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Gino Songini. Addio, mia bella Napoli
29 Giugno 2008
 

In valle la televisione non era ancora arrivata. Per sentire un po' di musica o per seguire una tappa del Giro d'Italia ci si raccoglieva in casa di qualcuno che possedeva la radio (molte famiglie non possedevano neppure quella). I giovanotti più intraprendenti portavano al cinema la fidanzata con le prime moto che avevano cominciato a circolare: Vespa, Lambretta, Morini, Moto Guzzi, Gilera. Il viaggio fino a Morbegno non era lungo, ma percorrere i tredici chilometri della valle (più altri sei) su di una strada sterrata e piena di buche, magari col freddo e il tempo poco buono, non era il massimo. Già, il cinema: un vero e proprio miraggio. Per noi ragazzi arrivava ogni tanto da Sondrio un signore che proiettava in un salone accanto alla canonica i film in bianco e nero di quel tempo. Era un'ora di autentica magia, che però volava come il vento. Per i nostri svaghi tuttavia avevamo a disposizione la valle: boschi, prati, grotte, torrenti. D'inverno le nostre slitte percorrevano piste interminabili. La libertà era assoluta e in qualsiasi stagione potevamo rientrare quando ci pareva. Il prete ci raccoglieva in casa sua dove eravamo altrettanto liberi di fare quello che volevamo. Fu proprio in casa parrocchiale che cominciai a pensare a Napoli. Come mai? Forse per evitare che i ragazzi si perdessero in giro più di quanto già facevano e magari commettessero peccato (è proprio vero che di buone intenzioni sono lastricate le vie dell'inferno) il nostro parroco ci ospitava e ci procurava, nei limiti del possibile, tutto quello che gli chiedevamo. Tra le altre cose aveva acquistato a sue spese una bellissima radio con giradischi con la quale potevamo finalmente ascoltare la musica che ci piaceva. Un giorno d'inverno qualcuno della compagnia (evidentemente si trattava di un “esperto”) gli chiese senza tanti preamboli di procurarsi dei dischi di Renato Carosone. Detto e fatto. Il caro e generoso parroco, che Dio l'abbia in gloria, arrivò da Morbegno con un pacco di dischi del grande musicista napoletano. La canonica divenne una specie di discoteca che a tutte le ore diffondeva la sua musica sui tetti innevati del paese. “Torero”, “Tu vuò fa l'Americano”, “Chella llà”, “Maruzzella”, “Pigliatene una pastiglia”, ecc. Sognavamo a occhi aperti ascoltando quella musica e quelle parole misteriose che, in un primo momento incomprensibili, divenivano giorno dopo giorno più chiare e familiari. Fu con le canzoni di Carosone che cominciai a sognare Napoli. Pensavo che dietro a una musica tanto bella e dietro parole tanto seducenti ci doveva per forza essere una città piena di vita, ricca di storia, resa ancor più bella dal cielo, dal sole e dal mare. Naturalmente a scuola avevamo studiato la Campania. Sapevamo dov'era Napoli. Ma i dischi di Carosone ci trasmettevano un'emozione nuova e una voglia di conoscere quella città che nessun libro di scuola ci poteva trasmettere.

Passarono gli anni e ne passarono tanti, troppi. Avevo visitato, anche più volte, molte città d'Italia, ma non mi ero ancora recato a Napoli. Poi, un giorno di novembre della metà degli anni Novanta, con mia moglie arrivai finalmente nella città ai piedi del Vesuvio. Era una giornata bellissima, fresca e luminosa. Una brezza leggera increspava le acque del Golfo e la luce del pomeriggio novembrino correva sulle onde verso Posillipo e Santa Lucia. Sul lungomare si allineavano i lussuosi hotels di via Caracciolo e sullo sfondo la montagna verde scuro del vulcano chiudeva l'orizzonte col suo morbido profilo. Trovammo alloggio in un albergo del centro, proprio a due passi dal Duomo di San Gennaro. Le strade erano pulite, come lo erano le piazze e i giardini. Per dieci giorni non ci allontanammo da Napoli. Niente Capri, niente Ischia, niente costiera amalfitana. C'erano troppe cose da vedere, e tutte troppo belle. Chiese di straordinaria ricchezza artistica, edifici storici, piazze, monumenti, castelli, musei. E poi quel mare splendido sotto il cielo blu. Facevamo ogni giorno lunghe camminate, orientandoci facilmente in qualsiasi parte della città. Coi mezzi pubblici ci recavamo nei punti più lontani: il Vomero, Posillipo, San Martino, Capodimonte. Ogni visita suscitava in noi stupore e meraviglia. La storia di Napoli, per lunghi secoli capitale di un regno, si dipanava davanti ai nostri occhi come un affascinante film. Mi pareva di sentire la presenza dei grandi del passato che, in tempi e modi diversi, erano entrati in contatto con la città: Virgilio, Boccaccio, Giordano Bruno, Filangieri, Genovesi, Leopardi... Rivedevo mentalmente i film con Vittorio De Sica, Totò, Sofia Loren, ecc. girati per i vicoli e sul lungomare partenopeo. Pensavo ai poeti e ai musicisti che avevano cantato la città, agli artisti che vi avevano lavorato, realizzando chiese tra le più belle del mondo. Amici lettori, come potete ben capire, furono per me dieci giorni indimenticabili. Non riuscivo a pensare alla camorra, alla corruzione, al crimine. Per la verità niente me ne diede motivo. Nessuno ci scippò, nessuno ci derubò. E poi in quei giorni Napoli appariva pulita come forse non lo era stata mai e come forse non lo sarà mai più. Per giunta il cielo si manteneva azzurro e una fresca brezza continuava a increspare le acque del Golfo. I napoletani si mostravano estremamente cordiali e simpatici. Anche nei Quartieri Spagnoli incontrammo persone rispettose, donne e uomini che ci parlavano con tristezza della loro gioventù rovinata dalla droga. Non c'era degrado. Soltanto il traffico aveva qualcosa di abnorme. Giorno e notte, alle dieci del mattino come alle tre di notte, un fiume di macchine percorreva le strade del centro come quelle del lungomare, un corteo infinito di lamiere in mezzo al quale le sirene della polizia e delle ambulanze urlavano disperatamente per farsi largo. E allora mi veniva da pensare a come doveva essere bella la città quando ancora le auto, le moto e i motorini non esistevano. Ma stavo raccontando di come i napoletani, cominciando dai due ragazzi che gestivano il nostro albergo, fossero simpatici e disponibili. Un giorno, andando col bus verso Capodimonte e non sapendo dove precisamente dovevamo scendere, fummo aiutati da un signore che, nonostante fosse già arrivato a destinazione, continuò a viaggiare con noi per indicarci la fermata. Quando ci salutammo non volle neppure essere ringraziato. Un altro giorno a Villa Comunale (i più bei giardini di Napoli) un signore anziano sentendoci parlare di Napoli si mise a piangere silenziosamente: «Scusatemi, sono commosso, non mi era capitato mai di sentire qualcuno dire cose tanto belle della mia città...»

Nei ristoranti fummo sempre trattati come signori. La sera andavamo a cena nelle storiche pizzerie del centro, dove campeggiavano le foto con dedica dei clienti più illustri (ricordo tra gli altri Clinton e Maradona) spendendo anche meno di quanto si spende in una qualsiasi pizzeria valtellinese. E vi lascio immaginare se la pizza era buona!

Si avvicinava il Natale e le vetrine di via San Gregorio Armeno erano ormai piene dei tradizionali “Pastori”, ossia le statuette del presepio realizzate, come da secolare tradizione, dagli artigiani partenopei. Sostavamo incantati davanti a quei capolavori della fantasia napoletana, pensando anche all'eccezionale ricchezza della tradizione religiosa della città. Ci stupivamo ogni giorno per il grande numero di chiese, oratori, monasteri, abbazie, conventi. E ancora di più per l'infinita serie di opere d'arte che li arricchiva. Soltanto a Roma e a Firenze avevamo potuto ammirare altrettante meraviglie. Nel duomo di San Gennaro si respirava un'atmosfera di raccolta spiritualità. Non avevamo modo di distrarci pensando al miracolo del sangue o al tesoro della cappella del Santo. Perché in quell'ambiente il raccoglimento appariva quasi una necessità. A sera tornavamo all'albergo stanchi ma felici. Nel cortile interno dell'hotel, dove i rumori del trafico non arrivavano, risuonavano cariche di suggestione le note di un pianoforte. Tornavano alla mente i versi di Salvatore Di Giacomo:

«...nu pianefforte e notte

       sona luntanamente...»

A questo punto qualche lettore si chiederà se non sto esagerando con la descrizione poetica di una città famosa invece per tutt'altre cose, non sempre positive. Premesso che ognuno vede la realtà con i suoi occhi, non credo affatto di esagerare. A Napoli ho passato dieci giorni tra i più interessanti della mia vita. La città, dopo quarant'anni di attesa, mi aveva dato tutto quello (e anche di più) che mi attendevo.

Venne il giorno della partenza. In treno, appena varcato il Volturno in direzione nord, cominciai a scrivere la poesia di seguito riprodotta:

 

 

Napoli, tre sillabe dolci

 

Nelle vetrine di via San Gregorio Armeno
i pastori già suonano le cornamuse.

Perdersi come uno smemorato, dopo quarant'anni

nella novembrina trasparenza di Posillipo.

(Renato Carosone fece trasognare

un inverno lontano: ghiaccio e bufera

sul giradischi della canonica).

«Questa, signori, è una fontana famosa...»

Partenope, finalmente. E Virgilio, Boccaccio

Leopardi, Vico, Genovesi, Filangieri...

Da lontano lo specchio delle onde

rimanda l'incanto di un cammino a ritroso.

Per via Caracciolo, De Sica come Apollo

conduce il carro del sole. È questo dunque il sogno

per un ragazzo cresciuto tra le rocce e i ghiacci

o lo sono l'acqua, il cielo, il fuoco nascosto

del Vesuvio? O una “nuova città” di duemilasettecento

anni, nata da un ellenico miraggio?

Napoli, vederti infine e non morire

perdonare le tue pecche, come un innamorato

perdona. Terra, acqua, fuoco e l'ora che corre.

Strade di diaspro cristallino conducono

alle isole Pitecuse, cerchi palpitanti si perdono

oltre Santa Lucia. Da San Martino un'onda

di fresca luce scende sulle tracce del giorno.

Quarant'anni, vento leggero. «Ariette e sunette»

basteranno mai a far tornare il tempo?

 

Ora, di fronte a tutto questo, io mi chiedo perché la città sia stata lasciata al pazzesco degrado che abbiamo negli occhi. So che è facile accusare, ma in questo caso è impossibile farne a meno. E io accuso. Chi ha lasciato sprofondare Napoli nell'abisso in cui è sprofondata? Come si è potuto permettere di deturpare una perla sospesa tra il cielo, la terra e il mare con il suo carico di storia, di arte e di umanità? Cosa direbbero se tornassero in vita i grandi che l'hanno amata, cantata e abbellita? Cosa direbbe Virgilio? Cosa direbbe Boccaccio? Cosa direbbe Leopardi? Cosa direbbe Salvatore Di Giacomo?

 

Gino Songini

(da 'l Gazetin, giugno 2008)


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