Candida non aveva ancora quindici anni quando le nacque il figlio. Ci volle il medico per tirarlo fuori con i suoi attrezzi d’acciaio, e viste le sue condizioni venne subito battezzato con il nome del santo della cattedrale.
Clemente porta sulla testa i segni di quella nascita forzata, come solchi lasciati da cingoli su un terreno molle; per quanti sforzi faccia tutte le sue capacità arrivano a quelle di un bambino di sei anni: quei due incavi ai lati della testa gli ottundono il pensiero.
Candida crebbe in fretta dopo la nascita del figlio. Era sola. Il padre di Clemente era un pastorello che durante la transumanza estiva si era spinto fino ai pascoli della montagna e verso l’autunno era ridisceso al piano. Candida saliva in montagna per fare le fascine che vendeva al forno del paese, in cambio della farina con la quale la madre faceva il pane.
La madre era la vedova di Libertario, un giovane col sorriso chiaro e gli occhi scuri e la pipa spenta sempre fra i denti. Libertario era morto per una guerra che non voleva fare, colpito a tradimento da una scheggia, senza aver avuto il tempo di conoscere sua figlia.
Quando Candida si era incontrata col pastorello in montagna, non poteva immaginare che quel gioco bello sul letto frusciante degli aghi di abete le avrebbe portato in dono Clemente. Per tanti anni attese che tornasse l’estate riportandogli il pastorello col suo piccolo gregge, così che potesse fargli conoscere suo figlio, finché l’attesa non finì insieme alla speranza.
Candida portava sempre per mano Clemente, anche dopo che era cresciuto fino ad arrivarle alla spalla. Non c’era voluto molto tempo: il bambino era alto e robusto, e lei minutina e gracile.
Al paese c’era solo una scuola e due maestre, e nessuno si dette la pena di occuparsi dell’istruzione di Clemente, dopo che ai primi tentativi si rivelò ritardato.
“Pazienza”, dissero le due maestre, il parroco e il sindaco, “dopotutto è figlio di padre ignoto, e tutto quello che possiamo fare è raccomandarlo al suo santo protettore”.
Candida continuava a portare per mano suo figlio, che la trascinava nelle sue corse, in tutte le sue esplorazioni e scoperte. Con lui ridivenne bambina.
Poi fu Clemente a condurla per mano; andava col suo passo lungo e discontinuo, lo sguardo in perlustrazione, e non sempre si accorgeva del respiro della madre che si faceva affannoso.
Un giorno Candida si attaccò al braccio del figlio e andarono per le vie del paese come due fidanzati.
“Dove andate di bello?” chiedevano i paesani, e Clemente rispondeva: “Porto a spasso la mia mamma, la più bella del mondo”.
Candida, a furia di trotterellare al fianco del figlio, si ammalò di stanchezza. Avrebbe voluto sedersi e riposarsi ogni tanto, ma Clemente, al colmo delle sue energie, non poteva assecondare il bisogno della madre; se si fermava lo coglieva una specie di febbre, una sete di baci che non sapeva come appagare.
Baciava la madre sulle mani e sulle guance, ma ciò non bastava a placare il suo desiderio.
“Consumi tua madre a forza di baci”, gli dicevano i paesani. E qualcuno stupidamente aggiungeva: “Ti ci vorrebbe una bella figliola, ormai sei un pezzo d’uomo”.
Clemente allora si arrabbiava:
“Questa è la mia ragazza, la più bella del mondo”, e si stringeva più forte alla madre.
Quando Clemente smise di crescere, Candida cominciò a curvarsi.
Era una coppia sbilenca, che camminava tutta sbilenca e sempre più avvinta.
“Dove andate di bello?” chiesero come al solito i paesani un giorno che videro Clemente con la madre appesa al braccio discendere verso l’ospedale.
“Porto la mia ragazza a fare le terapie”, rispose Clemente. “Le fanno male le ossa e con le terapie guarisce”.
Candida ora aveva tutti i capelli bianchi e la pelle del viso trasparente. Anche gli occhi si erano un po’ sbiancati, come fossero impregnati di pioggia.
“Eh, fortunata la madre che t’ha messo al mondo!” dicevano a Clemente le donne anziane, deluse dei figli e intristite dalla solitudine, stranamente invidiose di Candida così circondata d’affetto.
“Fortunato sono io, ad avere la madre più bella del mondo!” rispondeva Clemente col suo linguaggio infantile, povero di parole e ricco di sentimento.
Un giorno, mentre andavano come al solito per le vie del paese, incontrarono una bella ragazza sconosciuta. Clemente si bloccò davanti a quella visione, come avesse visto la Madonna delle Grazie in persona.
La madre gli stava immobile accanto e due lacrime le scesero lungo le guance pallide e lisce.
La ragazza era venuta a passare qualche giorno in quel paesino sperduto fra i monti, ma già si stava annoiando. L’incontro con la strana coppia spezzò la monotonia di quel luogo. La ragazza conosceva la storia di Clemente, che le era stata raccontata dalle comari, e tentò una prova di seduzione al fine di misurare le reazioni di un ritardato davanti alla sua leggiadria.
Clemente restò senza fiato davanti alle sinuose movenze di quella creatura celestiale. Gli caddero le braccia lungo i fianchi e la madre, rimasta senza sostegno, vacillò. Immobili come statue in equilibrio precario, Clemente e Candida guardavano ammaliati la fanciulla, storditi dalla luce del suo sorriso e dal profumo di lavanda che emanava dalla sua pelle di alabastro.
“È vero che siete fidanzati?” chiese la ragazza con una sfida sottile nello sguardo, piacevolmente eccitata dall’evidente potere della sua avvenenza.
Clemente non rispose. Per un attimo l’intelligenza che dalla nascita gli era rimasta schiacciata nella testa si liberò, e gli occhi si spalancarono limpidi a fissare la fanciulla. Per un attimo Clemente visse in tutta lucidità il suo dramma e il dramma di sua madre, la sua condizione di ritardato mentale, e sentì il suo corpo di uomo sano reclamare la sua parte con un trasporto doloroso e immenso.
L’impeto gli dava le vertigini. Cercò la spalla di sua madre e vi poggiò la testa. Candida prese a carezzarlo piano, piano e dolce come quando era piccino, cullandolo appena, e Clemente si sentì confortato.
“Sì, questa è la mia ragazza, la più bella del mondo” rispose Clemente, e chinandosi colse una pratolina, la mise fra i capelli della madre e insieme ripresero a passeggiare per le vie del paese.
Maria Lanciotti