Don Lorenzo Milani un teorico del cattocomunismo?
Che certi cattocomunisti si siano formati anche alla scuola milaniana è una sicura possibilità. Ma chi di questi lo ha letto e studiato – e se ne vedono gli effetti – non ha però appreso le conseguenze di quanto il priore di Barbiana intendeva, scriveva e soprattutto viveva. Che certa sinistra potesse guardare ad una combinazione tra gli ideali socialisti-comunisti con quelli cristiano-cattolici è reale non solo per quei cosiddetti cattocomunisti, ma per molti altri di una generazione di ‘sinistri’ oramai stravolta da altre logiche, sia socio-economiche, sia morali. La sinistra in genere, cioè quella più moderata e non solo, che guardava agli ideali cristiani e cattolici con i quali potersi sposare per dar vita ad una nuova società ‘etica’ dove il senso del ‘servizio’ era considerato fondamentale, è oramai venuta meno. Oggi quel che fa notizia dalla sinistra è per lo più monopolizzato da personaggi che hanno oramai abbandonato posizioni di un’etica di servizio e hanno abbracciato invece una prospettiva soggettivo-capitalistica dove le scalate finanziarie, come le cordate economico-aziendali sono nel loro programma personale e di partito più che mille altre idee, perché si sono adeguati al sistema e sanno che non “farebbero strada” se attuassero don Milani.
Ma questi, di don Lorenzo Milani, hanno solo letto e forse lo anche capito ma hanno compreso che non è la strada giusta quella del priore di Barbiana: troppo difficile, troppo dura, troppo perigliosa. Non ne vale la pena, non è adatta, non serve per raggiungere il potere. Bisogna trovare altre strade più congeniali al sistema che premia – secondo le logiche di questo mondo –, chi si fa strada anche con i gomiti, i pugni. Dove i colpi bassi sono quelli che maggiormente vanno a segno anche se poi alla fine se ne fanno anche le spese, ma è bene giocare il tutto per tutto: il gioco per loro vale la candela e quindi bisogna conquistarlo questo ‘potere’ che logora soprattutto chi non ce l’ha, secondo il pensiero di antica memoria andreottiana.
Mentre Veltroni intitolava (per immagine e non per consistenza e qualità…) il congresso del Lingotto del 2000 del suo partito al famosissimo e strumentalizzatissimo detto milaniano «I Care», dall’altra chi stava in quel partito dietro un riferimento anche a don Lorenzo, come il movimento dei Cristiano Sociali, scompariva dalla mappa politica del partito ex-post-comunista come ‘coscienza critica’ e ‘accettava’ una denominazione culturale, con un assorbimento totale nei Ds dove la loro visibilità sfociava in incarichi politici e di partito e in una serie di seggi in Parlamento. E questo, di appena sei anni fa, è solo un esempio…
Ciò che però non lega i cattocomunisti a don Milani, sono proprio le conseguenze.
La proposta milaniana non guardava al potere né a quella di coniugare comunismo e cattolicesimo: le due ‘chiese’ non potranno mai ‘unirsi’ l’una con l’altra, se non per un istrionismo singolare, perché nessuna vorrà mai portare tutti e due i cappelli della ‘rivoluzione’, in nome del ‘popolo’ e di Gesù Cristo. Era proprio quest’ultimo il vero ed unico Dio per don Lorenzo Milani. Era questa la ragione ultima della sua vita, della sua vocazione, del suo farsi, perché era già prete dentro il suo cuore e dentro la sua anima: servire gli ‘ultimi’ in quei ragazzi di Barbiana dove era andato a scontare le pene di un sistema ecclesiastico che non tollerava ‘avanzate’ e prospettive di passione umana e spirituale che si facessero carne vera nella povera gente.
Sì. Perché è stato proprio il suo amore per la gente più povera verso la quale voleva che la Chiesa rivolgesse il suo sguardo e la sua attenzione senza mai desistere da quella ‘zona’ del società che invece molti politici della sinistra italiana hanno oramai abbandonato lasciando tutto in mano al volontariato, alle ‘coccarde’, ai ricordi.
Don Lorenzo non risparmiava nessuno per la sua autenticità di uomo e di cristiano. Non accettava ‘diplomazie’ e compromessi, se non fossero all’insegna dell’amore concreto, vissuto e condiviso, del bene per chi era ‘povero’, dando se stesso, mettendosi in gioco. Ma non il povero solo in senso economico e sociale, quanto per quello evangelico, delle Beatitudini. Che è più complesso e difficile da digerire di quello dello sfamare e del fare l’elemosina. È per questa prospettiva di ‘missione’ che don Lorenzo ha rinunciato a tutto: «fai strada ai poveri senza farti strada».
E dove troviamo, tra i politici della sinistra del nostro tempo – forse con alcune eccezioni –, una logica del genere vissuta nella politica di partito e parlamentare, compresi i cosiddetti ‘cattolici’ di centro? È solo quando ci si gioca la ‘pelle’, la propria – successo, immagine, soldi, prestigio… – che allora prende significato e senso una politica delle Beatitudini. Dove il Vangelo si fa ciccia, nella storia del quotidiano e non solo nell’eccezionale della festa.
La politica delle Beatitudini oggi come oggi non esiste. E tanto meno quella delle curie, sia ecclesiastiche sia politiche e sociali.
Don Lorenzo Milani ha sì predicato al mondo anche politico dei cattocomunisti, ma ha predicato soprattutto ai suoi confratelli nella fede per far loro capire che la scelta di vita del ‘povero’ di quello ‘beatificato’ nelle Beatitudini deve essere abbracciata e condivisa oggi e sempre al di là di quello che la politica (arte del possibile…) può o non può combinare.
«Caro Pipetta, fratello», scriverà nel 1950 don Milani ad un giovane parrocchiano comunista di San Donato nella prospettiva di una sua vittoria, «quando per ogni tua miseria io patirò due miserie, quando per ogni tua sconfitta io patirò due sconfitte, Pipetta quel giorno, lascia che te lo dica subito, io non ti dirò più come dico ora: “Hai ragione”. Quel giorno potrò finalmente riaprire la bocca all’unico grido di vittoria degno di un sacerdote di Cristo: “Pipetta hai torto. Beati i poveri perché il Regno dei Cieli è loro”. Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, istallata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocefisso. Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degna d’un sacerdote di Cristo: “Beati i… fame e sete”».
Piero Cappelli
già Direttore della rivista di cultura milaniana I Care