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Antonella Martinelli, Vincenzo Samà: “L’edera”. 3ª parte - 'Giornate particolari' 2006-2008  
Progetto Liceo "B. Russel" - "San Vittore" Milano
18 Luglio 2008
 

UNA GIORNATA PARTICOLARE

A.S. 2006/2007

 

Tracce dell’esperienza vissuta durante l’incontro del 7 febbraio 2007 all’interno della Casa Circondariale di Milano “San Vittore” tra gli studenti delle classi IV B e IV C del Liceo Scientifico “B. Russell” e i corsisti del CTP “Cavalieri” di San Vittore – Milano.

 

 

Il 7 febbraio 2007, dopo un percorso didattico di preparazione svolto in classe con la prof. Antonella Martinelli, la IVB e la IVC del nostro Liceo si sono recate in visita alla Casa Circondariale di Milano – San Vittore. Lungo il cammino per arrivare al carcere noi ragazzi facevamo un po’ tutti i buffoncelli, leggevamo le nostre domande, preparate per avviare il colloquio con i detenuti che avremmo incontrato durante la mattinata e tentavamo di immaginare le loro risposte. Arrivati di fronte a San Vittore abbiamo incontrato il professor Vincenzo Samà, il quale, dopo due parole introduttive, ci ha accompagnato verso l’ingresso. Improvvisamente abbiamo tutti smesso di fare gli spavaldi e, senza neanche accorgercene, ci siamo stretti in una fila ordinatissima di gruppi di due, neanche fossimo all’asilo…

All’ingresso la Polizia Penitenziaria ci ha chiesto la carta d’identità e ci ha perquisito con l’aiuto del metal detector. Svolte le procedure ufficiali, i professori Antonella Martinelli, Bernardo Barbata e Vincenzo Samà ci hanno portato in un giardino dove ci aspettavano il Vice Commissario Incoronata Corfiati, l’Ispettore Stefania Conte e l’Assistente Capo Vincenzo De Risi, i quali ci hanno raccontato brevemente la storia della Casa Circondariale e ce ne hanno descritto la struttura: sei raggi che si diramano da un dodecagono centrale detto “rotonda”. E proprio dalla “rotonda” ha avuto inizio la nostra avventura. Siamo entrati nel Sesto Reparto dove sono custodite le persone accusate di reati comuni. La tensione tra noi ragazzi era palpabile. I detenuti, mentre passavamo, ci guardavano e noi, come bimbi impauriti, ci attaccavamo, metaforicamente, ad ogni spazio vuoto della gonna della prof. Martinelli, in cerca di protezione.

Siamo così arrivati al call center, il servizio 1254 della Telecom che fornisce i recapiti degli utenti. Al di là dei vetri si potevano vedere una decina di detenuti impegnati a rispondere alle chiamate. Mentre i tre accompagnatori della Polizia Penitenziaria ci stavano spiegando cosa facevano quelle persone, è arrivato un uomo che è andato a salutare la prof. Martinelli e il prof. Barbata. “Un’altro professore?” Ci siamo chiesti. Costui ci ha accompagnato in una stanza che si trova all’interno del call center e con voce ferma, ma che lasciava intravedere una certa emozione, si è rivolto a noi dicendo:

Buon giorno a tutti, mi chiamo Pino e sono il responsabile di questo posto. Qui ci occupiamo dei pagamenti del canone Rai e rispondiamo alle chiamate del numero 1254.

Pino ci ha raccontato di alcune chiamate che lui stesso ha ricevuto durante un turno al 1254 e ci ha fatto comprendere che molte telefonate vengono effettuate non per avere informazioni ma solo per ricevere varie forme di aiuto. Sono chiamate di persone che chiedono un po’ di dialogo, che vogliono essere ascoltate, che si sentono sole. Al riguardo Pino ci ha comunicato che, quando si è in carcere, ti manca tutto, ma soprattutto ti manca la possibilità di non poter fare qualcosa per gli altri, quelli “fuori”, s'intende. Per questo motivo, ogni volta che durante una telefonata lui può aiutare qualcuno, lo fa volentieri. Pino ci ha detto poi che entro pochi mesi forse uscirà dal carcere, usufruendo dell’articolo 21, il quale concede, ai detenuti che ne hanno maturato il diritto, il lavoro all'esterno. È stata spontanea, a questo punto, la nostra domanda:

Quali fantasie e quali certezze ha, legate al pensiero di uscire?

Certezze – ha riposto Pino – non ce ne sono per nessuno, ma di fantasie ne ho sicuramente una: poter finalmente vivere tranquillo e trascorrere ogni giorno qualche ora con mia figlia.” Da quel momento la stanza vuota dove eravamo entrati è diventata improvvisamente piena, piena di solidarietà. Il tempo è passato velocissimo, tra una domanda e una risposta, tra un commento e una riflessione. Ma, come succede nelle migliori circostanze, il tempo è tiranno e quindi, nostro malgrado, abbiamo dovuto salutarlo.

I rappresentanti dell'Amministrazione allora ci hanno portato nella cella 440 dello stesso Reparto, lasciata libera dai detenuti affinché potessimo visitarla. Appena siamo entrati c’è stato un secondo momento di smarrimento; ci sentivamo a disagio in uno spazio troppo, troppo piccolo. Il lampadario al centro della stanza era stato realizzato con un cartone e, sotto questo, vi era un tavolo con cinque sgabelli. A fianco cinque letti, una minuscola dispensa e una finestra. Attaccate al muro, sopra una piccola mensola larga e lunga pochi centimetri, le foto di una ragazza e di una bambina. Dalla cella, in prossimità della porta d’ingresso, si poteva accedere al bagno dove, nello spazio destinato all'antibagno, era stato allestito dai detenuti un piano di cottura; attiguo a questo, senza alcuna parete di separazione, vicino ad una piccola finestra c'era una turca. Dal Sesto Reparto siamo passati al Terzo, recentemente ristrutturato: qui la cella che abbiamo visitato era molto più confortevole, il lampadario era al neon e c’erano le tende; la cucina e il bagno, provvisto anche di doccia, erano divise da una porta.

Usciti dalla cella abbiamo percorso un lungo corridoio e siamo arrivati nell’aula in cui ci aspettavano i detenuti del CTP Cavalieri, i quali frequentano i corsi per ottenere il diploma della Scuola Secondaria di Primo grado. C’erano cinque file di banchi; le due vicino alle finestre erano occupate dai “detenuti studenti” e le tre vicino alla porta da noi ragazzi. Aiutati dal prof. Samà, dalla prof. Martinelli e dal prof. Barbata noi e gli “studenti detenuti” abbiamo avviato un bellissimo e interessante colloquio. Si sono toccati molti argomenti, molte questioni: la vita in cella, la ricerca della definizione di libertà, come i detenuti vivono il distacco dalla famiglia, quali cambiamenti avvengono nel detenuto mentre vive in carcere, cosa si può imparare in prigione e quale rapporto c’è, quando si è dietro alle sbarre, con la fede e con Dio. Il feeling che si è creato in quell’aula è stato forte e talmente intenso che abbiamo chiesto alla prof. Martinelli di poter avere altre possibilità di incontrare i nostri interlocutori. Salutati tutti i “detenuti studenti” abbiamo augurato loro buone cose, un po’ di fortuna, un po’ di serenità e ci siamo diretti verso la Sezione Femminile.

La stanchezza passava in secondo piano; l’emozione, infatti, ci rendeva stranamente più baldanzosi. Il Vice Commissario, l’Ispettore e l'Assistente capo, che sono stati con noi durante tutta la visita, lungo il percorso hanno dato informazioni sulle caratteristiche di San Vittore e appena arrivati nella Sezione Femminile ci hanno portato nella stanza dove avvengono i colloqui tra detenute e familiari; poi ci hanno condotto nel laboratorio di sartoria della cooperativa Alice, dove ci attendeva la signora Paola.

Qui le detenute confezionano capi di abbigliamento per teatri, congressi e per stilisti famosi. La signora Paola ci ha raccontato che la giornata per lei passa molto velocemente; il lavoro che viene commissionato è tanto e quindi l’intensa attività che le compete come responsabile della sartoria la distoglie dagli altri pensieri. Ma, una volta arrivata la notte, Paola ha detto: “… si paga la galera veramente! In quel momento più che mai si è da soli, ossessionati dai pensieri, angosciati dai conti con il passato." Purtroppo il tempo a disposizione era finito e, nostro malgrado, siamo stati costretti a salutarla e a portarci verso l’uscita.

Questa esperienza è stata straordinaria e molto istruttiva. Ci ha avvicinato tantissimo ad una realtà che la società accantona e fa finta di non vedere. Noi pensiamo e, dopo questo incontro ne siamo ancora più convinti, che, se una persona sbaglia, e se si ravvede e si impegna in un concreto cammino di rinascita morale, tutta la società deve accoglierla e garantirle il diritto di avere una seconda possibilità e di non essere abbandonata a se stessa.

 

Gli allievi di IV A e IV B

del liceo Scientifico “B. Russell”

a.s. 2006-2007

 

 

 

UNA GIORNATA PARTICOLARE

A.S. 2007/2008

 

Tracce dell’esperienza vissuta durante l’incontro nel febbraio del 2008 all’interno della Casa Circondariale di Milano “San Vittore” tra gli studenti delle classi IV/C e V/A del Liceo Scientifico “B. Russell” e alcuni detenuti di “San Vittore”.

 

 

20 febbraio 2008, ore 9.30: dopo essere passati sotto il metaldetector (qualche compagno si avvicina all’agente di Polizia Penitenziaria tenendo le mani alzate, come se avesse una pistola puntata contro) attraversiamo il primo ed il secondo cancello della Casa Circondariale San Vittore di Milano. La nostra accompagnatrice è il Vice Comandante Manuela Federico. Siamo tutti abbastanza tranquilli, forse non ci rendiamo bene conto di cosa ci sta aspettando. Intanto ci dirigiamo verso il terzo cancello.

Finalmente inizia la tanto attesa esperienza in carcere!

Ci siamo preparati a lungo, nei mesi passati, durante le lezioni della prof.ssa Martinelli. Aspettavamo questo momento da mesi. Ci guardiamo intorno, un po’ spaesati, disorientati. C’è chi è agitato e chi è, invece, molto incuriosito. Siamo tutti irrequieti, in allarme. Accediamo al Sesto Reparto e saliamo al quarto livello, dove vivono i “lavoranti”, coloro, cioè, che lavorano, appunto, in carcere - come idraulici, o elettricisti o altro - e che sono regolarmente retribuiti. Questi detenuti non sono chiusi nelle celle, ma possono girare liberamente, almeno nel piano in cui vivono. È difficile, per noi, comportarci con naturalezza. Non vorremmo sembrare troppo invadenti, ma nemmeno eccessivamente distaccati. Ci sentiamo a disagio, tutti ci guardano, ci osservano, ci fissano. La prof.ssa Martinelli si è raccomandata più volte, a scuola: “Ragazzi, non saremo allo zoo!”. Ma ora la situazione è ribaltata: non siamo noi quelli in gabbia, eppure siamo noi, adesso, gli strani, quelli da osservare. La prof.ssa Martinelli ci esorta più volte a salutare i detenuti, ma pochi tra noi ci riescono e quei pochi con scarsa convinzione e sicurezza.

Entriamo in una delle celle. È un po' più confortevole rispetto alle altre che abbiamo potuto scorgere fino ad ora, passando lungo i corridoi. È sconcertante vedere com’è la vita in questa piccola stanzetta: il cibo conservato al fresco, fuori dalla finestra, la biancheria personale appesa qua e là, dove è appena possibile, un bagnetto grande come un box doccia, in cui è stato costruito un improvvisato angolo cottura. Sono i piccoli particolari che saltano all'occhio: la semplicità di due porta-bicchieri ricavati da alcune bottiglie vuote, un calendario - appeso sopra all'ingresso - in cui sono segnati i giorni che passano e che separano gli abitanti di questo tugurio dalla libertà. La Vice Comandante Federico, notando quanto siamo colpiti e disorientati, ci spiega come tutti gli aspetti della vita quotidiana, anche quelli minimi, siano importanti per i detenuti: ogni piccola cosa può alleviare il senso di prigionia e di sofferenza provocato dalla reclusione. La nostra accompagnatrice racconta del carcere con passione e sentimento, ci fa capire quanto valore abbia per lei il suo lavoro, che sente quasi come una missione. Traspare dalle sue parole il tentativo di comprendere, di mettersi nei panni dei detenuti. Infatti La Vice Comandante Federico - pur tenendo sempre ben presente che i carcerati hanno un debito con la società a causa degli errori commessi - è convinta che il carcere non sia solo un ambiente in cui si deve scontare la propria pena, ma anche un luogo nel quale si deve attuare un percorso di ri-educazione. Un luogo dove ogni carcerato può e deve riappropriarsi dei valori essenziali e fondativi della società. Dietro ad ogni detenuto c'è una situazione particolare, ci spiega, un ambiente familiare difficile, una cultura che può avere indotto al crimine. Le sue parole sono molto profonde, ma solo alla fine della visita le capiremo e le condivideremo davvero.

Ci spostiamo e andiamo al primo piano del sesto raggio, dove ci attende il Gruppo della trasgressione, che si riunisce sotto la guida dello psicologo dott. Angelo Aparo. Siamo i primi allievi della prof.ssa Martinelli che possono vivere questa esperienza. Nessuno di noi sa bene cosa aspettarsi. Nemmeno la prof.ssa, che, forse, adesso vive un po' anche lei il nostro disagio.

Cominciano ad arrivare i detenuti del “gruppo”. L'atmosfera è ora, però, molto più distesa, siamo tutti sereni, i carcerati sono amichevoli, ci scambiamo anche qualche frase senza troppi problemi.

Ma è ora di cominciare l'incontro. Ognuno prende posto e il dott. Aparo - che ha la funzione di mediatore - inizia a spiegarci che questi carcerati si riuniscono per poter scambiare le loro esperienze e - invitando studenti, professori universitari, artisti e cantanti per dialogare e confrontarsi con loro - cercano di capire le motivazioni che li hanno spinti a compiere azioni illegali, tentano di ritrovare se stessi, il loro posto nei confronti della società. Il tema da affrontare è “la costruzione della propria identità attraverso la relazione”, attraverso, cioè, il rapporto con l’altro. Il dott. Aparo vuole un dibattito, è un po' duro nei modi, cerca lo scontro, provoca. Questo suo modo di fare all’inizio sembra indisponente, eppure è efficace: tutti intervengono, anche i più timidi. Nelle due ore che trascorriamo assieme con il “gruppo”, siamo tutti sullo stesso piano, i detenuti e noi. Ci dimentichiamo ogni pregiudizio, ogni diffidenza che avevamo prima di entrare a San Vittore. Ci scordiamo che quelli con cui ci stiamo confrontando hanno commesso crimini forse gravissimi.

Ci sono Vito, Mario, Pietro, Antonio, Lorenzo e Pasquale che raccontano ognuno la propria esperienza, analizzano insieme a noi la loro vita, cosa li ha spinti a commettere errori gravi, a volte irreparabili. C'è Giuseppe che, con il suo modo di parlare così colto e ricercato, ci lascia tutti a bocca aperta. Ognuno di loro ha vissuto un’adolescenza problematica. Qualcuno non ha avuto, sin da bambino, genitori affettuosi, educatori responsabili o insegnanti capaci di prevenire il disagio, i comportamenti da “bullo”. Qualcuno, poi, dice di avere scelto la via più breve e più gratificante, mettendosi alla sequela di personaggi poco raccomandabili. Tutti, negli anni della criminalità, erano alla ricerca disperata di un'identità. Tutti ammettono di non averla comunque trovata. Ora cercano apertamente aiuto, ci chiedono di pensare a loro, di testimoniare fuori quello che abbiamo visto, sentito e capito: ora noi lo sappiamo, ci sono persone che sono coscienti di aver sbagliato. Gli uomini e le donne che sono seduti di fronte e accanto a noi studenti vogliono riscattarsi, vogliono cambiare, vogliono vivere onestamente. E desiderano non essere giudicati o marchiati dai pregiudizi.

I carcerati non sono tutti uguali. Ci sono quelli che sanno voltare pagina, con umiltà e con costanza.

Le due ore sono volate via in fretta e, a malincuore, dobbiamo lasciare queste persone che ci hanno regalato tanto, che ci hanno fatto riflettere, che hanno mostrato quanta umanità ci può essere in carcere.

Qualcuno, poi, mentre ci dirigiamo verso l’uscita, ci sussurra: “Salutami la libertà”.

Accogliamo volentieri questa richiesta, sperando di riuscire a trasmettere, realmente, ciò che abbiamo visto e sentito. Vogliamo fare cambiare idea a coloro che - e sono la maggior parte - non provano nemmeno a ragionare, si rifiutano di comprendere e di aiutare chi ha sbagliato e si è pentito.

Speriamo solo che l'entusiasmo con cui siamo usciti da questa meravigliosa esperienza possa diventare coraggio. Il coraggio di diffondere, fuori - in famiglia, a scuola, con gli amici - la verità: non dobbiamo lasciarsi mai vincere dal pregiudizio e dai luoghi comuni. Dobbiamo conoscere la realtà, specialmente quando è diversa e peggiore rispetto alla nostra. Dobbiamo aprire e il cuore e la mente, e dobbiamo saper concedere, dove è possibile e giusto, un'altra possibilità.

 

Gli allievi di IV C e V A

del liceo Scientifico “B. Russell”

a.s. 2007-2008

 

(3 – continua...)


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