Uno degli articoli più belli di Marco Pannella, che – letteralmente – insegna l’antifascismo, si intitola “Noi siamo contro i repubblichini di oggi”, pubblicato su Notizie Radicali il 23 marzo 1972. Cominciava così, quell’articolo:
«Confessiamo che questa storia del “bando” di Almirante ci ha scocciati e non ci interessa minimamente. Denota un clima e dei metodi che non ci garbano, in genere, e che non servono a nostro avviso né all’antifascismo né alla lotta politica democratica. Almirante è stato un alto funzionario, cioè un esponente politico della Repubblica di Salò. La Repubblica di Salò è la sigla che si sono dati, con Mussolini ed altri fascisti, quanti hanno scelto di collaborare con i tedeschi ed i nazisti, contro il governo legale, contro quanti combattevano per sconfiggere Hitler e cancellare dalla concreta lotta politica l’immondo e disumano regime nazista. Questa scelta li ha portati moralmente e spesso fisicamente, ad essere gli assassini dei partigiani, di popolazioni inermi o che si ribellavano in nome degli ideali di libertà, di giustizia, di semplice umanità. Hanno finito per essere i complici delle jene di Buchenwald e di Auschwitz…».
Proseguiva Pannella:
«…Confesso che non m’interessa cercare di capire se il non ancora ventenne Almirante fosse allora in buona o in mala fede. Se dovessi giudicare da quel che è oggi, dal suo modo d’essere che ho dinanzi, direi che egli era probabilmente un cinico e volgare opportunista che aveva sbagliato calcoli e cavalli sui quali puntare. Ma se è vero come penso sia vero che egli abbia firmato e fatto affiggere il bando che gli viene addebitato resto ancora indifferente…”.
Per la cronaca: la storia del “bando”, in pillole è questa. Nel 1970 Almirante aveva querelato l’Unità, per averlo accusato di essere stato un fucilatore di partigiani. Il tribunale gli aveva dato torto, riconoscendo fondata l’accusa dell’Unità, per via di un proclama, firmato il 17 maggio 1944 da Giorgio Almirante quale capogabinetto del ministro Fernando Mezzasoma, poi fucilato assieme ad altri gerarchi a Dongo. In quel proclama si intimava agli «sbandati e appartenenti a bande» di consegnarsi ai repubblichini o ai tedeschi entro la mezzanotte del 25 maggio 1944. Coloro che non si sarebbero presentati, comunicava il bando, sarebbero stati «passati per le armi mediante fucilazione alla schiena».
Si chiedeva Pannella se fosse giusto, “laico”, tollerante, civile, «far oggi lotta politica a suon di ricordi, e di odio?... Certo sappiamo che è davvero dalle fogne che molti teppisti di estrema destra oggi sono stati pescati e tolti. Ma da quali fogne?... Credere che Almirante, che non fu un pericolo nemmeno per il povero ragionier Arturo Michelini, sia oggi l’avversario da battere, e il responsabile o il sostegno maggiore del teppismo o delle svolte autoritarie è semplicemente ridicolo…».
Dunque: siamo contro i repubblichini, ma quelli di oggi, gli uomini del regime democristiano e i loro complici. Pannella aveva e ha ragione. Tuttavia, l’infamia non si prescrive; la memoria ha dei doveri e dei diritti.
A proposito della via a Giorgio Almirante proposta dal neo-sindaco di Roma Gianni Alemanno: siamo andati a rileggerci il bel libro di Franco Cuomo I dieci (Baldini e Castoldi); racconta chi erano gli scienziati che firmarono l’abominevole “manifesto della razza”: i dieci studiosi – medici, biologi, naturalisti, docenti universitari – che col loro documento furono il “preambolo” e il fondamento delle leggi razziali del 1938, e così legittimarono e favorirono la deportazione in Germania di ottomila ebrei italiani. Leggi che teoricamente erano perfino peggiori e più crudeli di quelle naziste, solo che i tedeschi le loro, le applicavano; gli italiani in larga misura, fortunatamente preferirono cavillare cercando gli “inganni” per non applicare quella legge. I nomi dei “dieci” sono Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Donaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattieri. Persone ormai dimenticate, giustamente dimenticate, da una parte; e che però dovremmo ricordare una per una, per l’infamia che firmarono e avallarono.
A quei dieci si affiancarono spontaneamente oltre trecento altre personalità: docenti universitari, magistrati, medici, economisti, capitani d’industria, alti ufficiali dell’esercito, scrittori, artisti, giornalisti e anche rappresentanti del clero; espressero la loro adesione alla politica e ai principi del razzismo italiano. Non mancano nomi che stupiscono un poco: accanto a quelli di Pietro Badoglio o di un Giuseppe Bottai, a un Julius Evola e a un Roberto Farinacci, compaiono quelli di Giorgio Bocca, Gino Boccasile, Gherardo Casini, Amintore Fanfani, Giovannino Guareschi, Mario Missiroli, Walter Molino, Romolo Murri, Giovanni Papini, Ardengo Soffici per dirne di alcuni; e, tra i tanti, il nome di Almirante.
Quelle leggi razziali, puntellate da quel “manifesto”, erano e sono un’infamia. Infamia che, per quel che ci riguarda, non va, e non può andare, in prescrizione. Non ci furono all’epoca, intellettuali, leader di opinione che levarono in modo significativo la loro voce. Non furono molti ad approvare apertamente, tanti finsero di farlo. Molti uomini di chiesa, e tantissimi cattolici, in seguito aiutarono gli ebrei a sfuggire alle persecuzioni; ma il pontefice d’allora tacque. Dei 45.200 ebrei che si trovavano in Italia durante l’occupazione tedesca, 6.800 non sopravvissero, furono caricati sui carri bestiame e mandati a morire nelle camere a gas e nei forni crematori. 6.800 persone rastrellate e deportate, infine uccise, in un paese che non aveva una tradizione di antisemitismo, sono tante.
Per tornare alla questione della via da dedicare ad Almirante. Vi ricordate i professori universitari che l’8 ottobre 1931, quando Mussolini impose il giuramento di fedeltà al regime fascista, non si piegarono? Tredici ordinari, su 1.250 non giurarono, e preferirono perdere la cattedra e la libertà; i loro nomi: Giuseppe A. Borgese, Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Francesco ed Edoardo Ruffini, Lionello Venturi, Vito Volterra; tredici uomini, differenti per origine, carattere, modo di pensare, attitudini sociali, che seppero dire di NO. Pensate che vi siano a Roma altrettante strade dedicate a queste persone? A meno che il nostro stradario sia datato, la risposta è no. Non c’è strada, piazza, vicolo, nulla che ricordi Carrara, Errera, Levi della Vida, Luzzato, Martinetti, Nigrisoli, Ruffini padre e figlio. Chi vuole saperne di più su questi “tredici” che seppero tenere alti i “colori” della dignità e della civiltà, si procuri I miei maggiori di Alessandro Galante Garrone (Garzanti), e Preferirei di no, di Giorgio Boatti (Einaudi). Sicuramente, gli otto “dimenticati” hanno la precedenza. Anche il sindaco Alemanno dovrebbe convenirne.
Valter Vecellio
(da Notizie radicali, 29 maggio 2008)