gioco delle forze conservatrici immettendo nel circuito della democrazia bloccata la forza fluidificante della grande riforma (così dai socialisti chiamata e dagli altri derisa), della democrazia governante, come oggi affannosamente è denominata la forma moderna degli Stati?

 

Finì come sappiamo, con uno spostamento dell’asse politico a destra, cui contribuì lo stato maggiore ex comunista con la sua voglia di immettere il vino del nuovismo dentro le vecchie botti degli egemonismi e delle diversità.

 

Con l’inseguirsi delle leggi elettorali sempre più “alla carta” e a misura dello “stato di crisi”, è stato il trionfo del trasformismo, del falso bipolarismo che ci ha portato alle paludi di questi tempi, in cui (lo diciamo con tristezza) tre livelli di potere uniti, governo, opposizione e massimo garante, riescono a mala pena a tirare la carretta di una governabilità decente.

 

Non c’è chi non veda, a fronte di questo quadro, le ragioni della inevitabile caduta e la inadeguatezza della Costituente socialista.

 

Come e da dove ripartire? È evidente che una forza politica, benché ridotta nelle dimensioni e nel peso politico, non può rinunciare a battere il terreno della lotta politica nelle condizioni che la congiuntura impone. E la situazione mostra, a sinistra come a destra, processi di ristrutturazione profonda, sul versante del Partito democratico e della Sinistra 'radicale', rispetto ai quali i socialisti dovranno trovare forme e strumenti di intervento non minoritari, flessibili, adattabili a situazioni di grande fluidità e soprattutto con una iniziativa audace diretta al cuore della crisi.

 

Il socialismo italiano interromperà la sua fecondità, questo deve esser chiaro a tutti noi, se rinuncerà a sciogliere i nodi che stringono il Paese. Questi nodi si chiamano: riforma istituzionale, questione sociale e nuova laicità.

 

Della grande riforma istituzionale abbiamo qui cercato di delineare la dimensione sistemica e non tecnica entro la quale convogliare il confronto e abbiamo anche definito i confini della nuova laicità, da non chiudere nelle antiche dispute tra guelfi e ghibellini.

 

Anche per la questione sociale va ripreso il coraggio, va recuperato quello spirito audacemente riformista che alla metà degli anni Ottanta segnò con successo l’iniziativa socialista. Oggi come allora c’è uno spirito conservatore da battere, che si nasconde sotto la nostalgia di un’organizzazione del lavoro e di uno Stato assistenziale che appartiene al passato, a una fase nella quale la “classe operaia” è stata non soltanto categoria sociale e produttiva al pari delle altre ma categoria ideologica da usare come arma politica.

 

Per ragioni di brevità ricordiamo soltanto come i nuovi termini in cui oggi si pone in Italia e in Europa la questione sociale siano in debito con la stagione del riformismo socialista. Sempre per brevità diciamo che la questione sociale oggi si colloca in una dimensione larga, europea, al di fuori della quale c’è la resa senza condizioni alla deregulation selvaggia e a divisioni sociali sempre più acute. Ne sono consapevoli i sindacati? È concepibile la rappresentanza sindacale degli interessi compositi dei lavoratori saltando la dimensione sovra-nazionale delle leghe sindacali?

 

Questo è il terreno di rilancio del socialismo democratico italiano, questa la proposta che i socialisti devono porre alle forze politiche, in un momento in cui il sistema politico tutto è come un grande cantiere di costruzione e di rifondazione. Lo richiede la maturità della coscienza pubblica, la scomparsa del sistema dei partiti storici, delle culture politiche che hanno fatto la storia della democrazia repubblicana; è imposto dall’indeterminatezza dei partiti attuali, dalla moltiplicazione dei poteri, dalla stratificazione disorganica e confusa di questi, dall’irruzione potente e a volte prepotente dei poteri sovra-nazionali che, non incontrando sulla propria strada una forte statualità, entrano in contraddizione con i poteri propri della sovranità nazionale determinando non solo conflitti ma autentici ingorghi. A questo proposito condividiamo la proposta di Tremonti di dare al Parlamento europeo sulle materie già di competenza comunitaria il potere legislativo. È una proposta di trasparenza e chiarezza, impedirebbe intrusioni, sovrapposizioni e mediazioni burocratiche da parte di tecnocrazie piene di potere e vuote di rappresentanza.

 

È il solo modo, crediamo, di misurare la diversità strategica degli schieramenti politici a livello europeo (socialisti, popolari, liberali, conservatori) e la funzione concreta dei partiti sovra-nazionali. Oggi si distinguono sulla base delle logiche di appartenenza o del piccolo cabotaggio amministrativo; reggeranno l’urto delle grandi questioni epocali che confluiranno nel Parlamento europeo sotto forma di provvedimenti vincolanti e come si comporteranno i partiti europei di fronte al ridimensionamento con vincolo di legge degli interessi nazionali?

 

Chiediamo che su questa proposta i socialisti italiani aprano una discussione in sede europea e nazionale, per iscriverla non in un imprecisato calendario ma per inserirla all’ordine del giorno della prossima scadenza elettorale europea.

 

Cari Compagni e Care Compagne,

l’esaurirsi della forza motrice della Costituente socialista, costringe i partecipanti al progetto ad una riflessione nell’ambito dei luoghi di provenienza.

È per questa ragione che non ho nulla da ridire se anche voi rientriate nell’ambito del vecchio SDI, con i suoi riti, con i suoi problemi e con le sue difficoltà.

Le ragioni di casa hanno sempre una precedenza, ma non possono costituire uno scopo, perché un partito è innanzitutto una comunità di visione che deve saper parlare a chi è fuori.

Nuove alleanze, nuovi patti di tribuna istituzionale, nuovi programmi di governo ci devono interessare poco o niente, perché i socialisti non possiedono la forza materiale, l’aggiornamento della dottrina dell’autonomismo creativo, e sono privi degli strumenti istituzionali per incidere nei programmi di governo.

Possono creare le condizioni di un nuovo e profondo rimescolamento delle carte tra i due schieramenti.

Proporre un Referendum propositivo simile a quello dirimente e rivoluzionario che proposero Nenni ed i socialisti nel ’45.

Allora si scelse tra monarchia e repubblica oggi è indilazionabile scegliere tra democrazia parlamentare e democrazia presidenziale.

L’esito di questo referendum porrà i problemi delle nuove garanzie democratiche, delle nuove leggi elettorali stabili e non esposte alle convenienze di occasionali maggioranze, di una rinnovata e più alta coesione sociale e di un forte rilancio degli interessi nazionali nella Comunità Europea.

Buon lavoro e speriamo in un arrivederci.

 

Rino Formica

(da Notizie radicali, 21 luglio 2008)


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