È diventata, negli ultimi mesi, uno straordinario fenomeno mediatico. Il settimanale Time l’ha inserita fra le cento persone più influenti del mondo nel 2008, nella categoria Pionieri ed eroi; ma lei si definisce soltanto «una cittadina, che cerca di raccontare la realtà». In aprile le è stato assegnato il prestigioso premio di giornalismo «Ortega y Gasset», fondato dal quotidiano spagnolo El País; e quando, ai primi di maggio, il regime castrista le ha impedito di recarsi in Spagna per ritirarlo, lei ha inviato un messaggio spiegando che questo divieto mostrava più del suo blog la situazione cubana e aggiungendo che «nessuno gode di immunità a Cuba», ma che il premio e la notorietà che lo accompagnano sono «un piccolo scudo protettivo».
Stiamo parlando di Yoani Sánchez, la curatrice del portale Desdecuba.com e dall’aprile 2007 del blog Generación Y: il più famoso diario in rete indipendente cubano, con oltre un milione di contatti al mese e fino a seimila commenti per un post.
Nata nel 1975 all’Avana, Yoani ha studiato filologia ispanica laureandosi nel 2000 con una tesi che definisce «incendiaria»: Parole sotto pressione. Uno studio sulla letteratura della dittatura in America Latina. Un po’ per questo titolo, considerato con sospetto, un po’ perché non aveva svolto i due anni di «servizio sociale» obbligatori a completamento dell’università, dopo un primo lavoro in una casa editrice si dedicò a fare la guida e l’insegnante di spagnolo free lance per i turisti. Intanto imparava bene il tedesco, anche perché attratta dai libri di Kant. Nel 2002 – spiega – «il disincanto e l’asfissia economica» la spinsero ad emigrare in Svizzera, da dove rientrò per motivi familiari nell’estate del 2004. Si appassionò allora all’informatica, lavorò come web master alla rivista di riflessione e dibattito Consenso – fondata dal suo compagno Reinaldo Escobar con altre quattro persone – e lì iniziò a sperimentare e ad estendere le possibilità della comunicazione in rete in un contesto repressivo.
Yoani, suo figlio Teo, di 12 anni, e Reinaldo vivono al quattordicesimo piano di un casermone di tipo sovietico, dotato di un cigolante ascensore «dell’epoca di Brezhnev», come dicono.
«Questa casa ci assomiglia molto» spiega. «Abbiamo creato dei lucernai per avere molta luce naturale, abbiamo tante piante, un acquario – tutte cose sistemate da Reinaldo. Alla fine degli anni ’70 lui lavorò quattro anni in una microbrigada per costruire questo edificio; poi è stato qui in usufrutto, pagando una quota per vent’anni, e ora infine ha la proprietà dell’appartamento».
Lo dice con orgoglio, e la si può capire: rispetto alla miseria opprimente di tanti alloggi cubani, che sembrano appena riemersi da un bombardamento, il loro è un luogo dell’anima sereno, dove si può respirare e pensare. Ma Reinaldo, che ha una trentina d’anni più di lei, non si è dedicato soltanto all’edilizia volontaria. È stato anche un giornalista ufficiale ed ha ottenuto due premi per la propaganda politica; ha scelto il giornalismo indipendente nel 1989 – in Europa centro-orientale un’epoca di cambiamento, che Cuba inizia appena ad intravedere. In quel periodo, allontanato dal giornale Juventud Rebelde», lavorò anche come meccanico di ascensori. Ora è parte vitale di un’esperienza fra le più creative e dinamiche dell’isola.
Yoani è magrissima, una frustata di capelli castani le si getta sulle spalle quando piega il viso o lo appoggia sulle mani dalle dita sottili, gli occhi scuri le brillano mentre coglie una sensazione. La diresti una hippy fuggita dal tempo, quasi una ‘strega radicale’ di quelle che hanno cambiato il nostro Paese quando lei era ancora una bambina e Reinaldo costruiva muri o articoli.
Quando le spiego che faccio parte del Partito Radicale Nonviolento, prima che io possa aggiungere «transnazionale, transpartito» e quant’altro, ripete con un sorriso: «Partido radical y nonviolento… Que combinación!».
«Abbiamo come simbolo il volto del Mahatma Gandhi» preciso.
«Esto me gusta!»
Già, nonviolenza. Se quella di Gandhi ha funzionato anche grazie ai media britannici, in Paesi dove i media non sono liberi – e non penso soltanto a Cuba – il tentativo di liberare la comunicazione deve essere costante.
Yoani e Reinaldo parlano entrambi uno spagnolo molto articolato, ricco, e lo scandiscono lentamente per consentirci di comprenderlo nelle sue sfumature.
Lo studio del linguaggio è essenziale per loro. Vi fanno ricorso con apparente naturalezza, analizzando i comportamenti del regime e le possibili valenze del proprio agire.
«Quando c’erano documenti della Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite su Cuba» ricorda Yoani «i media, anche occidentali, scrivevano titoli come: “Ginevra condanna Cuba”. Falso. Ginevra condannava il governo e difendeva Cuba. Allo stesso modo, è falso dire che chi è contro il regime è contro la patria…».
L’accusa è tipica di ogni regime del mondo. Quando poi ci si trova in un Paese alla fame, il rischio di violare leggi per motivi non direttamente politici diviene ancora più forte:
«Tutti noi cubani per sopravvivere dobbiamo oltrepassare ogni giorno la linea della ‘illegalità’. Ci trasformiamo, in un certo senso, in ‘delinquenti’ – e un delinquente non richiama attenzione. Con Desdecuba.com noi ci guardiamo dall’oltrepassare la linea. Un esempio? Vi sono cubani che hanno Internet clandestinamente: comprano una password dall’amministratore di un ufficio e la usano di notte per comunicare con familiari, cercare di fidanzarsi, tentare una lotteria per un visto. Chi esprime opinioni politiche deve evitare questo “uso illegale di Internet”. Vogliamo gestire il nostro portale secondo le possibilità legali alla portata di tutti, per quanto scarse esse siano. Non dobbiamo nemmeno commettere determinati errori: la Sezione di Interessi degli Stati Uniti all’Avana potrebbe consentirci di usare Internet, ma il costo politico per noi sarebbe molto alto».
«Tutte le azioni politiche che in un modo o in un altro sono relazionate con gli USA sono vittime di propaganda da parte del governo» ricorda Reinaldo.
Restano poche opportunità. All’Avana ci sono connessioni Internet ufficiali in due cybercaffè e negli hotel, da qualche mese aperti anche ai cubani. «Prima vi entravo come ‘turista’, parlando tedesco; ora posso entrare come cubana, parlando cubano» dice Yoani. Cubano, non spagnolo: con la cadenza e le espressioni che caratterizzano la parlata dell’isola.
«Avere Internet via satellite da casa sarebbe illegale – ma non facilmente scopribile» aggiunge. È consapevole che la partita si gioca anche sui tempi del progresso tecnologico: «Ora il governo ha un dilemma: o apre a tutti i cubani, o in ogni caso potremo avere Internet entro pochi anni via telefonino, con ponte in altri Paesi dell’America Latina».
Già oggi alcuni cubani sono in grado di avere un telefono mobile con scheda prepagata: è molto costoso, ma può funzionare.
«Noi che siamo innocenti futuristi» conferma Reinaldo «abbiamo la fantasia che entro cinque anni potremo collegarci via telefono da casa, a un prezzo molto più economico che da un hotel».
«Però la tecnologia evolve sia per noi che per i censori. Alla stessa velocità, il regime entra in possesso di nuovi strumenti per censurare» ricorda Yoani, che tuttavia ha fiducia nelle proprie capacità: «Conosco molto l’informatica. È un mio hobby, in forma autodidattica, da quattordici anni. Sono una rara persona con conoscenza tecnica, opinioni e capacità linguistica…» afferma scherzando, eppure senza fingere modestia. Ha ragione: di quanti, soprattutto più anziani, hanno opinioni politiche, pochi sono informaticamente alfabetizzati. E molti giovani che usano Internet lo fanno solo per motivi privati.
Dall’ultima settimana di marzo il governo ha bloccato l’accesso al sito Desdecuba.com a Cuba; ma dall’estero vi si può accedere. Questo crea un’ondata di attenzione nel mondo, che si riversa su Cuba in varie forme.
Il blog e il portale funzionano perché il dominio non è radicato sull’isola, ma in Germania. Yoani e Reinaldo creano le informazioni e le inviano via e-mail a persone di loro fiducia, che le inseriscono. Vi sono versioni in spagnolo, inglese, francese, tedesco, polacco, e contano di avere presto quelle in italiano (l'autore non sa che questa è stata iaugurata, probabilmente mentre effettuava l'intervista, come annunciato anche in Oblò cubano, ndr) e in portoghese.
«Oggi sarebbe quasi impossibile aggiornare il blog da Cuba perché avremmo bisogno di almeno quattro ore di Internet al giorno, con costi per noi insostenibili» spiega Reinaldo. «Noi siamo autofinanziati: non abbiamo alcun sostegno economico da governi, partiti politici o altre organizzazioni».
Alcuni si domandano il perché della scelta di Internet, visto che è un mezzo ancora poco diffuso fra i cubani. «Semplicemente, perché è l’unico mezzo» dice Yoani. «Non avremmo la possibilità di stampare un foglio, né di disporre di cinque minuti alla televisione o alla radio. D’altra parte, ho molte idee per distribuire le informazioni del mio portale a Cuba».
Mostra un piccolo CD. Ne realizza uno ogni settimana con gli aggiornamenti del blog e ne fa delle copie da distribuire a persone che possono usare un computer, ma non Internet. Sull’etichetta, oltre al titolo «Generacion Y», l’avvertenza che la diffusione è gratuita, la riproduzione permessa. Chi ha conosciuto il samizdat (‘autoeditoria’) dei dissidenti del blocco sovietico lo rivede ora qui sotto altre forme.
Yoani è certa che ci saranno dei cambiamenti. «Il problema è quali ne saranno la velocità, l’estensione e la direzione. Io sono molto ottimista a largo raggio. A Cuba non ci sono conflitti religiosi, linguistici – nemmeno razziali o etnici gravi. Ma il governo mantiene un discorso completamente fuori dal tempo: socialismo, imperialismo, indipendenza… In realtà a Cuba, dove la maggior parte della popolazione è giovane, quanti hanno fra i 20 e i 40 anni sono stati molto indottrinati politicamente ma la loro reazione in generale è l’apatia. La loro frase tipica è: “Non mi interessa nulla”. Per tanti della mia generazione l’obiettivo è emigrare».
«Credo che un dieci per cento dei cubani difendano coscientemente il sistema, un dieci per cento siano contro, e un ottanta per cento siano in qualche modo ‘con il governo’ – oggi con i comunisti, domani con altri» ipotizza Reinaldo. «Alcuni amici dicono: “Non voglio bruciare la nave”. Se chiedo loro di scrivere un articolo, anche in forma anonima, mi dicono che è pericoloso perché devono finire l’università, o perché stanno svolgendo il servizio sociale, o perché avendo finito anche quello ora hanno un lavoro… Altri non hanno nulla ma desiderano emigrare, e sanno che se il loro nome finisce in una lista nera non potranno farlo. Il loro pensiero è: “Io non voglio cambiare il sistema, voglio scappare dal sistema”. C’è una minoranza di persone che ha l’attitudine ad assumersi un rischio perché le cose cambino. Tuttavia, quasi tutti vorrebbero il cambiamento. Il punto è ridurre il rischio. È necessario depenalizzare le discrepanze: a quel punto, aumenta esponenzialmente il numero di persone pronte a compiere azioni. Il nostro obiettivo è creare l’impressione che il rischio sia ridotto».
Reinaldo ha individuato una struttura del totalitarismo, quindi una corrispondente strategia per superarlo. Yoani sviluppa l’idea: «Molti emigrano dicendo: “È impossibile fare cose a Cuba”. Noi decostruiamo questo argomento. Io sono stata in Svizzera fra il 2002 e il 2004, sono tornata nell’agosto di quell’anno come ‘turista’ e sono rimasta a Cuba illegalmente perché per legge non sarei potuta restare all’estero che undici mesi; ho distrutto il mio passaporto, non hanno potuto rimandarmi in Svizzera e ho obbligato il governo a ridarmi dei documenti come cittadina cubana. Non volevo essere emigrante in un altro Paese, quando potevo cambiare le cose nel mio. C’è un libro di Milan Kundera che si intitola La vita è altrove. Io dico: la vita non è altrove, è in un’altra Cuba».
Concetti chiave, efficaci. Tanto efficaci che qualche giorno fa Fidel Castro, o chi altri scrive in suo nome e nel suo stile, nella prefazione a un libro intitolato Fidel, Bolivia y algo más ha scritto in sostanza che Yoani è una serva dell’imperialismo e che è grave che ne abbia accettato un premio. Il suo attacco è stato poi pubblicato su Granma, l’organo ufficiale del Partito Comunista; il che peraltro ha contribuito a rendere la bloghéra ancora più nota. Lei ha commentato senza reagire agli insulti, ma spiegando che poiché le sembravano – fra l’altro – una forma di machismo, dava a Reinaldo l’incarico di rispondere. E lui l’ha fatto con un post intitolato “Sul tetto di vetro” (secondo il detto spagnolo «Non tirare pietre se hai un tetto di vetro»), osservando che assegnare un premio implica più responsabilità che accettarlo e che «il signor Castro ha decorato con l’Ordine di José Martí i più nefasti personaggi che ha potuto: Brezhnev, Ceausescu, Zhivkov, Mengistu, Mugabe...».
Con tutto questo, contrariamente a quanto sarebbe avvenuto in passato, «in un anno da quando esiste il sito non è venuto nessuno in questa casa a prendere Yoani» mi dice ora, battendo le nocche sul tavolo in segno di scongiuro. «Forse all’inizio non hanno saputo come reagire e ora – dopo tanta attenzione internazionale – è troppo tardi».
«Una delle spiegazioni è proprio il fatto che a Cuba c’è una cultura machista» dice Yoani. «Io sono donna e madre, e scrivo senza violenza verbale. Non scrivo “Dittatura sanguinaria”; ma nemmeno “Il nostro amato Comandante”. Se parlo di Fidel, scrivo “Il signor Fidel Castro”».
Circa le accuse che dietro ogni espressione alternativa a quelle di regime vi sia una cospirazione internazionale, Reinaldo ricorda che «è normale che quando un popolo lotta contro una dittatura riceva aiuti da altri Paesi. Cuba ne ha ‘aiutati’ molti…». Tutti sappiamo del massiccio intervento militare in Angola; ma truppe, consiglieri militari o addestratori cubani hanno operato, di solito su incarico dell’allora Unione Sovietica, in una lunga serie di Paesi fra i quali Zanzibar, Guinea, Salvador, Nicaragua, Palestina, Siria, Libano, Yemen, Libia, Colombia. ‘Missioni internazionaliste’ alle quali sono state inviate, secondo dati ufficiali, non meno di 300.000 persone.
«Quando poi giungono critiche dagli Stati Uniti, il governo sostiene che “l’imperialismo americano intende appropriarsi di Cuba”. E se diciamo “Questo va male”, il governo risponde: “Lo dicono anche gli Stati Uniti, quindi siete complici dell’imperialismo”». Una logica degna della Fattoria degli animali di Orwell – che non a caso a Cuba è vietata.
Questo non basta a scoraggiare Yoani: «Qualsiasi cosa dicano, il mio slogan è: “Ogni giorno, comportarsi come una persona libera”. Sono il governo e le forze di polizia che devono dirti: “Non sei libero”. C’è un grande problema di autocensura. La paura è contagiosa».
«Occorre ricordare a tutti i loro diritti, malgrado gli ostacoli e le violazioni» aggiunge Reinaldo. «La stampa cubana non ha pubblicato notizie del tipo: “A partire da ora, potete alloggiare in un hotel e comprare un computer o un telefonino” (tutte cose vietate fino a pochi mesi fa ai cubani). La gente lo sa, ma non è stato detto loro ufficialmente; tocca a noi farlo. D’altra parte, consideriamo il giornale “Granma”. Molte copie se le accaparrano degli anziani pensionati, che le comprano al prezzo politico, irrisorio, e poi vanno in giro a venderle ad un prezzo più alto – magari ai turisti. In ogni caso, i cubani spesso di Granma leggono al massimo i programmi televisivi e le notizie di sport. Alcuni, fra coloro che hanno più di sessant’anni, sembra che invece lo leggano per una sorta di nostalgia terminologica: se analizziamo il linguaggio degli articoli, notiamo che quando si parla di Cuba si usano quasi esclusivamente termini con una connotazione positiva quali alcanzar, lograr, fundar, constituir (raggiungere, realizzare, fondare, costituire); se si parla di Paesi democratici, termini che danno un senso di negatività quali destruir, explotar (distruggere, sfruttare)… Altre volte, si danno notizie letteralmente esatte, ma in un modo che trasmette una sensazione falsa. Se si scrive che in Germania in un anno si sono commessi 1.400 crimenes contra extranjeros, il tono dell’articolo lascia intendere che si tratti di omicidi, anche se di per sé il termine ‘crimenes’ può indicare anche reati minori, Oppure si scelgono temi chiave e si insiste su quelli: se si parla della Bulgaria, le informazioni sono sempre che i bulgari hanno nostalgia del comunismo».
«Malgrado tutto questo», dice Yoani, «abbiamo come pilastro anche il ‘non vittimizzarci’, perché l’etichetta di vittima è paralizzante. Preferiamo parlare con mente positiva di progetti. Con un regime totalitario, non sempre funziona; però aiuta molto. Abbiamo contatti con gli oppositori, ne conosciamo forse il novantanove per cento. La maggioranza dei leader dell’opposizione mi ha chiamato per congratularsi, quando mi è stato assegnato il premio “Ortega y Gasset”. Noi non vogliamo essere classificati come oppositori politici – non per timore, ma per convinzione, perché la società civile cubana è molto frammentata; tuttavia, neutrali non siamo. Crediamo che il sistema vada cambiato. Abbiamo molti legami con settori della popolazione che non sono politici, ma sentono la necessità del cambiamento».
Le chiedo un’opinione diretta su alcune delle personalità più note del dissenso cubano.
«Conosciamo tutti; non ci sentiamo completamente rappresentati da alcuno. Oswaldo Payá, ad esempio, è una persona giustamente stimatissima, ma è molto legato alla Chiesa cattolica. È contrario all’aborto! Martha Beatriz Roque è vicina a Bush: il suo discorso non è per l’armonia, ma per il confronto. La rispettiamo molto, ma non ci iscriveremmo a un suo partito. Vladimiro Roca è stato il fondatore della socialdemocrazia a Cuba, ma sembra che scriva più per se stesso. In ogni caso, non scriverò mai contro queste persone, perché abbiamo tanto da scrivere contro il governo… Condividiamo molto con Dagoberto Valdés, che vive a Pinar del Río. Dopo avere diretto la rivista cattolica Vitral, ora è direttore di Convivencia (in Internet su www.convivenciacuba.es); è uno dei pilastri della società civile cubana. In generale, però, mi sorprende molto il consenso che sto ricevendo da tanti ambienti, dai socialdemocratici alla gente di Chiesa».
È postmoderna anche nel sottrarsi ai confini di un tempo fra destra e sinistra; rispetta la pluralità delle opposizioni e le impostazioni religiose di alcuni, ma è molto netta quando si tratta di diritti civili. Riferisce del tentativo da parte di alcuni gruppi – che poi sarebbe stato spento dalle autorità – di convocare per la prima volta a Cuba una manifestazione di orgoglio gay. L’appuntamento era per il 25 giugno in una delle vie principali dell’Avana, la Calle 23, e per qualche giorno era sembrato che Mariela Castro (figlia di Raul e presidente del Centro Nazionale per l’Educazione Sessuale) l’avrebbe appoggiata. «In una società machista, con un sistema politico che è come uno degli edifici semidistrutti dell’Avana vecchia, la lotta degli omosessuali per la libertà può essere una delle chiavi di volta» dice Yoani.
Perché si accelerino i segni del cambiamento in molti a Cuba attendono la “soluzione biologica”, crudeltà travestita da eufemismo per definire la morte di Fidel Castro. «Quando questo accadrà» ipotizza Yoani «il crollo del regime può essere una questione di due minuti, di due settimane o di due anni, ma non di altri cinquanta. L’opzione dei due minuti non può essere esclusa».
Antonio Stango
(da Notizie radicali, 30 giugno 2008)