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Maribruna Toni: Poesia di mare, vita e speranza. A Cura di Gordiano Lupi
04 Luglio 2008
 

Pubblichiamo questo Meridiano non autorizzato di Maribruna Toni che storicizza la sua produzione poetica, raccolta e custodita dalla famiglia, ma solo in minima parte pubblicata in vita. Non siamo Mondadori e non potremmo usare il nome della prestigiosa collana, ma lo facciamo perché la nostra iniziativa è non profit e serve a far conoscere un’artista prematuramente scomparsa. Meridiano rende bene l’idea di antologia definitiva che raccoglie l’intero corpus poetico di Maribruna Toni.

In questo libro ristampiamo le quattro sillogi edite: Le vele, i voli, i veli (Libroitaliano, 1997), unica antologia pubblicata in vita, L’urlo si fa silenzio (Traccedizioni, 1999), Un sogno smarrito (Il Foglio Letterario, 2001) e Rimpianto d’onde, di sale e di tempeste (Il Foglio Letterario, 2003). In appendice inseriamo una preziosa e inedita raccolta di Poesie ritrovate, apparse dopo la sua morte sulle colonne delle riviste Il Foglio Letterario, Carmina e relativi supplementi antologici. Come emblematica chiusura pubblichiamo “L’occhio incantato”, lirica simbolo che racchiude tutto il pensiero filosofico-religioso di Maribruna Toni. Per completare la conoscenza della vita di Maribruna e per approfondire gli aspetti critici legati a poesia, pittura e narrativa è indispensabile la lettura di Per conoscere Maribruna Toni di Maurizio Maggioni (Il Foglio Letterario, 2004). Si tratta di un saggio di piacevole lettura che contiene un’analisi approfondita della poetica e persino alcuni racconti inediti.

Allo scopo di offrire un modesto contributo critico ristampo due recensioni a mia firma comparse sui periodici L’Etrusco e Costa Etrusca, in merito ai primi volumi editi di Maribruna Toni.

 

Le vele, i voli, i veli (Libroitaliano, 1997)

 

Maribruna Toni è pittrice di grande interesse, ma è anche autrice di un prezioso libretto di poesie pubblicato da Libroitaliano.

Si tratta di un’opera breve ma densa di contenuti, intensa e dal respiro profondo, che attraversa tutte le stagioni dell’animo umano e si interroga sul senso profondo dell’esistenza, cercando di dare a tutto una risposta poetica esauriente.

Il poeta, per descriverlo con le sue stesse rime, «è un fantasma/ spirito incorporeo/ che si lascia portar/ di vento in vento» e proprio grazie a questa sua connotazione può guardare la vita con distacco e cercare di comprenderla a fondo.

Bellissimi sono i passi in cui si interroga dicendo: «Ed io chi sono? Cos’è la mia vita?/ Vorrei per una volta, anche una sola/ uno specchio fatato/ per capire, per avere conferme/ per sapere/ se il nascere e il morire/ di ogni giorno/ ha un senso, un fine/ o è un mezzo, se è solo/ un ricercare che sottende/ coraggio, volontà, perseveranza/ ma ti conduce infine alla coscienza,/ la conoscenza della verità».

Nelle liriche di Maribruna troviamo un mondo quotidiano ricostruito passo dopo passo, partendo dai ricordi di fanciullezza e dai sorrisi dispensati dalla nonna al focolare, mentre pensieri di morte e scoperta prematura del senso della vita aprivano la strada alla vita degli adulti (La nonna ci portava a letto a forza/ gli occhi pieni di stelle/ ancora ignari della sorte che tutti ci accomuna/ ancora senza la paura di malattie e dolor/ della morte). In questi versi non ci si abbandona mai al rimpianto del tempo perduto, non c’è mai pessimismo e sfiducia nel futuro e in un possibile cambiamento, anzi il ricordo è vissuto sempre come spinta propulsiva verso il futuro. È facile, avventurandosi nell’immaginario poetico, scoprire la memoria degli ideali perduti, la perdita dell’innocenza e delle illusioni giovanili, ma anche parole di speranza per un domani che è sempre visto con gli occhi di chi vuol costruire qualcosa in positivo.

Maribruna, forte di una fede in un Dio non tradizionale e che lei non avrebbe voluto scritto con la lettera maiuscola, rifugia le speranze nell’amore, perché «il tuo potere, amore, è sconfinato».

Nei versi liberi di Maribruna si raccoglie una musicalità estrema che non si fa vincolare da rigidi giochi di metrica. La musica è nel suono delle parole, ricercatissime e colte, negli aggettivi che si arrampicano sui sostantivi e riescono a farli pesare in modo straordinario, nel panorama marino che permea di sé ogni pagina del libro. Ad ogni passo è vera poesia: «Anima vagabonda che non sai/ dove ti porta il vento/ se ti conduce in groppa a una saetta/ o là dove van l’onde in riva al mare…» e il rimpianto di quel che non è stato non sa mai di rinuncia e non è una dimostrazione di debolezza, così come l’amore per la natura non è un rifugio per fuggire dalle difficoltà del mondo, ma un modo per esorcizzarle e superarle. Da ricordare il sapore panteistico delle strofe terminali, dove il poeta diventa una sola cosa con la natura che lo circonda (Ora che la mia mente/ ed il mio cuore/ son diventati pietra/ scoglio/ roccia/ ora finalmente/ della terra/ mi sento/ creatura).

Un libro profondo, da leggere, meditare, assaporare strofa dopo strofa, per conoscere uno dei più alti esponenti della cultura locale, una persona dalla sensibilità eccezionale che ci ha lasciato troppo presto per quanto ancora aveva in animo di poter dare.

 

L’Urlo si fa silenzio (Traccedizioni, 1999)

 

Quando la morte l’ha colta di sorpresa Maribruna Toni teneva nei cassetti i suoi ultimi lavori incompiuti. Forse qualcosa era da rivedere, probabilmente molto restava da rielaborare, ma in ogni caso bene ha fatto Giovanna Vizzari a curare un’edizione postuma di questi versi, che completano il discorso lasciato aperto dalle liriche de Il volo, le vele, i voli. Non si raggiungono i vertici di espressività poetica toccati nel libro precedente, che l’autrice aveva potuto curare direttamente, scegliendo con calma ciò che valeva la pena pubblicare. È indubbio che anche in questo caso ci troviamo di fronte a un lavoro letterario di estremo valore, che possiamo definire poesia senza timore di essere smentiti. Basta scorrere poche pagine e imbattersi in una formidabile descrizione marina di Piombino, per capire che solo l’animo di un poeta poteva soffermare lo sguardo «dove un gabbiano/ che non trova il mare/ s’appiglia, s’impiglia/ ad un pino,/ strozzato/ da una forcella/ di due rami/ in croce» e questo è uno dei versi più belli ed intensi di tutta la raccolta. Continuiamo a scorrere le pagine e troviamo una preghiera laica di rara forza poetica. Il Dio di Maribruna è un Dio che sta nelle cose, che vive in esse e le accompagna giorno dopo giorno. È un Dio con il quale si può danzare, sorridere, scherzare… Bastano i primi versi per capire: «Dio Padre dacci oggi il nostro pane/ quotidiano./ Il domani avrà cura di se stesso. Sii qui ora,/ e aggrappati al tuo oggi/ e balla con lui/ un valzer lento/ tienilo stretto,/ abbraccialo, accarezzalo,/ digli che l’ami e amalo». Dove l’immagine del valzer lento è veramente efficace e fa trasparire sensazioni di dolcezza ed estremo bisogno d’amore, di affetto, di sicurezza.

E poi la morte. Sempre presente come un presagio nefasto nei versi di Maribruna. «La morte è quella sfida/ che è ancora una certezza/ ed il mistero/ ed anche l’infinito,/ ma è anche il finito indefinibile,/ per questo tu la temi e la desideri,/ per questo tu la fuggi e ti abbandoni,/ ti danni e ti ci acquieti,/ la odi e l’ami…» Questa morte amica e nemica, descritta con dolcezza e tranquillità. Questa morte odiata e amata, fuggita e invocata. Questa morte che tutto sommato è sempre compagna della nostra vita. Tanto da farle dire, in una delle ultime poesie: «È intatta in me una voglia di morire/ quante di lei canzoni canterò sul ciglio/ lei/ la cavernosa impudica/ lei e lei/ amido e inesistenza/ e pascolando il pasto ovunque mi consuma».

Non dimentichiamo gli stupendi versi che sanno di mare e salmastro, dai quali traspare una Piombino lirica, una terra incantata, che è fatta di voli di gabbiani e profumo di ciminiere, frammisto ad acre odore di vento, che porta sentori lontani di giorni passati. Ma lasciamo parlare Maribruna con i suoi versi semplici e delicati: «Al tramonto manciate di conchiglie/ rubavano i respiri alle maree/ per farne dono a orecchie di bambini,/ insinuando l’ignoto ed il mistero,/ rimescolando incanto e sortilegi». Osserviamo la scelta dei verbi e dei sostantivi. È sempre un linguaggio ricercato, eminentemente poetico. «Il vento che latra», «Il sole che sbenda la notte», «Il vascello senza rotta condannato alle tempeste»: sono tutte immagini efficaci, intense, profonde, ma al tempo stesso dure e laceranti, sulle quali vaga lo spettro della morte come “ultima spes”.

Che altro dire? Solo che è un’opera di una grande artista che merita di essere letta, studiata e approfondita. In poesia fare le parafrasi o cercare troppi significati nascosti equivale a snaturare il senso della lirica stessa. E allora il nostro consiglio è quello di leggere il libro e assaporarlo lentamente, per farsi conquistare strofa dopo strofa da un dolcissimo vortice di sentimenti.

 

***   ***   ***

 

 

Ricordo di Maribruna Toni

 

Non sono un critico letterario. Sono un lettore. Amo la poesia di Maribruna Toni perché mi trasmette emozioni, mi fa ragionare sul senso della vita, mi ricorda che una persona diversa da me, alcuni anni fa, ha pensato le stesse cose che io sto vivendo. Miracolo della letteratura che si verifica soltanto quando leggiamo un vero scrittore.

Non m’interessa la questione se Maribruna sia stata più grande come pittrice o come poetessa e poi la chiarisce lei stessa in “Perché ho scritto”, breve pezzo ristampato in questo volume. Maribruna era una pittrice in prestito alla letteratura, ma sapeva far bene il suo mestiere perché catturava illusioni, sogni, respiri del vento, rumori di foglie, forcelle di rami in croce, tramonti, cospargeva di metafore, dava musicalità metrica e costruiva poesia.

Non ho avuto il tempo di essere amico di Maribruna. Sono stato soltanto un suo grande lettore. Tra me e lei c’erano dieci anni di differenza, vivevamo in mondi distanti, percorrevamo strade diverse che non convergevano. Eppure credo di aver sempre visto Maribruna affacciata al terrazzo di viale Regina Margherita, un sorriso che mi rassicurava mentre preparavo gli esami universitari, nel giardino della mia vecchia casa in via del Chiassatello. Maribruna lesse il mio primo libro, quel Lettere da lontano che adesso mi sembra una cosa scritta da un altro, pure se ero io un po’ di tempo fa, non restiamo le stesse persone, cambiamo un poco alla volta, un giorno dopo l’altro. Maribruna lesse e apprezzò, aveva sempre una buona parola per tutti, anche se era la prima ad aver bisogno d’amore e comprensione. Maribruna era fatta così, metteva in pratica la sua filosofia di vita, viveva le cose che scriveva, sapeva essere buona e donare, non chiedeva niente in cambio, pensava prima agli altri e dopo a se stessa.

A dieci anni dalla morte capita che ricordo Maribruna, rivivo una cena al “Faraone”, io e lei davanti a un vino bianco, dopo una pizza, parliamo di vita e letteratura, di sogni e speranze. Povera Maribruna, non ho avuto il tempo d’esserti amico, un amico vero che comprende, pochi giorni dopo eri a coltivare pensieri sulle stelle. Restano i tuoi libri, le tue poesie, tanti ricordi. Rileggo le cose che dicevi, penso che sei vicina e puoi parlare. Per fortuna la magia della letteratura rende immortali. È stato per non dimenticarti che nel 1999, insieme a Maurizio Maggioni e ad Andrea Panerini, abbiamo fondato Il Foglio Letterario. Capita che oggi ti penso in Paradiso abbracciata ad Aldo Zelli, cavalcate nuvole di sogni, spiate gabbiani impauriti, sfidate un vento che percuote scogliere, sconvolge oasi incantate e dune africane. Il Foglio Letterario è nato per farvi sopravvivere alla morte. Mi chiedo se abbiamo onorato davvero la vostra memoria in mezzo a troppe beghe da piccoli egoisti che di sicuro avreste disapprovato.

Noi ci abbiamo provato, da uomini piccoli quali siamo.

Non siate duri nel giudizio.

Sono troppi anni che non ci vediamo.

 

Gordiano Lupi

 

 

***   ***   ***

 

Maria Bruna Toni, «i sogni, ombre suicide

del presente, si sciolgono in pianto»

Un contributo e un ricordo di Patrizia Garofalo

 

«Ho innalzato/ su piedistalli di cartapesta/idoli di creta/poi è piovuto./ E ora/ i basamenti son poltiglia/ e gli idoli/ soltanto una fanghiglia./ Resta intatta solo la memoria/ incisa a fuoco dentro la mia carne/ così il passato diverrà presente».

La memoria fa da collante, da tessuto all’oggi di cui siamo protagonisti e responsabili, nessuna condanna anche nei versi più esasperati dell’autrice se non a se stessa che non ha saputo né voluto essere diversa e ha sentito e cantato la pena del disincanto, dell’inganno, dell’amore non ricevuto, dei sogni trovati impiccati alle sbarre.. «suicidi disperati per paura/ che li uccidessi con l’indifferenza». Ma l’indifferenza non regna in nessuno dei suoi versi, la ricerca di autenticità è esasperata al punto da affidare a scrigni, segreti, dolori, amori, se stessa e le sue ceneri, in groppa ad un'onda che la porti lontana e la congiunga al cielo.

Una tavolozza di colori che si mescolano e diventano parola poetica, sconvolgono di pennellate le stelle, il pianto, la vita e la morte e l’ordine delle cose; la ricerca del colore diventa trascendenza, spiritualità, infinito.

Se il mondo non ha voluto entrare nel suo giardino, darle la mano e conoscere «il mio bosco, il mio lago e le foreste/ i paradisi o i magici miraggi di oasi incantate/ i giochi, le canzoni, le risate/ i flauti, gli organi i violini», la poetessa lo terrà con sé racchiuso nella «veglia della morte mia» dove non c’è «olio sufficiente/ per riaccendere/ il lume dei ricordi » e attraverserà la vita consapevole, che l’uomo ha già da sempre sostituito l’amore di una carezza con l’indifferenza, elemento in lei presente solo come linea di demarcazione dal suo mondo e mai possibile rifugio al dolore così come invece la suggerì Montale. Maribruna penetra il mondo con una fisicità sorprendente, con un’aderenza d’anima che via via si fa sempre più metamorfosi panica con gli elementi della natura con la quale “gioca” a vivere creando puzzle di cui lei è tessera integrante: «ho razzolato/ tra le nubi/ che concimavano solchi di mare:/ cercavo la luna/ se ne stava nascosta/ pudibonda/ tra le rughe della notte». Notte che Mariarosa vive nelle sfumature e nelle eco delle conchiglie, dei silenzi, delle albe attese, nei tramonti che tralucono ombre, mistero, ignoto nella preghiera di un pianto che ristori mentre la luna specchia sul mare, «meduse/ flaccide e dolenti / racchiuse nel pallore tremolante/ di una morte recente».

Consapevole che basterebbe «la svirgolata d’ala/ d’un sorriso» a parare a festa una solitudine, inventa cieli e farfalle e bagliori e ombre fatate, pleniluni tremuli d’acqua e di mare, d’incanti e di salsedine, di bleu cobalto e di meraviglia e di tutto questo stupore si farà «vestale d’amore» per sempre. Intense nel dolore che le incide le parole di Giovanna Vizzari: «se non c’è chi ti ascolta a che pro aprirsi ad una vertigine di suoni, meglio nascondere la scoperta del male come un virus e amare indifferentemente uomini e cose a loro insaputa». La poetessa aveva risposto già alla prefigurazione della sua fine con il silenzio del suo urlo, perché la poesia è anche elaborazione del dolore ma non della propria morte che faticosamente si dipinge e si scrive; di essa Maribruna vive la sua investitura per l’infinito.

«Mi vesto di paillettes e di perline

mi velo di voiles e di chiffons,

mi lego il collo, le caviglie, i polsi,

con le fredde catene dei bijoux.

Mi ha messo anche un diadema sulla fronte

e un nastro di seta allo chignon,

un anello di ametista al dito

ed alle orecchie due pendents.

Adesso sono pronta per la festa

eccomi prostituta per la strada.

Sono di tua proprietà.

Tu sei il padrone.

Ed io la tua puttana».

Un investitura solitaria e disperata che non trova conforto se non nell’abbandono di un mondo in cui neanche i gabbiani hanno più ali, il corvo perseguita il sonno, le rondini sono fulminate e le vene sono trapassate inutilmente da aghi, analisi e camici bianchi, il sole è talvolta vissuto come incanto «ubriaco» ma sempre più presenti insistono coni d’ombre, silenzi che neanche nella tela distendono più il colore; resta l’ urlo silenzioso «il grido muore/ e mi gorgoglia in gola» e la mano che non si distende sulla tela «ha solo dita adunche/ chiuse a pugno/ rattrappite/ in un’imprecazione» e solennemente dichiara la morte come unica nostra proprietà ineludibile.

Ma la vestale non spegne il fuoco, non si spoglia della veglia, non smette di custodire, vive da cieco vate «tra tenaglie d’onde/ ripiegate/ in lamine di fogli/ di latta/ in una lotta/ liquida spirale/ di cavalli/ e creste» e dona ceneri di vita; «e mentre il vento/ ti si aggrappa in grembo/ prendi il mio cuore/ e inchiodalo ad un palo» per una crocifissione di rinascita. (p.g.)

 

 

Gordiano Lupi (a cura di)

Il meridiano di Maribruna Toni

Edizioni Il Foglio, 2008, pagg. 280


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