Cosa spinge gli elefanti ad andare a morire lontano dal branco?
Mi hanno dato due mesi di vita, e pur non essendo un elefante vado a morire come essi lontano da casa, in una casupola in riva al mare ricevuta in eredità da mio nonno pescatore.
Qui sto bene e giorno per giorno dico addio al mondo, ogni giorno lascio che un pezzetto di cuore sprofondi insieme al sole la sera, m’impoverisco degli affetti per farmi trovare pronto, quando il momento verrà, a valicare l’estremo limite.
Cammino molto, intanto che ce la faccio. Camminare aiuta a pensare e il mio pensiero sarà l’ultima cosa che finirà di me, questo almeno è ciò che mi prefiggo.
Arrivo come al solito fin dove un grosso canale di scolo che si getta in mare mi obbliga a ritornarmi, ma oggi voglio proseguire. Prendo a sinistra, lasciandomi il mare alle spalle, lungo un ampio sentiero ingombro di canne marcite e di rifiuti di ogni genere.
In questo canale – ricordava mio nonno – un tempo si veniva a pescare, tanto era limpida l’acqua, ed ora vi scorrono acque nere, dense e pestifere. Al di là del canale un grosso quartiere residenziale, con le case bianche che si aprono a ventaglio per godere della vista del mare, sconfina con una serie di casette basse col tetto spiovente e gli infissi sconnessi, che sembrano abbandonate. Anche da questa parte vi sono diverse casette di pescatori, con le barchette in secca e le reti aggrovigliate appese alle staccionate.
Passa un elicottero dei carabinieri e vira proprio sopra la mia testa. Un tempo questa era una zona tranquilla ed ora è diventata un ricettacolo di ogni specie di traffico, a detta della cronaca locale. Una montagnola di terra con qualche ciuffo di verde è cosparsa di bottiglie vuote di liquore e di birra e resti di fuochi, tracce di stravizi notturni.
Andando avanti il terreno si fa molliccio e nella fanghiglia spiccano le orme dei gabbiani, che come centinaia di freccette si dirigono e ammassano laddove si danno raduno. I loro versi striduli e acuti mi danno i brividi, così come il loro banchettare vorace. Laggiù c’è un ponte che attraversa il canale sul quale scorre un traffico moderato e continuo di veicoli e di persone, a piedi o in bicicletta.
Più mi avvicino al ponte e più il terreno diventa desolato e sporco. Dalla sabbia scura affiorano lembi di buste di plastica, stracci e cicche, scarpe scompagnate, cocci di stoviglie. Accanto ad una rimessa verde, col tettino rosso e una fontanella di cemento sotto la finestrella, oltre una sbarra di ferro da cui penzola sbilenca una rete di plastica s’intravede un orticello trascurato e spoglio, alberelli secchi e resti di canne infisse al suolo, che avranno sostenuto le verdure rampicanti della passata stagione.
Un cane abbaia rabbioso, un uomo si affaccia sulla porta della rimessa e mi fissa torvo, senza nemmeno l’accenno di un saluto.
Continuo a camminare verso il ponte, ora su un suolo arido e sassoso, delimitato dal verde del trifoglio.
“Hop, hop”, un uomo in corsa mi sorpassa quasi sfiorandomi, sento il suo respiro affrettato e quel incitamento ripetuto per darsi il tempo; l’uomo è in tenuta sportiva, ma non mi sembra abbia il fisico dell’atleta. Un podista della domenica. Si volta e mi getta addosso un’occhiata malevola, come a farmi capire che non è questo un luogo per passeggiare, e che gli sono d’intralcio.
Mi attira il ponte. Se c’è una uscita la vorrei raggiungere, superare il ponte e andare a curiosare nella zona delle villette e in quel tratto di spiaggia che non ho mai esplorato.
Una fila di formiche sta trafficando da una parte all’altra del viottolo e lungo quella linea hanno scavato decine di nidi da cui entrano ed escono, frettolose.
Residui di materassi bruciati, panni sfilacciati, giornali porno accartocciati e altre brutture, portano a pensare che il posto sia frequentato da chi compra e da chi vende sesso.
Il trifoglio qui cresce rigoglioso, tranne che su due strisce di terra brulla tracciate dal passaggio continuo di macchine.
Sono ormai arrivata in prossimità del ponte e sto cercando di capire se c’è un modo di arrivare sulla strada, quando un’auto arriva di volata fin sotto il ponte e con una manovra rabbiosa svolta e si ferma di lato col muso attaccato al pilastro, mostrandomi la parte del guidatore.
L’ombra del ponte e la distanza m’impediscono di vedere chiaramente all’interno dell’auto, ma mi sembra che ci siano due persone davanti che si volgono parlando concitate con qualcuno che si trova sui sedili posteriori, e d’un tratto l’uomo alla guida muove con violenza il braccio all’indietro, nell’atto di colpire il passeggero invisibile.
L’elicottero compie un nuovo giro di perlustrazione, stavolta spostato più avanti.
Da un punto in secca del canale sale un forte odore di ferro e petrolio, stagnanti e iridate le acque in prossimità del canneto, e appena increspato da una leggera brezza il fiumiciattolo prosegue per gettarsi in mare. Strani suoni provengono dal canneto, gracchianti e metallici.
All’interno dell’auto s’intuisce grande movimento, che si ripercuote sul veicolo facendolo oscillare. Il transito sul ponte appare rallentato, passano alcune persone in bicicletta e due ragazzi allacciati per la vita si scambiano tenere effusioni.
Ecco da dove è giunta la macchina. Un viottolo angusto e scosceso porta dalla strada fin qua sotto. Le macchine da qui possono arrivare al mare, da qui arrivano i pescatori che si vedono sempre numerosi nel tratto di spiaggia dove sbocca il canale. Un breve e scomodo passaggio che non conduce in nessun’altra direzione.
Sotto il ponte fanghiglia secca e impronte di copertoni e oltre cresce l’erba a perdita d’occhio, folta e compatta, grassa, fra cardi e ciuffi di canne. Un luogo paludoso ideale per bestiacce immonde e pericolose.
Mi arrampico lungo la stradicciola disseminata di indumenti attorcigliati agli arbusti, bottiglie e lattine di birra, escrementi di animali e di uomini. Un fetore di urine stantie mi fa accelerare il passo, arrivo col fiatone sul ciglio della strada.
Passa una camionetta della polizia a sirena spenta e andatura moderata. Visto dall’alto il canale appare ancora più orrido, acqua gialliccia densa di scarichi nocivi si muove lenta e sinuosa come un serpentone pigro, fra i canneti che si attaccano all’alta parete di contenimento quasi a volerla superare. Invece di dirigermi verso il quartiere residenziale prospiciente il mare, proseguo seguendo la strada che svolta.
Villaggio Tirreno. Case gialle brutte a vedersi, recintate da uno squallido muro di cemento armato tutto scarabocchiato da scritte e disegni osceni e triti slogan partitici. Panni stesi penzolano dai balconi scuri di muffa dove non batte mai il sole.
E cani che abbaiano.
“Sito Archeologico Castrum Inui. Insediamento portuale con strutture del IV secolo a.C. fino al III d.C. È severamente proibito avvicinarsi al ciglio degli scavi”, informa il cartello affisso su un cancello chiuso col lucchetto. Da quel che si può vedere a questa distanza, i reperti portati alla luce somigliano molto a quelli di Pompei; tipiche strutture romaniche, affreschi e pareti a mosaico e quel rosso pompeiano inimitabile.
Oltre il sito archeologico si estende un grosso appezzamento coltivato a grano, e sulla cima delle collinette sono sparse alcune case coloniche con l’ovile per il gregge, stalle e porcili. Un uomo sta sistemando con pinze e tenaglie un telone tutto colorato, certo un prodotto della plastica riciclata, lungo la recinzione che separa la sua casa dalla strada.
Lo saluto e chiedo notizie sul sito, col quale egli confina, curiosa di sapere quando è stato aperto e se è visitabile.
“Hanno iniziato i lavori cinque o sei anni fa, ogni tanto vengono, fanno qualcosa e di nuovo spariscono… uno di quei lavori senza capo né coda, tanto per arraffare soldi alla Regione…”.
Niente di più probabile. Mucchi enormi di terra sul terreno sconvolto mi fanno ripensare ai formicai di traverso sulla sponda del canale, ma qui non c’è la minima operosità. Almeno di giorno. La recinzione abbattuta in alcuni punti particolarmente ingombri di rifiuti, che denotano recenti passaggi, mi fanno sorgere il dubbio che di notte nelle antiche strutture si svolgano orge satiresche di poveri diavoli, indegne degli eredi dell’Impero Romano.
Il sole sta calando, il vento sta salendo.
Riprendo la via del ritorno inseguito dai nuvoloni neri che vanno ad addensarsi all’orizzonte. Allungo il passo e la respirazione affannosa mi ricorda che solo per altre poche settimane camminerò su questa terra che sempre di più m’incuriosisce e affascina, anche malridotta com’è.
Ho sempre desiderato poter vedere la morte in faccia e presto la vedrò. Con il mio male si resta lucidi fino alla fine, così mi è stato detto, e mi chiedo se quando verrà il momento davvero resterò ad occhi aperti a vedermi andar via, oppure volterò le spalle alla mia fine.
Percorro il ponte e inizio a discendere, quando una macchina che sta salendo a grande velocità per poco non mi spazza via, ruggendo per aggredire la forte pendenza; mi volto per inveire contro il maledetto pirata, ma incontro lo sguardo cattivo del passeggero seduto davanti, che mi fa un gesto inequivocabile di minaccia, passandosi svelto l’indice sotto la gola. Faccio in tempo a vedere che si tratta di una Kalos Chevrolet nera, nuova di zecca, ma non riesco a leggere la targa. La macchina sfreccia via, ma arrivata sul ponte fa una rapida inversione e torna a ridiscendere.
Inizio a correre pensando di chiamare il 113, ma come al solito ho dimenticato di prendere il cellulare. Realizzo che l’auto è la stessa che ho visto prima fermarsi sotto il ponte. Istintivamente mi volto in quella direzione e vedo un corpo raggomitolato a terra.
La macchina mi sta alle spalle e davanti mi trovo all’improvviso l’uomo che prima mi ha superato correndo. Ha una espressione da incubo e io indietreggio e mi trovo stretto fra lui e i due uomini che sono scesi dalla macchina.
Ecco ancora passare l’elicottero e in lontananza si sente l’urlo della sirena della camionetta. Chissà chi cercano con tanto spiegamento di mezzi, sicuramente c’entrerà la droga, è risaputo che sulla costa i traffici si fanno ogni giorno più intensi. O forse si tratta di un giro di prostituzione, e comunque la droga c’entra sempre.
L’elicottero gira e rigira sul ponte pronto a piombare come un grosso calabrone col pungiglione infuocato sulla preda che però non riesce ad individuare, e intanto l’uomo che correva e uno di quelli scesi dalla macchina mi prendono in mezzo e mi spingono sotto il ponte, mentre l’altro risalito in auto fa una rapida retromarcia e va ad accostarsi di fianco al pilastro, dove l’auto scompare fra la vegetazione esuberante e maligna.
Mi prendono per le braccia e per i piedi e come un fagotto mi depositano sul fondo del bagagliaio a pancia all’aria. Forse dovrei urlare, ma capisco che sarebbe inutile. Provo comunque a fare un tentativo, ma un manrovescio di quelli senza pietà mi leva quasi i sentimenti.
“La siringa, presto, presto coglione, che aspetti a levarlo di mezzo?”
Un ago brilla nell’ultima luce del giorno e mi punge quasi con dolcezza alla base del collo. Una nebbiolina sottile cala improvvisa e ogni cosa comincia a svanire.
“Dai, sbrighiamoci, sistemiamo tutto e filiamocela”. Un corpo mi viene gettato addosso levandomi quel poco di fiato che ancora mi rimane, mi rotola al fianco avvolgendomi la faccia coi lunghi capelli odorosi di acqua marcia e due occhi verdi sbarrati restano a fissarmi senza vedermi.
Sento sbattere il cofano che si richiude e passi che si allontanano. Anche l’elicottero si allontana e finisce ogni rumore.
Il corpo morto aderisce al mio come un sudario gelido. Quando ci scopriranno, ci troveranno abbracciati.
Mi sento leggero e fluttuante nel nebbione nero, urlo in silenzio, riesco vagamente a pensare che alla fine il mio desiderio di vedere la morte in faccia è stato ampiamente esaudito, e anche che ho dato scaccomatto alla morte annunciata: non mi troverà ad attenderla sulla porta, quando verrà, me ne vado prima che arrivi.
Anch’io, come gli elefanti, muoio lontano dal branco.
Maria Lanciotti