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Manuela Piccolo, L'altro mondo. Favola.
10 Febbraio 2006
 

L’ALTRO MONDO


Dopo che Dio scacciò le sue creature dal Paradiso e le catapultò sulla terra esse si distribuirono lungo la crosta per clima, voglia e necessità. I leoni salutarono i pesci, gli uccelli, gli uomini e andarono dove il sole nel cielo non si muove mai, impresso come il buco di una bruciatura. Le zebre, anche loro, voltarono le spalle ai leoni e alle altre creature e andarono lì dove l’erba cresceva alta ed era solo per loro. I pesci invece non salutarono nessuno, si divisero le acque saltando dal trampolino del paradiso scivolando nella profondità come un tunnel di olio. Anche gli uccelli si divisero. Le rondini si nascosero in crisalidi di paglia e sputo fino all’arrivo della prima primavera. Le aquile, che non sapevano di essere altezzose fino a quando volarono nei cieli del mondo, scelsero di volare più in alto di tutti, intorno a troni di riccia. Mentre le papere che di immischiarsi in cose grandi come le aquile non ne volevano sapere, tracciarono con il becco il loro territorio a cerchio, ci si misero dentro a nuotare. Così fecero tutte le creature. Non volevano più stare insieme, e ognuna di loro, voltando le spalle in cerca di un luogo appartato, sperava così facendo di non incontrare più l’altro. Non c’era creatura di Dio che non dava la colpa dell’accaduto ad un'altra creatura di Dio. Una volta popolata la terra i giorni passarono, gli anni passarono, i secoli passarono. Le vecchie diatribe, le feroci accuse ormai non bruciavano più tanto, di Dio in fondo non se ne sentiva più parlare, tranne da parte dell’uomo, dicevano le altre creature. Ma l’uomo ne parlava, dicevano gli animali, non per ricordarLo, ma per inventarne ogni giorno uno nuovo. Così Dio lo sentivano tutti lontano e anche le logiche della natura sembravano averli abbandonati. La terra era diventata anarchica e degli animali e degli uomini non ne voleva più sapere. Uragani, mareggiate, terremoti, fulmini vaganti spaventavano tutti sulla terra. La paura divenne una compagna serena e non ingombrante. Dopo tanto tempo si viveva così sulla terra, senza memoria. Il male e la morte si erano adagiati sul letto del mondo, erano entrati nei cuori di tutti come ospiti fissi lasciandosi assorbire, senza stravolgere gli equilibri avevano chiuso ogni creatura nell’isolamento togliendo la speranza. Il male e la morte non attiravano più l’attenzione di nessuno. Gli uomini morivano separati dagli altri uomini, senza che nessuno li guardasse, separati dalle altre creature. Gli uccelli che morivano, morivano soli e l’uomo non alzava la testa in cielo per loro. L’uomo che moriva, moriva solo e gli uccelli non abbassavano lo sguardo verso di lui. La vita sembrò per molti colma di superficialità. Fu lentamente spogliata di tutto, fino a quando della vita rimase solo la morte.

Una mattina un uomo camminava solo su un ponte a passo veloce. Il cielo era gonfio di pioggia: il suo volto strabuzzato di chi sta soffocando sembrava lì lì per esplodere in tanti frammenti di carne grigia. Quella mattina era presto, per le strade e sul lungo ponte non c’era ancora nessuno e l’uomo, con le mani in tasca e il colletto della giacca rialzato, camminava affrettandosi di tornare a casa. Intorno ai suoi fianchi e dietro le spalle si curvavano collinette e palazzi, sotto di lui si innalzavano alberi e rami, case e negozi, cespugli, lampioni e macchine. L’uomo marciava sul palato del ponte gettando gli occhi fissi poco oltre i suoi passi incurante della gola  ferrigna e assopita da cui veniva. Era un uomo né triste, né felice. Sulla sua faccia si proiettavano immagini senza alterare la consistenza dei suoi muscoli facciali. E infatti il suo volto sembrava un piccolo stagno di acqua cristallina rotondo, tutte le ombre scivolavano leggere sulla pelle liscia. Mentre camminava all’uomo gli sembrò di vedere con la coda dell’occhio un uccello cadere. Lo cercò in alto e in basso, afferrandosi prima sulla ringhiera della sponda destra del ponte e poi su quella sinistra. Di uccelli cadere quell’uomo non ne aveva mai sentito parlare; sapeva che gli uccelli volteggiavano nel cielo, perché questo gli avevano sempre detto. Ma di cadute nessun accenno. Cercò la carcassa del volatile fino a spingere il busto fuori dalla ringhiera di protezione. L’uomo rimase così sospeso a mezz’aria, con il sangue raggrumato nel cervello, allucinato. Pensò che l’uccello fosse morto e dal momento che nessuno gli aveva mai detto come morivano gli uccelli e lui non ne aveva mai visto morire uno, eccitato, ormai viola in volto, sperava di scorgerne le interiora, ma niente, dell’uccello non se ne vedeva neppure l’ombra. Quando ormai gli sembrò inutile stare steso sulla grata come una canna  da pesca ritornò con i piedi a terra. Camminando, con le mani in tasca e la testa infilata nella giacca, si immaginò di raccontare la storia dell’uccello morto ai suoi concittadini. Pensò a come si sarebbe vantato con i suoi amici raccontando di aver visto morire un uccello, del tono che avrebbe assunto se avesse potuto descrivere dettagliatamente la forma degli organi sparsi per terra tra la curiosità e lo sgomento di tutti. Immaginava le facce devote di sua moglie e dei suoi figli nell’ascoltarlo, i saluti riverenti che da quel momento in poi tutti gli avrebbero fatto nel vederlo passare. Immaginava di sentirsi chiamare dottore o scienziato. Immaginava i conduttori televisivi prendersi a botte per averlo in prima serata nelle loro trasmissioni. Si sarebbe scritto di lui per anni e anni.

Mentre camminava brillo di pensieri, vide nel punto preciso in cui gli sembrò fosse atterrato l’uccello, esplodere un nugolo di uccelli come sputati via da una crepa del terreno sotto il ponte, innalzarsi e dividersi in due grandi muri multicolori ai suoi fianchi come due estremità di un grande fiocco. Durò un istante e fu poco percettibile. Gli uccelli si erano già divisi per tutto il cielo e volavano come aghi impazziti su un gigantesco ricamo. L’uomo travolto cadde a terra e perse i sensi. Risvegliatosi dal torpore rimase steso e immobile. Gli uccelli che si facevano beffa di lui beccandogli la giacca, sentendolo muoversi sotto le zampe spiccarono il volo. Lui che di uccelli volare non ne aveva mai visti prima, restò steso ad osservarli come in preda ad una allucinazione. Gli sembrarono delle creature stupende, a vederle non riusciva a credere ai suoi occhi e al piacere che provava lungo tutto il corpo. All’uomo gli sembrò di volare e pensò che dovesse essere semplice vivere nel cielo. L’uomo che non aveva più fretta di tornare a casa allargò le braccia e strizzo gli occhi in una risata. Lui che aveva visto solo la terra in tutti i suoi colori e in tutte le sue forme non credeva che il cielo potesse essere altrettanto bello e grande, e lo sentì suo, al punto che da quel ponte si volle rialzare solo a notte inoltrata. Con le dita sfiorava le piume degli uccelli mentre con le gambe in aria muoveva i piedi accennando a volte passi di danza o lunghi passi nel cielo. Anche il cielo rimase sorpreso di sentire i passi di un uomo premergli sul dorso, ma divertito lo lasciò fare. Quando si rialzò dal ponte, l’uomo si incamminò con tutto il cielo negli occhi, ma non ancora sazio volle andare dal mare. Il mare, come il cielo, nessuno aveva più voglia di vederlo. La gente diceva che guardare il mare serviva a poco, non dava da sfamare e che i pesci non avevano nulla a che vedere con gli uomini. L’uomo sapeva solo che il mare è simile al cielo e diverso dalla terra e che i pesci sono creature diverse dagli uomini come dagli uccelli. Guardando il mare l’uomo si accorse che la notte e il giorno erano diversi sia per la terra, sia per il cielo, sia per il mare, e anche se il mare era nero come l’inchiostro, quella notte, l’uomo volle comunque immergersi per conoscere i pesci. Vide pesci di ogni grandezza e forma e vide colori nuovi e scoprì, sentendosi bambino, che nuotare è come volare. Ritornato a riva, sazio del mondo, l’uomo passò la notte a pensare guardando a volte su e a volte giù. “C’è vita in cielo” pensò, “Ed è vita mia”. “C’è vita in mare, ed è vita anche per me”. Scoprì di essere del cielo, del mare e della terra, un tutt’uno con il resto delle creature, sentendosi come protetto e rinato, alleggerito dai suoi pensieri, sollevato dall’angoscia dei suoi dolori, dai suoi pesi. Piangendo e ridendo l’uomo corse per le vie del suo villaggio alzando il mento dei concittadini che incontrava e gridando ciò che aveva compreso, in modo che tutti potessero sentire la storia degli uccelli del cielo e del mare e i suoi pesci. L’uomo, una volta superato il suo villaggio, corse ancora e si fermò solo dopo aver percorso tutte le vie del mondo. Le creature della terra avevano il mento alzato e guardavano il cielo. Gli uccelli e tutte le creature del cielo, disturbate dal fracasso della terra abbassarono anche loro gli occhi e si fecero più vicini agli uomini; così fu anche per i pesci e per tutte le creature del mare. Gli uomini, che avevano dimenticato il volto delle altre creature e i volti di tutti gli altri uomini; le creature del cielo del mare e della terra che avevano smesso di pensare agli uomini e alle altre creature, furono sbalorditi di vedere come la vita avesse assunto infinite forme diverse.

Da quel momento in poi la speranza ritornò familiare e la morte e il dolore tornarono ad essere intrusi sgraditi; la natura riacquistò lentamente la sua disciplina e più nessuna creatura in cielo, in terra e in mare moriva e nasceva senza lo sguardo di tutti. La morte e il dolore passavano comunque strappando vite e minacciando cuori, ma ogni volta che ciò accadeva le creature della terra guardavano in cielo le altre creature e si riempivano di vita nuova, le creature del cielo guardavano in terra e verso il mare, tutta la vita che c’è, tanta quante sono le creature e non si sentivano più sole. Allo stesso modo si sentivano sollevate le creature marine che del mare non si sentirono più prigioniere.


Manuela Piccolo è la più giovane collaboratrice de "Lo scaffale di Tellus", e qui presenta una sua prova nel genere della favola.


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