Giorgio Antonucci
Diario dal manicomio
Ricordi e pensieri
Spirali Edizioni, 2006, pagg. 443, € 30,00
Giorgio Antonucci (foto) ha dedicato tutta la sua vita allo smantellamento dei reparti manicomiali: a Cividale del Friuli (1968), a Gorizia (1969), a Reggio Emilia (1970-72) e dal 1973 a Imola, dove ha lavorato come primario di alcuni reparti autogestiti.
La sua ultima pubblicazione, Diario dal manicomio, narra la realtà psichiatrica, a diretto contatto di coloro che sono stati definiti ammalati mentali. Un argomento che interessa pochi, soprattutto quando il punto di vista mette in discussione le nostre convinzioni radicate perché, afferma Giuseppe Gozzini, se lo psichiatra è l’esecutore noi, cosiddetti normali, siamo i mandanti.
Il coinvolgimento di Giorgio Antonucci è stato totale, sempre in ascolto dei problemi reali di coloro le cui necessità erano rimaste inascoltate. «Viene il momento in cui nessuno ti prende più sul serio come essere pensante e questo appare come un cambiamento senza ritorno».
Le annotazioni di Diario dal manicomio sono frammentarie. «L’ho composto così volutamente, perché ho pensato di lasciare l’immediatezza e la freschezza degli appunti su un taccuino». Sono i pensieri di chi ha approfondito e sviscerato il mondo della psichiatria, fino all’immedesimazione nell’utente stesso. «Le diagnosi psichiatriche tolgono in modo difficilmente rimediabile il diritto di partecipare alla pari alla vita degli altri, e sono sufficienti per escludere le persone dalla comunità sociale, anche senza bisogno del sequestro e dell’isolamento. Con molta probabilità è per questo motivo che negli ultimi anni alcuni psichiatri hanno pensato che nella vita civile si potrebbe fare a meno dei manicomi avendo a disposizione altre forme efficaci di controllo, o di squalificazione, delle persone che sono giudicate di troppo o socialmente fastidiose».
Antonucci descrive come ha liberato le persone classificate inferiori e perciò recluse e contenute con vari mezzi: dalla reclusione nei reparti chiusi a chiave, dai lacci per legare la persona al letto e da vari altri strumenti di contenzione, tra i quali gli psicofarmaci.
Così ne parla in un’intervista: «Le persone che ho trovato lì oltre a essere legate nel letto e chiuse in una stanza, erano anche sottoposte a quattro o cinque tipi di psicofarmaci, neurolettici, ansiolitici o tutti e due insieme, o anche antiepilettici quando non c’era neanche l’epilessia e così via.
«Ho dovuto progressivamente togliere queste medicine, tenendo conto del fatto che con una persona che è intossicata, bisogna procedere stando attenti agli effetti dell’assuefazione, come quando uno deve smettere una droga. Gli effetti dell’assuefazione sono fisici, nel senso che l’organismo era abituato a prendere certe sostanze tossiche e anche psicologici, perché se si toglie la pastiglia per dormire a una persona abituata a prenderla, pensa che non possa dormire se non con la pastiglia. Così ho cominciato a togliere progressivamente i farmaci, discutendone con le persone stesse e cercando di capire quello che succedeva insieme a loro. Questo mi ha richiesto anche tempi lunghi, perché c’erano per esempio delle persone che volevano continuare ad assumerli, perché erano abituate e se non li pigliavano veniva loro l’angoscia. Il mio scopo era, oltre a quello di liberare queste persone da tutti i vincoli fisici e di restituire loro la comunicazione con gli altri, quello di togliere gli psicofarmaci.
«Intanto discuto con la persona cosa sono gli psicofarmaci, di modo che sia convinta di quello che fa. Se la persona è convinta, si possono togliere in una settimana e non si fa altro che guadagnarci. Se non è convinta si impiega più tempo, ma vanno tolti, se la persona è d’accordo. Io non faccio mai niente senza che la persona è d’accordo. Questa è la base, se no sarebbe il rovescio della psichiatria. La psichiatria ha il trattamento sanitario obbligatorio, dunque pensa di dover intervenire anche con la forza. Io intervengo solo se la persona è d’accordo».
Il tentativo di liberare queste persone è pienamente riuscito, ma purtroppo il suo lavoro, anziché essere preso come esempio, è stato per lo più osteggiato e ignorato da gran parte dell’istituzione psichiatrica. «A Imola», ricorda Gozzini, «i reparti aperti di Antonucci sono come giardini in un lager, sono la pietra dello scandalo».
Quelli che erroneamente vengono considerati i sintomi di una malattia mentale, sono invece il risultato di «diverse forme di compromissione della personalità e dell’intero organismo attraverso il danneggiamento delle attività fisiologiche e l’alterazione degli organi e delle regolari funzioni del sistema nervoso centrale e periferico».
Thomas Szasz definisce il suo linguaggio e quello di Giorgio Antonucci «il linguaggio di rispetto per un gruppo di persone che oggi, in tutto il mondo, vengono trattate in tutti i modi fuorché con rispetto. Mi riferisco naturalmente», continua Szasz, «alle persone chiamate o classificate come pazienti psichiatrici, che possono essere brutalmente torturate o assurdamente coccolate, private dei più elementari bisogni e diritti umani o fornite gratuitamente di più beni, servizi e scuse di quanti non ne vengano concessi alle persone ordinarie. Ma qualsiasi cosa i pazienti psichiatrici possano ottenere, c’è qualcosa che non avranno mai: il rispetto d’essere considerati semplicemente come esseri umani. Niente di meno e niente di più».
«Coloro che sono costretti ad avere relazioni con gli psichiatri sono persone infelici», si legge nel Diario, «ridotte dai trattamenti a condurre una vita di secondo ordine, sia per l’indebolimento dell’organismo sia per la condizione di inferiorità sociale imposta dalle classificazioni». Le diagnosi psichiatriche stesse contribuiscono a indebolire le persone. Parlando di una ragazza che era stata internata in età giovanissima con la diagnosi di schizofrenia, riferisce come «questa diagnosi aveva impedito che si affrontassero i suoi problemi reali». «Impaurita dalla complessità e ricchezza psicologica, la maggioranza degli uomini si sottomette volentieri a semplificazioni false e artificiali per condurre una vita apparentemente più sicura».
Ancora oggi, come allora, si crede che le istituzioni psichiatriche siano state abolite e che non vi siano più utenti rinchiusi a chiave. Dacia Maraini, che conosceva Giorgio Antonucci e il suo lavoro, a testimonianza che i reparti diretti da lui erano gli unici aperti, mentre tutti gli altri erano chiusi a chiave, pubblicò due articoli apparsi sulla Stampa. Eppure, i medici suoi colleghi continuarono a ignorare, se non a osteggiare le sue innovazioni. «Non si affrontavano mai i problemi dei ricoverati e si facevano pettegolezzi. Infatti la filosofia psichiatrica considera i propri assistiti e reclusi come persone perdute di cui non vale la pena occuparsi».
Erveda Sansi
(da 'l Gazetin, giugno 2008)