Oltre ad essere di retroguardia e perdente, quella del nucleare è una scelta pericolosa per la democrazia perché rispondente ad un modello di stato centralizzato, dall’alto verso il basso, rispetto ad un sistema (ri)distribuito in cui, invece, ognuno riesce a produrre la propria energia rinnovabile ed è in grado di scambiarla tramite reti intelligenti, del tipo di internet.
Jeremy Rifkin, filosofo ed economista americano di primo piano, nell’intervista rilasciata a La Repubblica e pubblicata sabato 7 giugno, ha parlato con estrema chiarezza. E di lui c’è da fidarsi. Difficile non conoscere e apprezzare i suoi lavori.
A chi ancora non ha, tuttavia, confidenza con il suo pensiero e la sua ricerca consigliamo almeno quattro libri a nostro avviso basilari: La fine del lavoro (Baldini & Castoldi, 1995) Entropia (Baldini & Castoldi, 2000), Ecocidio (Mondadori, 2001), Economia all’idrogeno (Mondadori, 2002).
Una delle sue doti migliori sta nella capacità di spiegare in modo molto semplice questioni estremamente complesse prospettando sempre utili indicazioni.
E anche stavolta non si è smentito. L’orientamento filonuclearista dell’attuale maggioranza governativa, oltre ad essere retrogrado e infelice perché non tiene affatto conto delle conseguenze che ne deriveranno, risponde ad una sorta di innamoramento ideologico, di posizione preconcetta fallimentare non priva di tentazione totalitaria. Vediamo perché.
Innanzitutto il nuclearismo ad oltranza non considera che le centrali sono sì a bassa probabilità di incidente ma, purtroppo, ad alto rischio. In altri termini, non è affatto peregrino che, nel caso in cui si verifichi qualche guasto, si possano provocare eventi catastrofici come quello di Chernobyl.
In secondo luogo, quella nucleare non è, come si vuole fare credere, una fonte pulita. Infatti, per ottenere un apprezzabile impatto sull’ambiente e ridurre del 20% l’emissione il diossido di carbonio, bisognerebbe costruire tre centrali al mese per i prossimi sessant’anni.
Ora, si domanda giustamente Rifkin, può esserci qualcuno sano di mente che ritiene possibile procedere con questo ritmo?
Ci sono, poi, due argomenti inoppugnabili: lo stoccaggio delle scorie radioattive e l’inevitabile diminuzione dell’uranio.
«Gli Stati Uniti», afferma lo studioso, «hanno straordinari scienziati e hanno investito otto miliardi di dollari in diciotto anni per stoccare i residui all’interno delle montagne Yucca dove avrebbero dovuto restare al sicuro per quasi diecimila anni. Bene, hanno cominciato a contaminare l’area nonostante i calcoli, i fondo e i superingegneri. Davvero l’Italia crede di poter far meglio?»
Inoltre, gli studi dell’agenzia internazionale per l’energia atomica confermano che l’uranio comincerà a scarseggiare nel decennio 2025-2035. Pertanto, i costi subiranno un’impennata con forti ripercussioni sulla produzione d’energia. Si potrebbe ricorrere al plutonio ma si tratta, pur sempre, di un’ipotesi da scartare perché «con quello è più facile costruire bombe».
E ancora: per raffreddare i reattori si sottrae alla popolazione, e si spreca, un ingente quantitativo di acqua potabile. Si pensi a quanto accaduto in Francia nell’estate di cinque anni fa, quando numerosi anziani morirono per il caldo. Allora scarseggiò l’acqua per il raffreddamento degli impianti e la riduzione dell’erogazione dell’energia elettrica impedì l’utilizzazione dei condizionatori d’aria condizionata.
Se così stanno le cose qual è l’alternativa da adottare? La cosiddetta terza rivoluzione industriale, cioè un sistema in cui si produce e si scambia energia rinnovabile. È questa la via che pare più consona al territorio italiano dove non mancano, di certo, sole e vento e si può altresì ricorrere alla geotermia e allo sfruttamento delle biomasse. Ed è in questo ambito che, purtroppo, come i radicali non si stancano di denunciare, si accusano enormi ritardi rispetto ad altri paesi europei.
«Bisogna cominciare», sostiene Rifkin, «a costruire abitazioni che abbiano al loro interno le tecnologie per produrre energie rinnovabili,come il fotovoltaico. Non è un’opzione, ma un obbligo comunitario quello di arrivare al 20%».
In caso contrario, cioè in caso di scelta nuclearista, arriveremo a scenari simili a quelli prodottisi a Napoli con i rifiuti. Solo che, al posto dei sacchetti di immondizia, ci saranno scorie radioattive…
Francesco Pullia
(da Notizie radicali, 9 giugno 2008)