Dan Schueftan, vice-direttore del Centro per gli Studi sulla Sicurezza nazionale dell’Università di Haifa non nasconde la sua preoccupazione: «Un Iran con armi atomiche cambia le regole del gioco mondiale, è un regime radicale non solo è antisemita e predica l’annientamento totale di Israele, ma mette in pericolo tutto l’ordine internazionale». La sua è una “fotografia” della situazione che non lascia spazi a molti margini: «L’opzione militare non solo esiste, ma è, a mio parere, inevitabile».
Menashe Amir è un esperto israeliano di Iran: «Temo», sostiene, «che alla fine l’unica opzione sarà quella militare, fermo restando che la vera soluzione è la caduta del regime estremista e la restituzione della libertà agli iraniani. Le due cose potrebbero toccarsi, giacché un attacco militare sugli impianti nucleari potrebbe incoraggiare l’opposizione interna iraniana ad insorgere e a rovesciare il potere degli ayatollah e di Mahmud Ahmadi-Nejad». Più drastico, se possibile, Soli Shahvar, capo dell’Ezri Center for Iran and Gulf Studies: «I militari israeliani si stanno preparando da anni, cercando il momento adatto per colpire le strutture nucleari iraniane conosciute».
Questa una breve, ma significativa rassegna degli umori in Israele. Ma segnali di “venti di guerra” non sono colti solo nello Stato della stella di David. L’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer qualche giorno fa ha firmato un’analisi preoccupata e preoccupante, il cui succo è: il Medio Oriente sta scivolando inesorabilmente verso un conflitto; e individua nel programma nucleare iraniano uno dei principali focolai di tensione e instabilità internazionale.
Nei suoi giorni europei, e anche nel suo soggiorno romano, il presidente degli Stati Uniti George W. Bush ha detto – come di prammatica – di augurarsi una soluzione pacifica per la crisi iraniana; ma che non esclude nessuna opzione, compresa quella militare. Si dirà che Bush è un presidente ormai in “uscita”; i programmi del candidato democratico Barack Obama e del repubblicano John McCain, non potrebbero essere più diversi; ma quando si tratta di Iran, parlano la stessa lingua, nessuno dei due esclude l’intervento militare per fermare il programma nucleare iraniano.
Giorni fa, quando il primo ministro israeliano Ehud Olmert è volato a Washington, ha insomma trovato comprensione; e ha detto senza tante perifrasi che la comunità internazionale ha l’obbligo di far capire all’Iran, «con misure drastiche, che le ripercussioni del proseguimento del suo programma nucleare sarebbero devastanti». Ancora più esplicito il vice di Olmert, Shaul Mofaz: ha detto che le sanzioni contro l’Iran sono prive di effetto; e se l’Iran prosegue nel suo programma di costruzione di armi nucleari, Israele non esiterà ad attaccare.
Si dirà che Israele e Stati Uniti sono da sempre ostili al regime di Teheran, e però quello che si sta agitando in Iran preoccupa anche le cancellerie e le capitali arabe e mediorientali. La Turchia osserva con grande diffidenza e perplessità il progredire del programma nucleare; ancora più preoccupata l’Arabia Saudita: ufficialmente i rapporti sono cordiali, e Ahmadi-Nejad, che nel marzo scorso è volato a Ryad, è stato accolto con tutti gli onori. Ma al tempo stesso l’Arabia Saudita (e con lei la Giordania e l’Egitto) è fortemente preoccupata per la crescente influenza che l’Iran esercita nell’area mediorientale, e non nascondono la loro ostilità per la politica “nucleare” iraniana e la “invadenza” della politica di Teheran nella regione. Una mortificazione dell’Iran (chiamiamola così), al di là delle proteste di rito, risulterebbe molto gradito a Ryad, al Cairo e ad Amman. Ma è credibile l’opzione militare? Per quanto possa essere devastante, l’attacco comporterebbe una reazione: scenderebbero in campo i terroristi (che Teheran foraggia generosamente) con attentati un po’ ovunque; Hamas ed Hizbullah si scatenerebbero sanguinosamente contro Israele; e certamente verrebbe bloccato lo stretto di Ormuz, dove passa oltre la metà del greggio destinato ai mercati americani ed europei. Con le conseguenze che sono facilmente immaginabili. Imprevedibile la reazione di Russia e Cina, che da sempre spalleggiano Teheran; infine l’Unione Europea: al solito procede – quando procede – in ordine sparso, in omaggio al detto: “ognuno per sé, Dio per tutti”. Paradigmatica il caso che ha visto la Germania opporsi a che l’Italia entri nel piccolo club (composto da USA, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania) che dovrebbe cercare di convincere l’Iran, un po’ col bastone, un po’ con la carota, a rinunciare a interrompere il ciclo di arricchimento dell’uranio. Il NO del governo di Angela Merkel è motivato dal risentimento per l’opposizione italiana all’ingresso della Germania nel consiglio di sicurezza dell’ONU. Si procede così, navigando a vista, non andando al di là del proprio “particolare”. Armadi-Nejad, che è fanatico ma non cieco, queste cose le vede, le sa; e ne approfitta.
Come si possa uscire da questo pericoloso labirinto è qualcosa che è davvero difficile immaginare. Ed è per questo che il pessimismo è pienamente giustificato.
Valter Vecellio
(da Notizie radicali, 16 giugno 2008)