È capitato qualche volta che dei ladri, evidentemente assai sprovveduti, si siano dati da fare per entrare in casa mia. In un paio di casi ci sono riusciti mentre io ero assente, ma con il solo guadagno di una delusione. E in un'occasione mi hanno persino lasciato in ingresso un cacciavite rotto, usato probabilmente come passepartout. Se è ragionevole credere alle testimonianze dei vicini, ambo le volte potrebbero essere stati giovani nomadi a scassinarmi l'uscio: alcune altre circostanze, riferitemi in questura, avvaloravano questa ipotesi. Non c'è nulla di provato, e l'annosa psicosi che nutriamo attorno ai nomadi potrebbe aver interferito nella percezione dei fatti, ma ammettiamo pure che sia così. Ad ogni modo, anche se il danno a mio carico si è sempre limitato alla devastazione della serratura e a un po' di disordine in più (non sono una gran donna di casa) da cittadina diligente ho fatto quello che viene richiesto appunto ai cittadini diligenti: ho chiamato la polizia. A questo punto vorrei potervi dire che le cose sono andate come vanno nei film: al telefono mi dicono di non toccare niente, nel giro di un quarto d'ora la squadra delle forze dell'ordine arriva, esamina, prende le impronte, mi chiede se ho sospetti; io offro loro un caffè al termine del sopralluogo e i poliziotti mi danno un nominativo di riferimento a cui rivolgermi per il prosieguo delle indagini.
Non è andata così, ovvio, ma non perché i ladri non avevano trovato nulla da portarsi via: non va così neppure quando, come nel caso di una delle mie vicine anziane un paio d'anni fa, spariscono oggetti di valore. La donna mi raccontò, sconvolta più dalla perdita affettiva rispetto ai “gioielli di famiglia” che dalla perdita economica, di aver subito dalla polizia un trattamento da lei giudicato sbrigativo e insultante. Alla chiamata telefonica le risposero di venire in questura, e là le chiesero se pensava di essere l'unica eccetera (probabilmente questa era l'amarezza di lavoratori che agiscono in condizioni disagiate, ma credo che sia ingeneroso scaricarla su altre vittime). Nell'ambito delle mie conoscenze, ho udito narrare durante gli anni dozzine di storie simili. In nessuna figurava il rilevamento delle impronte digitali negli appartamenti interessati da effrazione e furto. Vai, fai denuncia, e tutto resta lettera morta.
E qui veniamo alle impronte da prendere ai bambini rom. Su quanto questo provvedimento sia ignobile, penne e voci migliori delle mie hanno sufficientemente detto. Io vorrei discutere della sua efficacia in materia di prevenzione e sicurezza: se nessuno prende le impronte sui luoghi dei reati, probabilmente perché reati minori, perché non ci sono né personale né risorse materiali sufficienti e così via, con cosa si confronteranno le impronte prese ai bambini? Tanto per sapere. Se i rilevamenti della polizia scientifica, in Italia, si limitano per necessità agli omicidi o a reati altrettanto gravi, che evidenza ha il Ministero dell'Interno del coinvolgimento in essi di bambini rom? E sempre per curiosità, cosa esclude dal provvedimento i bambini di altre etnie e culture, e i bambini stanziali di ogni gruppo presente sul territorio nazionale? Se non vi sono prove, e non ve ne sono, e vogliamo soltanto dare ascolto e fiato alla paranoia, è più ragionevole sospettare di tutti che di un solo segmento.
Ma a questo punto ho un'ultima domanda: cosa siamo diventati, come italiani, se io sono costretta a scrivere questo intervento, e cioè ad entrare in un dibattito che non avrebbe neppure motivo di esistere? I bambini sono tutelati nei loro diritti da una pletora di convenzioni nazionali ed internazionali (una di queste Carte porta persino il nome della città in cui vivo), e qualora commettano dei reati noi ne teniamo responsabili gli adulti a cui questi bambini sono affidati: una semplice norma di civiltà di cui un tempo potevamo andar fieri. Forse potremmo chiedere al nostro governo di smettere di coprire di fango quel poco di orgoglio che ci resta non tanto come cittadini italiani, ma proprio come esseri umani.
Maria G. Di Rienzo
(da Notizie minime della nonviolenza in cammino, 5 luglio 2008)