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La prima guerra mondiale nei diari del caporale Louis Barthas
Samaritaine
Samaritaine 
07 Febbraio 2006
 

Castelletti Rocco (vent’anni), Fallati Antonio (ventisei anni), Ferrè Pietro (ventiquattro anni), Gusmeroli Alfredo (ventisei anni), Gusmeroli Aniceto (ventitré anni), Villa Achille (trentadue anni). Questi erano i sei nomi incisi nella lapide collocata bene in vista sulla facciata del palazzo scolastico di Rogolo. Nomi che, negli anni della scuola elementare, gli anni Cinquanta del secolo appena trascorso, mi ritornavano spesso davanti agli occhi. L’ultimo, poi, era scritto in modo tale da costringermi a leggerlo, per molto tempo, come “Uilla Achille”. Solo molto più tardi – quando sono stato in grado di intuire quanto dolore e disperazione fosse nascosto dietro quei nomi – ho capito come andava pronunciato correttamente. Questi sei giovani (oltre ad altri undici, tornati con ferite o mutilati) rappresentavano il tributo di morte che il paesino di Rogolo, con i suoi 450 abitanti, aveva dovuto versare nell’assurdo massacro della prima guerra mondiale. La curiosità mi spingeva qualche volta a chiedere chi erano questi caduti (chi muore in guerra, infatti, non muore ma cade; bellissimo esempio di eufemismo a scopo consolatorio). Ma ottenevo sempre risposte distratte. Era passato tanto tempo. Ormai erano soltanto nomi su un pezzo di marmo. Con le mie insistenze, da ragazzino curioso, ottenevo tutt’al più qualche racconto da mio nonno Marco, classe 1897, che con la sua leggera balbuzie, partiva con un incipit leggendario (“Dul quindes…” = nel 1915) e mi narrava sempre gli stessi episodi della sua esperienza. Lui era stato a Fossano, in Piemonte, per un veloce addestramento e poi via al fronte in un reparto di artiglieria da campagna. Più fortunato di tanti suoi coetanei che finivano nel tritacarne della fanteria. Ricordo che raccontava sempre di un episodio che aveva vissuto in prima linea. Si sentivano le grida strazianti dei feriti che invocavano aiuto. Nessuno osava uscire dalla trincea perché la mitraglia spazzava il terreno con il suo carico di morte. Ma ricordava con ammirazione un suo collega, “en rumanu” (uno di Roma), che, mettendo a repentaglio la propria vita, era uscito allo scoperto per prestar soccorso ai poveretti che soffrivano come bestie ferite. E naturalmente, aggiungeva mio nonno, nessuno si sognò poi di dargli una medaglia, quelle le davano ai signori ufficiali per molto, ma molto meno. Anche per afferrare la carica di ribellione racchiusa in quest’ultima affermazione ho dovuto aspettare molti anni. Ma poi…

* * *

Se la memoria non mi inganna, credo che tutto abbia avuto inizio a causa di un libro. Ma andiamo per gradi. Settembre del 1974. Sono ormai sei mesi che indosso la divisa. Mi hanno destinato, come soldato semplice, al Reparto impiego operativo dello Stato maggiore dell’esercito. Alloggio a Roma, nella storica caserma Macao. Ho tanto tempo libero da colmare, percorro l’Urbe in lungo e in largo. E in una tiepida giornata autunnale, mentre risalgo via del Tritone verso piazza Barberini, mi lascio tentare – pur essendo squattrinato – dalla vetrina di una piccola libreria. Entro, mi aggiro tra gli scaffali e i banconi rigurgitanti di libri. Chiedo se esista una sezione dedicata alla storia. Avrei voglia di leggere qualcosa legato ai principali avvenimenti del XX secolo. La commessa mi lancia un suggerimento: provi a leggere questo libricino, non se ne pentirà. Si tratta di Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu, un volume pubblicato nella collana degli Oscar Mondadori. Lo divoro in poche ore. Mi affascina, mi turba, mi emoziona. Lo presto subito agli amici e, come succede alla maggior parte dei libri prestati, non torna più indietro. Ma questo racconto-verità ha riacceso in me la passione per lo studio della prima guerra mondiale. Da questo momento inizia – e non cesserà più – la ricerca, la scoperta e la lettura di opere di diari di testimonianze su quel cupo massacro avvenuto tra il 1914 e 1918. Fino ad allora la prima guerra mondiale, la grande guerra, la conoscevo soprattutto per quanto ne avevo sentito a scuola. E poi come dimenticare, nel corso degli anni Cinquanta, durante le scuole elementari, la festa del 4 novembre? Allora era una cerimonia assai sentita. La mia maestra delle prime tre classi elementari, Irma, ci parlava spesso di questa guerra, dipingendola con i colori del mito E noi bambini – siamo negli anni Cinquanta – eravamo coinvolti dal suo racconto. E imparavamo seri seri poesie e canzoni patriottiche, da svelare con solennità il 4 novembre, davanti alla piccola lapide per i caduti. Oltre all’immancabile Canzone del Piave, mi restano ancora impresse nella memoria alcune strofe di una poesia triste e crudele (non ricordo l’autore, forse il buon Renzo Pezzani?): «era un fante contadino, non pensava alla medaglia … diciott’anni, andò alla guerra, e sua madre l’aspettò, or non ha più gente in terra che gli dica un paternostro, e il suo nome scritto a inchiostro sotto il sol si cancellò». E poi, come dimenticare almeno alcune delle strofe di una canzone che grondava sangue e morte, e che noi cantavamo a squarciagola ogni anno sempre al 4 di novembre: «Soldato ignoto, e tu: perduto fra i meandri del destino! / mucchio senza piastrino, eroe senza medaglia, / il nome tuo non esisteva più. / Finita la battaglia, fu chiesto inutilmente: / nessun per te poteva dir: presente!» Ci pensava poi mio nonno Marco, classe 1897, che la guerra l’aveva fatta nell’artiglieria da campagna - schivando per un capriccio del destino i massacri della fanteria - a ridimensionare il tutto – senza lezioni ideologiche – ma raccontandomi semplicemente, calmo e deciso, l’assurda quotidianità di quel massacro.

* * *

Fortunati quei ragazzi che hanno dei bravi insegnanti, maestri che lasciano dei segni profondi per sempre nell’animo di chi si affaccia alla vita e al mondo della conoscenza. Chi scrive ha avuto la buona ventura di incontrare due maestre d’eccezione – Irma e Giuseppina – che gli hanno inoculato un virus che né il tempo né le distrazioni sono più riusciti a debellare: la passione per la storia. Parte proprio da lì, dalle scuole elementari, questa “passion predominante”. Studio, letture, ricerche, viaggi, incontri … e la “storia” sempre lì, prepotente sullo sfondo. Anche la vacanza, perfino quello che potrebbe essere il momento “geografico” per eccellenza, diventa prima di tutto, in modo sempre più consapevole, un viaggio nella storia. Ecco perché uno si accorge di preferire, anche in pieno agosto, Firenze o Roma o Parigi alle spiagge assolate e alle gradevoli passeggiate in montagna. La passione non ammette eccezioni. Tra i periodi della storia, poi, alcuni emergono con particolare insistenza. Lentamente ci si accorge che abbiamo dentro di noi delle epoche che ci attirano in modo particolare, che vogliamo scandagliare a fondo, a preferenza di altre. Una di queste è proprio la prima guerra mondiale. Su questo segmento nero nella storia umana, un assurdo massacro che ha sconvolto il mondo tra il 1914 e il 1918, ho divorato volumi su volumi, ho immagazzinato centinaia di testimonianze. Alla fine, però, ogni volta, mi restava conficcato nella mente, senza darmi pace, un desiderio insopprimibile di voler capire e condividere più a fondo i destini dolorosi di migliaia di uomini coinvolti in quella guerra. Al di là dei grandi numeri – 600 mila morti, oltre un milione di feriti e mutilati solo per l’Italia – avrei voluto riportare alla luce, dopo tanti anni, le migliaia di sofferenze individuali. Ma, soprattutto, a piccoli cerchi concentrici, come quelli scatenati da un sasso gettato in uno stagno, avrei voluto conoscere cosa succedeva nella singola famiglia subito dopo che l’autorità locale – di regola il sindaco – vi aveva gettato l’annuncio della morte di un proprio caro sul campo di battaglia. Volevo capire se cambiava, e come cambiava, la vita all’interno del nucleo familiare. Cosa succedeva alla madre, al padre, ai fratelli, alle sorelle, alla fidanzata, alla moglie e anche agli amici di un caduto in guerra. Non sono mai riuscito a pensare che queste fossero domande inutili o banali, oppure che il dolore collettivo riuscisse, in qualche modo, ad annullare lo strazio personale. Certo, alla fine della guerra, con l’inaugurazione di pomposi monumenti ai caduti, con le cerimonie solenni abbellite da discorsi e fanfare, con l’apertura di viali della rimembranza (oggi spesso tristemente trascurati), con tutte queste commemorazioni di una liturgia laica si offriva al grande dolore collettivo, al dolore pubblico, una importante occasione di manifestarsi e di sfogarsi. Eppure tutto questo non riusciva ad attenuare in me l’assillo che mi ripeteva incessantemente: “Manca sempre qualcosa di essenziale!”. E infatti, all’improvviso, ho capito cosa mancava. Il grande assente era proprio il lutto e il dolore privato. Solo un povero cinico, o chi ama nutrirsi di illusioni accolte all’interno di qualche facile schemino ideologico, può credere che questo rappresenti un tema ozioso o poco importante. Invece, soltanto attraverso la riscoperta del lutto individuale, si può misurare meglio – ma pur sempre in modo parziale – l’orrore di una guerra.

* * *

Quando iniziai la lettura del racconto di Emilio Lussu, di libri sulla grande guerra ne avevo già divorati molti. Opere di saggistica, studi, qualche diario, memorie di singoli militari. Ma anche le testimonianze più significative erano, nella quasi totalità dei casi, rendiconti scritti in bello stile da ufficiali. Quindi da un punto di vista sempre privilegiato, al massimo con un occhio di riguardo verso i poveri soldati, ma sempre ben distante. Non si può scherzare: le condizioni di vita di un ufficiale non erano paragonabili in nessun modo alle condizioni di vita di un soldato. Certo, la guerra porta morte, lutti, dolori indescrivibili per tutti. Però, l’ufficiale di regola poteva mangiare decentemente, dormire dignitosamente… e, sul soldato, aveva potere di vita o di morte. Ma quello che continuava a colpirmi era anche la “stupidità tattica”, che potrebbe essere chiamata soltanto così se non avesse avuto come conseguenze la morte inutile da ogni punto di vista (anche da quello strategico) di un numero enorme di soldati. Perché mandare al macello decine di migliaia di giovani, spingendoli a uscire dalle trincee, allo scoperto, sotto il tiro diretto delle mitragliatrici? Sapendo che si trattava di un assalto inutile, da effettuare soltanto perché era stato deciso a tavolino, a chilometri di distanza, tra le pareti di un ufficio, di solito ben lontano dai pericoli e dai disagi della prima linea, senza assolutamente tener conto delle reali condizioni dei soldati in trincea. E poi, per completare l’opera, opprimendoli continuamente con ordini assurdi, anche nei momenti di riposo. È vero, gli assalti frontali all’arma bianca contro nidi di mitragliatrici sono avvenuti su tutti i fronti. Ma in Italia, col generale Cadorna erano la regola. E pensare che qualche giorno fa il valoroso Sergio Romano giustificava il tutto, affermando in una sua rubrica sul Corriere della Sera, che questi generali avevano studiato così la strategia nelle accademie militari. E che quindi non avevano colpa loro, se i manuali di strategia erano ancora fermi alle battaglie napoleoniche. E no!, troppo semplice.

* * *

Sette anni fa, nell’agosto del 1999, ero a Parigi con Marina, mia compagna di viaggi e di vita. In una pausa delle lunghe peregrinazioni attraverso quella che per me è la città del cuore, decido di entrare alla Samaritane, il più grande tra i grandi magazzini della capitale. Non si tratta solo di un negozio enorme. In realtà, gli edifici che lo compongono formano una vera e propria antologia dell’architettura industriale e commerciale francese dal 1900 al 1930: la vetrata, il fregio dipinto e scolpito che corre tutt’intorno, e la stupenda scala interna in ferro battuto stile Art nouveau. Non bastasse questo, la Samaritane, su all’ultimo piano, ospita una terrazza che offre una vista impagabile sui lungo Senna e il centro di Parigi. Ce n’è abbastanza per farle una visita. Poteva diventare l’ennesimo percorso tra scaffali colmi di mille cose da comprare (tutto quello che si trova in un grande magazzino), e invece proprio qui trovo quello che non cerco. Un volumetto in brossura, in una collana di tascabili, che attira la mia attenzione. Dalla copertina mi osserva con uno sguardo penetrante un simpatico tizio in divisa militare. Ha due baffoni a punta e sul colletto e sul berretto porta in evidenza il numero 80. Il libro contiene i suoi ricordi di fante, che si è sciroppato tutta la grande guerra in prima linea. E per la Francia – rispetto all’Italia - la prima guerra mondiale è iniziata quasi un anno prima, nell’agosto del 1914, e si è conclusa una settimana più tardi, l’11 novembre 1918. La sera, tornati all’alberghetto di rue de Vaugirard, nel quartiere di Montparnasse, inizio la lettura delle 550 pagine, tanto è lungo il racconto che si dipana nei diari di guerra di Louis Barthas, un bottaio precipitato nell’inferno della grande guerra. Quaranta mesi, tutti al fronte. Come mettere in dubbio la solidità di questa esperienza? Vengo risucchiato dalla storia, semplice e terribile, di quelle pagine. Da quel momento, ogni pausa del camminare parigino, ogni panchina dei numerosi parchi diventa come la poltrona del salotto di casa, quella dove di solito ci si abbandona al piacere della lettura. Anche il viaggio di ritorno sul TGV trascorre in un attimo e, prima di arrivare a Morbegno, i diari di Louis Barthas non hanno più segreti. Mi rivelano una testimonianza unica, eccezionale, commovente e angosciante. E quello che colpisce di più non è l’orrore della morte quotidiana, ma ancora una volta è il comportamento disumano della casta militare: una miscela di imbecillità, burocrazia fuori luogo, sadismo. La guerra è in ogni caso dolore, disperazione, morte. Ma perché, mi chiedo, perché questo comportamento assurdo da parte delle gerarchie militari nei confronti dei soldati in prima linea? Ecco, nei diari del caporale Barthas ho trovato subito una testimonianza unica, diretta, l’esperienza incredibile di un uomo che era passato fisicamente indenne da una prova che richiedeva una forte dose di eroismo quotidiano per non impazzire. Ho scoperto poi che Louis Barthas è morto nel 1952 e che il suo diario è stato pubblicato la prima volta nel 1978. Dunque il nostro caporale non ha mai saputo che il suo manoscritto sarebbe diventato un libro. Tra l’altro, nel corso della sua vita non ha mai cercato di farlo pubblicare: E non ha scritto nient’altro, oltre i diari.

* * *

Ora, visto che tradurre dal francese (o dal tedesco) può essere un esercizio rilassante, che cerco di compiere ogni giorno – quasi una forma di meditazione che mi dà la carica, un passatempo che stimola la curiosità e mi fa affrontare una giornata con spirito sereno –, ho cominciato a fare degli “assaggi di traduzione” proprio del diario del caporale Louis Barthas. E ho l’intenzione, non appena potrò lasciare il lavoro quotidiano (nel 2007), di tradurlo integralmente in italiano. Ci vorrà tempo, sono 550 pagine. So benissimo che la traduzione è un’arte: richiede studio, attenzione e conoscenza. Ma perché non provarci?

Per più di trent’anni ho fatto il bibliotecario. E di che cosa dovrei scrivere, o parlare, se non di libri? Oggi, man mano che il tempo passa, e che la mia esperienza professionale va concludendosi, nei rari spazi liberi della giornata, provo a ritagliarmi dei momenti da dedicare ad attività che mi sono sempre piaciute, ma che il dovere quotidiano mi ha costretto per tanti anni a trascurare. Leggo soltanto libri che mi interessano (in particolare la letteratura francese dei secoli passati), cerco di riaccendere almeno un poco le lingue che ho studiato con piacere ma che durante tutti questi anni sono stato costretto a relegare in un angolino (il francese, il tedesco e il greco antico). Infine rispolvero con più cura e attenzione tutto quanto concerne la storia. Sì, proprio la storia.

Dovrò leggere altri volumi sulla prima guerra mondiale sul fronte francese. Ma sono sempre più convinto che la testimonianza di questo bottaio, originario della Francia meridionale, un uomo ricco di tanta umanità e saggezza, rappresenti una voce che non deve andare dispersa. Per ridare almeno un po’ di voce anche ai poveretti che più nessuno ricorda e che, oggi, sono soltanto dei nomi come quelli incisi sulla lapide dell’edificio (el palàz) che, fino a pochi anni fa, ospitava le scuole elementari di Rogolo: Castelletti Rocco, Fallati Antonio, Ferrè Pietro, Gusmeroli Alfredo, Gusmeroli Aniceto, Villa Achille.


Renzo Fallati


Foto allegate

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