Le donne, tutte le donne, sanno che la guerra non può essere resa meno cattiva. Tutte le donne sanno di essere in guerra per il dominio violento sulle loro vite. Non sempre la chiamano guerra, ma ne sentono la minaccia e la presenza, come del resto lo sanno quelle stesse donne che in cambio di una loro posizione privilegiata se ne rendono complici.
Anche gli uomini lo sanno. Ciononostante le guerre vengono fatte perché gli uomini le vogliono. Anche quelle non mai dichiarate, come quella che sono delegati a combattere a salvaguardia dell'ordine precostituito.
Alla risoluzione dell'ONU del 19 Giugno non si è giunti per slancio, ma per un'azione mondiale di donne che sanno e dicono.
Il mondo ha un debito incalcolabile verso le donne ed a loro, protagoniste o no che siano dei singoli episodi, nulla è regalato.
La decisione unanime del Consiglio di Sicurezza condanna lo stupro e lo definisce come una tattica di guerra e una minaccia alla sicurezza internazionale. La Corte penale internazionale de L'Aja (Cpi), chiede «a tutte le parti coinvolte nei conflitti armati la cessazione completa e immediata della violenza sessuale contro i civili, con effetto immediato».
L'osservazione, fin troppo facile, su come le risoluzioni prese dall'ONU, anche quando individuano supervisori e monitoraggi, come non in questo caso, siano disattese e di valore limitato nelle vite dei governi, non deve far ripiegare su una vanificazione che renda inutile ed ininfluente il lavoro e la “donazione di competenze” che hanno portato ad una se pur limitata presa d'atto a livello internazionale.
La formulazione del Consiglio di sicurezza dice chiaramente che lo stupro è atto di guerra, e non dice “solo” nella guerra, e questo rispecchia la realtà del vissuto di quotidiano che ha condotto un genere intero a vivere in difesa, a vivere moderate dalla minaccia fattasi ambientale per la connivenza e la determinazione “dell'agire condiviso”.
Ci domandiamo quindi se le donne che hanno resa stringente la pressione che ha portato alla Risoluzione 1820, siano disposte ad ostacolare le solite interruzioni politiche, che si rivelano poi provvidenziali ad armare crociate per altri fini.
Lo abbiamo detto, c'è una guerra contro le donne dove il cui teatro è ovunque.
I nostri commentatori si sono concentrati sulla parola guerra per quello che ne conoscono, ed hanno prevedibilmente sottolineato che lo stupro in guerra mortifica anche gli uomini, che l'offesa arrecata ad una donna è grave perché è un atto simbolico contro i popoli. Peccato che ci sia la carne di mezzo.
Noi siamo la carne e la guerra la combattiamo anche dopo i trattati di pace.
Ci sono altre risoluzioni che prevedono la vincolante partecipazione delle donne nelle risoluzioni delle controversie internazionali, che dicono che i diritti delle donne sono diritti umani: grandi pronunciamenti e piccoli risultati che rendono esplicite le contraddizioni strutturali che, se affrontate e contrastate dai governi, renderebbero l'Onu un semplice retaggio della passata barbarie.
Non possiamo perciò oggi che interrogare, accontentandoci in modo strategico, i nostri Governi qui ed ora sull'identità e sul perseguimento di chi ha usato la fame, sotto copertura delle o.n.g., per violentare le donne e i loro figli, di chi prostituisce sistematicamente al seguito degli eserciti e le forze di pace armate.
Non possiamo che interrogare l'ONU stessa per lo stesso motivo sui suoi Caschi Blu, e poi sulle protezioni che non vorremmo mai fossero ghetti per le potenziali vittime.
Per la nostra guerra quotidiana, quella del femminicidio in tempi di pace, sappiamo che più che mai è affare della Nazione delle donne, che non è la sedicesima del consiglio dei quindici.
UDI Unione donne in Italia
Roma, 24/06/2008