A volte ci sforziamo di definire un autore, ma quanto più ci esprimiamo più ci rendiamo conto che egli ci sfugge di mano e a fatica ne rincorriamo l’immagine che muta in sequenze cubiste. Tale è il personaggio di Pirandello o almeno tale è nel mio pensiero (scusate la licenza). Figura affascinante nel suo tentativo di dire, di definire, di dare un corpo, un sentimento, un’identità a chi non potrà mai averla (e lui ne è consapevole), perché tale è l’uomo nella ricerca del proprio essere, tale è egli stesso. Ogni sforzo sembra vanificarsi di fronte al vero (leopardiano) ma capita per caso che ti trovi tra le mani uno scritto, un articolo, lo leggi e ti rendi conto che in esso si affiancano due grandi, due esponenti di quella realtà che oggi va così di moda (di arretratezza, di incuria, di indigenza), di due territori che nella precarietà del presente si riscattano nella grandezza di chi li ha così realisticamente rappresentati. Sì, perché a fondo pagina dell’articolo (che fa seguito a queste mie parole) c’è la firma di Corrado Alvaro che con la sua valenza espressiva ci rende partecipe della fine di un “grande uomo” e, a detrimento di chi si crede tale e non lo è, ci dice come un vero “grande uomo” sceglie di morire con la stessa semplicità -grandissima- di chi ha vissuto la vita, solo con la propria dignità intellettuale; non se ne capacita il rappresentante del Governo, come spesso accade, forse perché privo di quella grandezza intellettuale che non è di tutti ma privilegio solo di quegli eletti capaci di cogliere nel profondo il vero senso delle cose e della vita.
Chi ha visitato la casa di Pirandello e il luogo della sua sepoltura, identifica tutto ciò come reale.
Propongo questa lettura perché sono convinta che in essa sono condensate verità dette da un grande e ridette da un altro grande, una grandezza a cui oggi i giovani devono “bere” per “dissetare” il proprio bisogno di sapere. (il corsivo è solo un mio arbitrio).
Anna Lanzetta
UN GRAND’UOMO CHIUDE GLI OCCHI
Che la salute di Pirandello andasse declinando cominciammo ad accorgercene noi, suoi amici, quando egli ci lesse, come era consuetudine della sua generazione, l’ultima sua commedia. Gli ballava il foglio davanti agli occhi, e la sua dizione di attore esperto non era più quella, ma confusa e senza la virtù che gli conoscevamo. La rappresentazione di quella commedia, che è una delle sue meno felici, davanti a un pubblico non convinto ma ossequiente che applaudiva in lui ormai un personaggio, ricordo mi diede un malessere. Gli spettatori cedettero di doversi scuotere al pezzo che descrive una lucertola, che è un bel pezzo di prosa e di bravura, e profittavano per fargli un grande applauso. Ero in un palco di proscenio e ricordo le prime file delle poltrone col pubblico attento come a una cerimonia. Credo sia triste, per uno scrittore quando termina l’età della lotta, e il pubblico festeggia ciò che un tempo avrebbe rifiutato, come riparando all’errore di non aver capito molte volte, e forse scontando per quello che poi dimenticherà. Non so se Pirandello lo avvertisse. Ma in quei giorni era inquieto. Pensava di trasferirsi a Milano, o di andare a lavorare in una stanza qualunque a Parigi. Invece si ammalò. Lo vidi proprio quel giorno che tornava dall’avere assistito in un teatro di posa alla ripresa d’un film tratto da un suo dramma; aveva i brividi, camminava su e giù per lo studio, impaziente come tutte le volte che subiva un contrattempo. Gli stavano preparando il letto. In quel letto pochi giorni dopo moriva.
Non ero andato neppure a trovarlo durante la sua malattia, che fu breve, perché mi dicevano che scherzava, si burlava del medico, si burlava delle medicine. Una mattina, quella mattina, m’ero levato presto. Sentimmo uno schianto in casa, come un mobile che si spacca pel caldo; cercammo dappertutto, non si era rotto niente, non era caduto niente. Qualche minuto dopo, una voce piangente al telefono ci diceva che Pirandello era morto in quel momento. Fummo sicuri che quello schianto era stato un suo avviso, come se avesse picchiato forte chissà a quale porta. Chi telefonava era la sua nuora Olinda, con la voce del pianto che non si conosce mai nelle persone, ci diceva di telefonare a un prete nostro amico e letterato perché corresse, e che corressimo anche noi.
Non avevo l’idea di che cosa fosse la morte di un grande uomo. Ma devo dire che è una cosa crudele. Forse è crudele come la morte del ricco, ma di più, assai di più. Perché se il grande uomo lascia i viventi, non li lasciano le sue opere, una parte di lui rimane su questa terra, anzi ne rimane la parte migliore, quella che si voleva da lui, quella che è più importante in lui, quella per cui la più misteriosa delle combinazioni ha presieduto alla sua nascita. Entrammo in quel suo studio, era pieno di gente, ma di gente in piedi, convulsa,curiosa, che fumava,si chiamava, parlava ad alta voce, come se il padrone di casa l’avesse invitata a un ricevimento e tardasse a entrare. C’era lo scaffale dove egli non s’era mai curato di mettere ordine e di raccogliere le sue opere,con venti copie di una, nessuna copia di dieci altre. I suoi libri erano là coi loro titoli. Era difficile tenere a mente che egli non era più quando la costola del libro ripeteva immutabilmente dieci volte, venti volte, «Pensaci, Giacomino!», «Così e (se vi pare)». C’era una costernazione in molti, ma come se egli fosse fuggito. Tutti fumavano febbrilmente. Era veramente assurdo. Entrai nella camera dove egli giaceva. Era come abbandonata, c’era il silenzio sterminato sul lenzuolo che lo copriva delineando quel corpo di «povero cristo» (mi venne a mente questa frase che era tanto solita in lui), poi ci si accorgeva che da una parte due suore pregavano in ginocchio, e il prete che avevano avvertito lo assolveva. E di là, nello studio, quel chiacchiericcio come se nessuno sapesse ancora niente. Mi rimase nella mente quell’impronta del lenzuolo che non riusciva a cancellare la sua fronte e il mento aguzzo per la barba, e tutto il profilo del suo corpo che più volte mi aveva suggerito l’immagine di quell’anfora greca che egli amava, che aveva sempre davanti agli occhi quando lavorava a Roma, in cui oggi riposano le sue ceneri.
Tornato di là, fra la gente sempre più fitta e curiosa, il figlio mi mostrò mezzo foglio d’una carta da lettere che conteneva le sue ultime volontà. La scrittura, per chi la conosceva, era di qualche anno prima, la carta appassita e risecchita. Conteneva quelle volontà senza consolazione, senza rapporti, senza rimedio, di andarsene sul carro dei poveri, di non essere accompagnato da nessuno, di essere disperso al vento con le sue ceneri, o di riposare in quella sua casetta del Caso, o del Caos come egli diceva, presso Agrigento. Se ne andava solo come era sempre stato. Arrivò il rappresentante del Governo e lesse sbalordito quel mezzo foglio in cui la scrittura era sicura come forse era stata sicura soltanto nei suoi manoscritti giovanili, sicura, perentoria, compiuta. Che ne fosse sconcertato il sacerdote si capiva. Costui si dibatteva nella sua perplessità: solo Dio poteva avere misericordia dell’uomo che disponeva di essere bruciato e disperso.
Ma chi era fuori di sé e per tutt’altre ragioni, era il rappresentante del Governo. Lesse e rilesse quel foglio, se lo copiò, e si domandava come avrebbe fatto a presentarlo al suo Capo. Un grande uomo, un uomo celebre che va via a quel modo, chiudendosi la porta alle spalle, senza un saluto, senza un pensiero, senza un omaggio, chiedendo di essere coperto appena di un lenzuolo ma con nessuna uniforme, andare via senza commemorazioni, senza feste. Il rappresentante del Governo era una brava persona, ma doveva rispondere al suo Capo di non poter raggiungere un uomo nella morte. Di fronte alla confusione di quel funzionario, c’era da misurare una condizione umana, e veniva fatto di invidiare colui che se ne era andato a quel modo, rifiutando quegli onori per cui gli artisti vanitosi si compiacciono di contemplarsi perfino nel nulla, e sfidando le vendette che si potevano fare sulla sua memoria. E fu istruttivo, in quelle ventiquattr’ore, sapere che sul tavolo del più potente si battevano indignati i pugni, che ufficialmente era negato allo scomparso un discorso maggiore di quello consentito a un fatto di cronaca; autore appena perdonato di un racconto allusivo col titolo “C’è qualcuno che ride”, egli annunziava ora il nulla a tutta la gloria e a tutta la potenza, era lui che rideva. Quell’uomo, nel punto supremo del suo destino terreno, affermava di essere libero e solo. Affermò di poter essere libero finalmente nella morte. Fu una cosa che, tutti sentirono, anche se non se ne spiegarono il valore profondo di riparazione a ogni possibile errore o debolezza.
Il giorno seguente, la nebbia infradiciava gli ultimi fiori secchi di quel giardinetto dietro a quel cancello di via Antonio Bosio. Un povero cavallo attaccato al carro dei poveri era fermo sulla strada bagnata, tutto puntato in avanti per non sdrucciolare. Veniva fatto di scorgere ogni cosa come il caro maestro l’avrebbe guardata. La bara di abete tinto di fresco con una mano di terra bruna fu collocata sul carro, e i pochi amici rimasero fermi davanti al cancello a vederla partire sola verso gli alberi brumosi in fondo al viale. Uno accanto a me si mise a lacrimare confusamente come un bambino. Aveva i capelli grigi. Il carro scomparve all’angolo, con la sua rozza che lo tirava di traverso. Tornammo per la città coi suoi rumori attutiti dalla nebbia e pareva di udirla in uno stato di stordimento. Nell’autobus, un individuo sedette davanti a noi. Non si accorgeva di avere sulla spalla destra una striscia di terra bruna, da cui lo riconoscemmo per uno dei portatori. Lo guardammo scendere, perdersi tra la folla di un quartiere popolare, dopo il primo guadagno della sua giornata.
Corrado Alvaro
(dal Corriere della sera del 22/12/1946)
(Luigi Pirandello, Novelle, a cura di Giuseppe Morpurgo, Ed. Scolastiche Bruno Mondadori, 1980)
Chi era Pirandello? Una figura enigmatica? No, solo un uomo, che di generazione in generazione impartisce la lezione di vita più autentica: la “riflessione” o come soleva definirla: il “sentimento del contrario”.
«Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti di non si sa quale orribile manteca [pasta grassa usata come cosmetico], e poi tutta goffamente imbellettata [truccata con cipria e rossetto] e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo cioè le rughe e la canizie [i capelli bianchi], riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza fra il comico e l’umoristico». (dal Saggio di L. Pirandello: L’umorismo)
Luigi Pirandello, Girgenti 1867-Roma 1936 (Premio Nobel per la letteratura 1934)
Corrado Alvaro, San Luca 1895-Roma 1956