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Daniele Rocchetti: In memoria di Paolo Giuntella. 
Uomo appassionato, cattolico gaudente
Paolo Giuntella
Paolo Giuntella 
02 Luglio 2008
 

Auguri di risus paschalis, vino rosso di Emmaus, e intenso sguardi d’affetto nella cantina dei giusti. Un abbraccio, Paolo Sono gli auguri che Paolo Giuntella mi ha mandato, via sms, per l’ultima Pasqua. Ci eravamo incontrati, la prima volta, quasi vent’anni fa, a Roma, e da allora non ci siamo più persi di vista. Ero sceso ad intervistarlo per conto di Evangelizzare. In quel periodo, il martedì sera, alle 20:30, il primo canale della Rai proponeva al grande pubblico un settimanale alquanto anomalo: TG1 Sette. L’anomalia stava nel coraggio di portare in prima serata temi e argomenti di attualità che interrogavano spesso la coscienza di ciascuno: dal Salvador ai bambini d’Irlanda, dai manicomi al dramma dei minori. Curatore e responsabile del programma era, appunto, Paolo. In redazione mi fu chiesto di intervistarlo. Ricordo il suo arrivo sotto casa, con Laura, sua moglie, in Vespa; la lunga chiacchierata, il vociare festoso dei tre bambini che circolavano rumorosamente per le stanze, la sua passione nel raccontarmi i “santi minori”, quelli che bisognava assolutamente far conoscere ai catechisti. Insisteva nel dirmi che bisognava educare ad una storia della Chiesa fatta di biografie. Di uomini e donne che, sull’esempio dell’incarnazione di Gesù, hanno pagato di persona. Occorre dare ai ragazzi, mi ripeteva, un grande senso di appartenenza: noi apparteniamo a un popolo che ha con sé una storia e dei grandi testimoni. Tra questi, quelli che lui amava: san Martino di Tours, san Massimiliano, i primi obiettori di coscienza, Francesco d’Assisi, fino ad arrivare a Dorothy Day, Franz Jagerstatter, Hans e Sophie Scholl, Martin Luther King, Thomas Merton, mons. Romero.. «Noi siamo un popolo in cammino. Di uomini e donne in carne e ossa. Pieno di traditori e ubriaconi ma anche con questi grandi testimoni che sono nel cuore dell’avventura cristiana. Dobbiamo far crescere l’orgoglio che nasce da questo senso di parentela di uomini capaci di cercare il loro Dio dentro le pieghe della storia».

Così era Paolo Giuntella, “accoccolatosi” presso Dio – come amava dire - il 22 maggio scorso: un uomo libero, un credente appassionato, un testimone gioioso dell’Evangelo. Un amico delle ACLI di Bergamo alle quali dispensava spesso consigli, suggerimenti e contatti. Anni fa, per il nostro libretto della Quaresima rilesse il periodo liturgico attraverso una straordinaria carrellata di spiritual e di gospel afroamericani di cui era appassionato ed esperto. Un uomo radicato dentro una storia antica, un albero ben piantato sul fiume eppure sempre in ricerca, con la passione per la pace che ha il nome della giustizia, un nomade che attraversava terre e confini. «Etnie, colori della pelle, tradizioni popolari, lingue, letterature, pittura, scultura, musiche, sono tutte in movimento, se si fermassero, o se temessero il meticciato, morirebbero. Il futuro dell'uomo sarà meticcio o non sarà, l'unità del genere umano è meticcia, il regno di Dio verrà quando, dai diversi colori, ne verrà uno che tutti li raccoglierà, come dice una canzone degli U2». Senza paure o risentimenti, senza ansie di accerchiamento, voglie di rivincita. Ha scritto nel suo ultimo, bellissimo, libro: «Noi siamo convinti di possedere la verità, mentre è il contrario. È la verità che ci possiede, e dunque ci rende liberi. La verità non è un randello, appunto perché non è nostra, non è un nostro possesso da imporre o custodire gelosamente. La verità ci possiede: dunque dobbiamo ascoltare più che urlarla in faccia agli altri. Dobbiamo servirla con i nostri comportamenti miti, umili. Per condividere la verità dobbiamo sottrarci al suo abuso, alla sua parodia identitaria».

 

Forti di spirito, teneri di cuore

Disordinato come pochi (quante volte gli articoli arrivavano in redazione oltre il limite della scadenza!), Paolo custodiva alcune gioiose ossessioni. Certo quella della musica, «perché a credere sono rimasti solo i musicisti»: il jazz, il soul (era presidente dell’associazione Meno lagne e più soul), il gospel; le buone letture (ogni volta che ci incontravamo mi indicava una serie di titoli «assolutamente da leggere!»). Ma anche la convinzione che la fede – quella autentica – «deve incrociare la storia, anzi, si feconda con la storia. aveva mai dimenticato la lezione di Mounier: l’avvenimento sarà il tuo maestro interiore. I fatti della quotidianità e le persone in carne e ossa, perché «i pensatori si accorgeranno della fine del mondo un quarto d’ora dopo». Era orgoglioso di essere cresciuto alla scuola dei grandi francesi che consideravano la moderazione una bestemmia. Mounier arrivava, contro il grigiore e il prudenzialismo esasperato di tanti cristiani senza anima, accomodanti, borghesi, meschini, piccolo-borghesi, ad esaltare l'«estremismo» come condizione costitutiva del cristiano. Anche se non lo diceva certo né in senso integrista né in senso fondamentalista, nella traccia, semmai del radicalismo evangelico. Paolo non ha mai rinunciato a queste «radici». Ma credeva, tuttavia, nell'abito virtuoso della mitezza. E nella «moderazione» (non come moderatismo, cioè come categoria politica, attenzione, ci mancherebbe altro!) come abito laicale, come atteggiamento interiore. Abito virtuoso biblico la mitezza: sinonimo di non violenza, dunque di forza, non di debolezza o di bonarietà, peggio di dabbenaggine: anche quest'ultima – ripeteva spesso – si nasconde talvolta nelle nostre sacrestie e nel nostri chiostri con conseguenze inenarrabile e gravi perdite per la credibilità della Chiesa. Abito mentale e soprattutto strumento della mitezza e della carità, la vera, non contraffatta, non contrabbandata sotto falsa specie politica, la moderazione. Cioè la capacità di ascolto, di comprensione delle ragioni degli altri, della complessità della condizione umana, capacità di tolleranza, di tenerezza, di dialogo, non per annacquare la propria porzione di verità o la propria esperienza di fede, ma per condividere, compartir. Insomma, come i giovani della Rosa Bianca che riprendevano Maritain, Paolo era convinto che bisognasse essere intransigenti nei principi ma teneri di cuore, capaci cioè di unire insieme la virtù della radicalità e quella della tenerezza. Per questo – diceva spesso – «occorre fare una pausa, tornare a meditare sulle fondamenta. È capitato a me nella metà degli anni ’70, e ricapita spesso quando uno ha bisogno di tirare il fiato, ha la nausea dell’immersione nella sola terra. Non per abbandonare. Al contrario: per ritrovare l’Assoluto, dunque le motivazioni più vere e profonde dell’impegno. Contemplazione e azione, preghiera e azione». Era il suo leit motiv: amare la Parola e le parole, la Bibbia e il giornale, il Concilio e la Costituzione. Glielo avevano insegnato i suoi maestri: suo padre, Vittorio Emanuele, scampato ai lager nazisti, ma anche Pietro Scoppola, Roberto Ruffilli, Vittorio Bachelet. L’ha trasmesso ai molti che ha incontrato su e giù per l’Italia. Raccontando il sogno, mai sopito, di un credente che voleva stare laicamente nel mondo e univa a un fortissimo senso delle istituzioni un altrettanto forte senso della giustizia sociale, dell'eguaglianza, dei diritti degli ultimi, degli oppressi e dei dimenticati. Convinto che il cristiano non può stare a metà. Perché, come diceva un slogan cileno “Non esiste il centro tra giustizia e ingiustizia.

 

Una fede che danza con la vita

Da ultimo, Paolo credeva fermamente che la fede è passione per la vita. È bellezza, è godimento. È festa. Anche quando fa i conti con il limite. Che lui non ha voluto negare. «Il mio barometro personale dovrebbe essere moderatamente sul brutto», ha scritto nelle “note di congedo” dell’ultimo libro. «Il ‘lieve’ problema di salute che mi ha colpito, mi appare un passaporto per entrare nel mondo della grande maggioranza dell’umanità che non gode di privilegi materiali e lotta e soffre per la vita, se non addirittura per la pura sopravvivenza». In un testo che mi ha mandato, ha aggiunto queste note: «La croce è la ragione della nostra speranza. Perché la croce, fiorirà. Da giovane ho sempre sognato nella mia fantasia questa “fioritura della Croce”, quando anche le pietre delle strade e lo sterco fioriranno e sarà il Regno, sarà la pienezza dei tempi. Quel giorno sarà la grande rivincita di tutti i crocefissi con Gesù sulla croce nel corso dei secoli ed oggi nei nostri giorni. Questo enorme corteo di persone inchiodate sulla Croce di fronte ai nostri occhi che non vogliono vedere. Bambini morti di Aids, di fame, per mancanza di medicine. Prostitute ridotte in schiavitù sulle nostre strade. I cadaveri ammassati lungo il ciglio delle strade del mondo, dispersi nell’aria dalle bombe del mondo, conficcati nelle viscere della terra, i cadaveri di tutte le guerre africane, dalla Sierra Leone al Congo, dalla Liberia alla Costa d¹Avorio, dal Sudan ai cantieri di morte appena chiusi, formalmente, da paci parziali. E sulle strade dell’Iraq, dell’Afghanistan, sulle piazze e le strade dove camminò l’ebreo palestinese Gesù. Gli innocenti violati dalla violenza, la malvagità senza scrupoli dei tanti erode nostri contemporanei. I milioni di poveri dei paesi ricchi e opulenti, i milioni di famiglie che vivono tirando la cinghia fino a non farcela più, i licenziati a 40 o 50 anni, i condannati alla servitù del lavoro a tempo determinato. Gli innocenti, ostie viventi tra di noi, vinti dalla malattia, dall’handicap, dalla depressione. Questo immenso popolo di crocefissi è il nostro “presepe” di Pasqua. Il corteo che attende la sua liberazione, la sua consolazione. Il corteo con il quale anche noi “sani” o “vivi” a tempo determinato, ci mischiamo per attingere alla fonte della speranza. La croce che un giorno fiorirà è il nostro pozzo di Giacobbe, la fonte del realismo della vita e dell’utopia dell’Eterno. La roccia che ci permettere di suonare e cantare, di danzare e persino ridere, ai piedi della Croce. La fioritura che ci trasforma la faccia di musoni tristi e moralisti, nel volto solare dei salvati».

 

Seduto al pergolato del Santo benedetto di Israele

Ha ben scritto l’Azione Cattolica nazionale nel comunicato di saluto: «Ce lo ricordiamo ironico, un cattolico “gaudente”, sempre pronto però alla riflessione seria. Amante della musica, sapeva a memoria tutti i nomi dei grandi dello spiritual americano, delle buone letture, uomo dotato di una vastissima cultura, negli ultimi tempi aveva cominciato a raccontare gli ultimi, i vagabondi, i “folli” di Dio, tutti quei dispersi incontrati per caso in un pub, per strada, durante i suoi tanti viaggi. I suoi ultimi libri sono esperienza letteraria ma anche vita vissuta. Ha sempre sognato una Chiesa bella e profetica. Adesso che ha raggiunto suo padre, sua madre e le sue sorelle, e tutti i suoi amici e maestri che hanno dato il loro impegno per il Concilio Vaticano II, lo immaginiamo che starà danzando con loro. E bevendo una bella birra all'Osteria del Vecchio Isaia. Ci mancherai». Mancherà anche a noi.

 

Daniele Rocchetti


 
 
 
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