Quando sono convinto di una cosa, devo sbatterci il grugno per accettare la sconfitta, e siccome ritengo che “chi la dura la vince”, non mollo così facilmente la presa. Un lettore-internauta proponeva di “marchiare” il formaggio Bitto in maniera differente: Valle per Valle. Io non la ritengo una buona soluzione, anche se riconosco che l’orgoglioso campanilismo degli “agricoli” va tenuto in considerazione per smussare ...gli spigoli.
Prendendo spunto da questo suggerimento, ripropongo, coniugando le due cose, una mia trita e ritrita proposta che fece a suo tempo arrabbiare l’ex direttore del CTCB, Fabio Rava, ad una Fiera del Bitto. Allora, avete indovinato di che cosa si tratta?
Ma della mia convinzione che il Bitto si debba produrre obbligatoriamente col latte di capra! Attualmente è consentito aggiungere una percentuale massima del 10% di latte di capra nel latte di vacca che si usa per produrre Bitto. Dal 2010 propongo che tale “concessione” diventi un obbligo. Da questo punto di vista non è che i soci delle Valli del Bitto abbiano tutti i torti: che in tutti gli alpeggi della zona di produzione del Bitto tornino le capre! Ma non alcune per “far vedere” al consumatore che ci sono, ma in una ben determinata percentuale o numero. Ad esempio se il carico dell’alpe è di 100 vacche da latte, è obbligatoria la presenza di almeno 20/25 capre.
Voi direte e i caprai dove li troviamo? Ecco che forse eventuali contributi per la monticazione potrebbero essere finalizzati a questo scopo e vedrete che i caprai saltano fuori e magari scompare il “carro dell’unifeed”…
Che nesso c’è? Pensateci su bene e fatemi sapere se abbiamo intravisto la stessa opzione! Perché, se si può produrre il formaggio Bitto in due modi, con o senza il latte di capra, è una (per ora chiamiamola così) scorrettezza commercializzarlo, senza che il consumatore sappia se, in quella forma di formaggio, c’è o non c’è latte del capra. Certo se a luglio va in Val Gerola, in Tronella, le capre le vede e sa che in quel Bitto c’è sicuramente del latte di capra. Ma a Milano, il mese di dicembre, vorrei vedere ‘l Sciur Brambila a distinguere un Bitto con, da un Bitto senza latte di capra… Tant’è che io ho sempre proposto di imprimere, sulle forme di Bitto prodotte anche con del latte di capra, una testa stilizzata di una capra. In modo, appunto, che il consumatore capisca subito. Proposta mai presa in considerazione.
A questo punto viene buona la proposta del navigatore tellusiano, e in che modo? Nelle forme di Bitto prodotte in Val Gerola, Albaredo, Tartano, ad esempio imprimeremo il muso di una capra di razza Orobica, perché le capre di quegli alpeggi sono le capre di razza Orobica o di Valgerola. In Valchiavenna si monticheranno capre di Razza Frisa e, sul formaggio, andrà impressa la faccia di una capra Frisa. Nel territorio della Cm di Sondrio, potrebbero essere “portate su” capre Saanen. In Alta Valle la Camosciata delle Alpi. Zona ben delineata, razza ben definita… Se questa specie di suddivisione territoriale: una Comunità montana, una razza di capra, vi sembra complicata, si potrebbe marchiare le forme di Bitto a seconda della razza allevata dal “caricatore”. Un allevatore tiene in stalla Frontalasche da una vita e vince l’asta per gestire un alpeggio in Valgerola: si porti pure su le sue Frontalasche, in Valgerola. L’importante che sul formaggio Bitto prodotto nel suo alpeggio vi sia impresso il musone di un capra di razza Frontalasca. In modo che il consumatore sappia che quel formaggio Bitto, prodotto in quell’alpeggio, al latte di vacche (per ora) Brune, Pezzate rosse o Pezzate nere, ecc., è stato aggiunto del latte di capra di razza Orobica o Frisa o Camosciata o Saanen, meticcia, ecc. e in quale quantità e qualità.
Se ne può discutere, almeno?
Alfredo Mazzoni