Bukavu, Repubblica democratica del Congo. L'ultima volta che sono stata negli Usa tutti parlavano di “cambiamento”. Cambiare sembra significhi eleggere Barack Obama presidente, dopo di che tutti gli americani si uniranno in un accordo idilliaco. Ma il vero cambiamento non accade così. Il tizio che ha la carica in questo momento non aveva promesso di essere un “unificatore”? Il vero cambiamento ha contenuti, e una direzione. Viene portato avanti da persone coraggiose che non temono di parlare a voce alta, anche quando (o forse specialmente quando) è rischioso.
Ad ogni modo, ci sono un mucchio di statunitensi con cui non andrò mai d'accordo, perciò mi trovo in esilio autoimposto in Africa, dove lavoro con donne che mi stanno insegnando molto su cos'è un vero cambiamento e sui pericoli che bisogna affrontare per averlo. Le donne di cui parlo vivono i dopoguerra delle guerre civili, e cioè vivono nel bel mezzo di una guerra contro le donne fatta di sfruttamento sessuale, stupro e violenza domestica. Ne hanno abbastanza.
Come volontaria per l'International Rescue Committee (Irc), vado di paese in paese, gestendo un piccolo semplice progetto sognato dall'unità dell'Irc che si occupa di violenza di genere (violenza di genere è il termine neutro per quella che io chiamo ancora violenza contro le donne). Il progetto, chiamato “Crescendo globale: le voci delle donne dalle zone di conflitto”, intende fornire alle donne una possibilità di documentare le loro vite di ogni giorno, i loro problemi, le loro consolazioni e gioie. È progettato per dar loro uno spazio in cui parlare insieme e comporre insieme la loro propria agenda per il cambiamento.
Lo strumento sono le macchine fotografiche digitali. Io arrivo e le presto alle donne, la maggior parte delle quali non ne hanno mai visto una prima. Insegno loro ad inquadrare e scattare, solo questo, poi sono libere di riprendere quel che vogliono, io chiedo che mi portino qualche immagine dei loro problemi e delle loro benedizioni. Lavorano in gruppo, due-tre donne che condividono una macchina fotografica, e all'inizio sono molto nervose; alcune addirittura tremano. Ci vuole l'intero gruppetto per prendere le prime foto: una tiene la macchina, un'altra inquadra, la terza scatta. Il lavorare insieme è un passo verso la solidarietà.
Una volta la settimana, per quattro o cinque settimane, i vari gruppi si riuniscono (dalle dieci alle quindici donne in tutto) per guardare insieme le fotografie e parlare di perché hanno scelto proprio quei soggetti. Per la maggioranza di queste donne, le cui vite sono consumate da impegni domestici infiniti, è rara l'opportunità di sedersi a parlare, a parlare veramente, con le loro vicine di casa. La maggioranza è analfabeta. Non hanno televisioni. Poche hanno la radio. Qualsiasi notizia abbiano la ricevano largamente dai loro mariti, e i mariti spesso non dicono loro nulla, eccetto cosa devono fare. Escluse dalla vita pubblica, non hanno voce in capitolo nelle decisioni degli uomini, i quali determinano tutto, in materia di sessualità e gravidanze, di guerra e “giustizia”. Persino nelle loro case non viene mai chiesta la loro opinione, non vengono mai incoraggiate a prendere una decisione su qualsivoglia argomento. Per donne in tale situazione, una conversazione vera con altre donne inevitabilmente si dimostra una rivelazione. Per me, che ascolto e pongo domande, è il tornare ai vecchi giorni del movimento delle donne, alle sedute informali di autocoscienza che espansero la mente collettiva della mia generazione. Ora che sono una cittadina anziana, ho il privilegio di cavalcare un'altra ondata del femminismo, ad un continente di distanza.
Ma di cosa parlano, queste donne che lottano per sopravvivere, per costruire una vita per loro stesse e i loro figli, in paesi devastati dalle guerre dei “grandi uomini”? Dipende da dove ci si trova. In Costa d'Avorio, le donne dei villaggi parlano del carico di lavoro che spezza le loro schiene, mentre gli uomini fanno assai poco. In Liberia, le donne urbanizzate parlano del non guadagnare abbastanza con i loro impieghi per trattenere i loro mariti (che fanno assai poco) dal delinquere. In Sierra Leone, parlano dei problemi delle vedove di guerra che non riescono a mantenere i loro bambini, a mandarli a scuola e a salvare le ragazzine dallo sfruttamento sessuale.
Nella Repubblica democratica del Congo, parlano dei problemi delle donne che hanno sofferto stupri di gruppo, che sono state ripudiate dai loro mariti, che non possono più avere figli, che in molte sono state letteralmente lacerate in due e non saranno mai più intere. In tutti questi paesi, le semplici domande saltano fuori subito, e sono: È giusto? È equo?
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Prendendo fotografie le donne vedono ciò che una vita di esperienze ha già detto loro: che gli uomini dirigono il mondo, il paese, la provincia, il villaggio, la casa. In questi paesi, uomini di ogni credo politico hanno provocato guerre disastrose, alcune durate più di un decennio e una (in Congo) che continua in via non ufficiale, caratterizzate da atrocità indicibili. Persino molti uomini ammettono di aver causato una terribile confusione. In tutti questi paesi, quando gli uomini armati smettono di sparare e dicono che c'è “la pace”, continuano ad assalire, stuprare ed uccidere donne.
Una volta che lo schema dell'assalto alle donne sia stato adottato come tattica di guerra, diviene un'abitudine fra gli ex combattenti. I civili finiscono per adottarlo anche loro. In Congo, i bersagli degli stupratori ora sono le bambine. Un gruppo di donne di villaggio con cui ho lavorato nella provincia di Kivu, al sud, mi hanno testimoniato di cinque stupri avvenuti, nell'ultimo mese, su bambine con meno di nove anni. Il più recente è quello di una bimba di sei anni, da parte del pastore della sua chiesa. Perciò, ogni volta in cui le donne cominciano a parlare, a parlare veramente, delle loro vite, la parola “giustizia” è destinata a saltar fuori, anche se la conversazione concerne solo questioni che sembrano banali (sebbene siano fondamentali), tipo chi va a prendere l'acqua e a chi è permesso fare il bagno.
Le donne a cui presto le macchine fotografiche prendono un incredibile numero di foto che riguardano la violenza fisica contro le donne: uomini che battono donne nelle case, nei cortili, nelle strade, nei mercati. Uomini che scagliano donne per terra. Uomini che brandiscono bastoni, rami d'albero, manici di scopa. Atti di violenza intesi per punire le donne di cose che hanno fatto o non fatto, o per forzarle a fare cose che non hanno la volontà o la forza di fare. Questi atti di violenza mirano a controllare le loro vite. Le donne possono facilmente scattare queste foto, perché gli uomini si sentono liberi di picchiare le donne ovunque, a qualsiasi ora, senza timore di essere interrotti o disapprovati. La guerra ha fissato un precedente.
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Le donne prendono immagini di altre donne abbandonate, spesso incinte, con i loro bambini, come la foto di una giovane senza un soldo che vive, con i tre minuscoli figlioletti, all'aperto, fuori da un villaggio. L'immagine è profondamente disturbante in modi che non sono ovvi a chi viene da fuori. La maggioranza delle donne dell'Africa occidentale sostengono se stesse e i figli lavorando nelle fattorie, vendendo i prodotti al mercato, producendo oggetti per commerciarli. Ma la casa appartiene all'uomo, assieme a tutto quel che c'è dentro e alla terra su cui sorge. Essere ripudiate significa diventare vagabonde. La minaccia dell'abbandono è ciò che costringe le donne a sopportare ogni sorta di abuso.
Numerose donne fotografano anche la violenza economica. In Costa d'Avorio, per esempio, una donna ha fotografato il campo di cacao della sua famiglia. La parte che appartiene al marito si stende nell'immagine come un ricco tappeto verde; la sua, quella della principale lavoratrice della fattoria, è una piccolo mucchio di terra appena percettibile su un lato dell'immagine. Un'altra fotografa, in Sierra Leone, ha preso l'immagine di una donna al lavoro, in ginocchio, in una buca colma di olio di palma, mentre il marito sta in piedi ad intascare i proventi della sua fatica.
Poi c'è il lavoro di tutti i giorni. Le donne prendono foto di donne che lavorano nei campi, nelle foreste, nelle piantagioni, nei mercati e nelle case: donne che coltivano, mietono, cucinano e servono cibo, donne che lavano piatti, vestiti, bambini; donne che spazzano case e cortili; donne che portano acqua e legna; donne che sostengono pesi di ogni sorta sulle loro teste (ceste di ortaggi, bidoni di pomodori, carichi di legna, mucchi di biancheria) mentre camminano su lunghe distanze per arrivare al campo, al mercato, al fiume. Anche nelle grandi città, le donne fanno tutto questo. A Monrovia, la capitale della Liberia, donne che vivono nel cuore della città passano molte ore al giorno andando avanti e indietro fra i pozzi contaminati, in cerca di acqua.
Il mio computer, ora, contiene migliaia di fotografie di donne al lavoro.
Ciò che ne emerge, principalmente, è un'immagine più grande, una definizione più vasta della violenza contro le donne. Non è solo il picchiare le mogli, lo stupro, la schiavitù sessuale. Non è solo la tirannia psicologica o la minaccia. Per troppe donne, nei villaggi e nelle città, la violenza contro le donne è la vita stessa, una vita che richiede loro lavoro forzato senza requie solo perché sono donne.
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Dovunque io vada, il progetto “Crescendo globale” culmina in una mostra fotografica. Invariabilmente, è la “prima mostra fotografica fatta da sole donne” ed un grande evento. Ogni fotografa seleziona le immagini che ritiene più importanti. Io stampo ingrandimenti e li faccio laminare. Le fotografe scelgono la modalità di presentazione e fanno inviti formali ai capi ed ai sottocapi, ai notabili ed ai dignitari, alle famiglie e agli amici, e a volte all'intero villaggio. Se la mostra si tiene in uno spazio pubblico o in una scuola, appendiamo le foto alle pareti. Se si tiene sotto l'albero del villaggio, le fotografe stesse reggono le loro immagini. Ogni donna, a turno, parla delle proprie fotografie: perché le ha fatte, cosa esse mostrano di giusto e sbagliato nella comunità, cosa deve cambiare.
Ciò che accade poi dipende largamente dalla leadership locale. Gli stranieri spesso generalizzano sulle “culture diverse” come se fossero tutte uguali. La verità è che le culture africane sono fluttuanti e spesso variano tra di loro in modo drastico. Vecchie tradizioni possono essere difese accanitamente da un capo, e ripudiate da un altro del villaggio confinante. Le “culture” africane dipendono dal conservatorismo o dal coraggio di questi uomini, e dall'alzarsi delle voci delle donne. Lo scorso settembre, nel villaggio ivoriano di Zatta, le fotografe (che non avevano mai partecipato ad un'assemblea, parlato in pubblico, o persino osato dare un'occhiata al capo) si sono mostrate ai notabili del villaggio reggendo le loro immagini sul duro lavoro delle donne. Una delle fotografe, Zounan Sylvie, mostrò l'immagine della gamba sanguinante di una donna. Il marito di quest'ultima l'aveva picchiata di brutto. Sylvie disse che la donna non ne poteva più dei pestaggi, e voleva che agli abitanti del villaggio fosse mostrato il suo intero corpo pieno di lividi, ma Sylvie non l'aveva fatto poiché temeva che se la donna fosse stata riconosciuta il marito avrebbe potuto ucciderla.
Al che, il capo alzò il braccio: “Ho ascoltato il tuo messaggio”, disse, “Io non voglio violenza di nessun tipo. Se violenza del genere si dà in questo villaggio, deve cessare ora”. Dopo la mostra, il capo invitò le fotografe, che avevano formato un'organizzazione chiamata Anouanze (unità), ad unirsi al gruppo dei suoi consiglieri, e invitò tutte le donne del villaggio a partecipare alle assemblee. Nello spazio di una notte, con le macchine fotografiche in mano, le donne del villaggio di Zatta, che non avevano mai avuto voce negli affari pubblici, si sono mosse al centro della governance, e là restano più di otto mesi dopo. Questo è stato il più grande successo del nostro progetto, e un rabbuffo a chi ripete che “per cambiare ci vuole tanto tempo”.
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Nello scorso febbraio, alla mostra fotografica tenutasi nella città di Kailahun in Sierra Leone, un altro potente capo attaccò tutte le ong straniere (senza le quali la sua città dilaniata dalla guerra avrebbe molto meno in termini di assistenza sanitaria, scuole e cibo) ed ammonì tutti i presenti: “Non parlate di mutilazioni genitali femminili. È la nostra tradizione. Non vogliamo tradizioni forestiere”. Dopo di che uscì, seguito dai suoi anziani consiglieri. Io rimasi sorpresa, perché quest'uomo ci aveva all'inizio accolte con calore, e perché nel corso dell'intero progetto nessuna aveva parlato di mutilazioni. Io mi faccio un punto d'onore del discutere solo le questioni che le donne sollevano con le loro immagini: le mutilazioni genitali femminili sono un'atrocità, ma sono pure circondate da potenti tabù.
Dopo la mostra, quando i membri ivoriani dell'Irc andarono a parlare al capo, egli disse loro che le mutilazioni sono una cattiva pratica, e dovrebbero cessare, ma gradualmente: ecco un altro che crede che ci voglia “tanto tempo” per cambiare, nonostante tutto il potere che detiene. Una settimana più tardi, dopo che io avevo lasciato il posto, cinquecento donne marciarono attraverso la città per mostrare lealtà al loro capo, reggendo cartelli su cui era scritto in mende ed in inglese: “Noi non ne parliamo” (delle mutilazioni). Io ho visto questa cosa come il nostro più grande fallimento fino a che non ho ricevuto un'e-mail da un'appartenente all'Irc nazionale: “È veramente una cosa buona”, mi ha scritto questa donna, “Prima, delle mutilazioni non si faceva neppure menzione. Ora, grazie al capo, almeno le persone stanno parlando del perché non ne possono parlare. È un passo avanti”.
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Ora capite cosa intendo quando parlo dei rischi connessi al cambiamento? La maggioranza delle donne africane non ne può più della violenza, della propria schiavitù legata al lavoro o alle esigenze sessuali maschili. Vogliono una vita migliore per le loro figlie. Vogliono essere in grado di mandarle a scuola e di tenerle al sicuro dalle violenze sessuali dei loro insegnanti, degli adulti e dei ragazzi. Vogliono un cambiamento, e molte di loro, come la donna picchiata che desiderava mostrarsi interamente in fotografia, sono disposte a mettere in gioco le proprie vite.
Nella regione congolese di Kivu dove sto lavorando ora, abbiamo appena dovuto sospendere il progetto per ragioni di sicurezza. L'area si sta “scaldando” di nuovo, e gli specialisti in sicurezza dell'Irc non vogliono mettere in pericolo le fotografe. Le donne, però, che sono già sopravvissute a violenze che non ho il coraggio di narrarvi, erano disposte a rischiare. Il loro concetto di pericolo differiva radicalmente dal nostro.
Una di loro mi raccontò che aveva trovato devastante l'essere odiata, persino da suo marito e dai suoi familiari, perché era stata stuprata da un gruppo di soldati. Trovò aiuto nell'unirsi ad un gruppo di donne sopravvissute alla violenza sessuale (ce ne sono migliaia nel paese, di questi gruppi). Era riuscita a sconfiggere la vergogna, mi disse, quando aveva capito che l'esperienza da lei vissuta era “normale”.
I desideri che le donne esprimono sono quelli di base. Vogliono che i loro mariti le “perdonino” per essere state stuprate. Vogliono che i loro mariti diano una mano nelle faccende della fattoria e della casa. Vogliono che gli uomini si assumano responsabilità nei confronti dei bambini, che diano una mano, che abbiano cura. Vogliono che gli uomini smettano di impegnarsi in guerre orrende e senza senso. Una mi ha detto: “Vogliamo essere al sicuro nelle nostre case, nel nostro paese, e questo è un nostro diritto”. E un'altra: “Abbiamo il diritto di sognare un paese libero e sicuro, perché è possibile”. Diritto, come giustizia, è una parola che le donne usano sempre di più.
Cosa è ragionevole aspettarsi che vedano, queste donne con cui ho lavorato, nei prossimi cinque anni? Vera sogna che tutti gli edifici distrutti verranno ricostruiti e che bambine e bambini andranno tutti a scuola, insieme. Anna spera di poter camminare liberamente per strada, senza dover temere un'aggressione. Mantina vuole che le donne e le bambine non subiscano violenza nelle loro case. Esther auspica che le ragazze vengano istruite, e che poi abbiano posto nel governo. Kebeh spera che la sorella, rimasta paralizzata dopo uno stupro di gruppo, torni a camminare. Betty vuole che le donne agiscano in solidarietà. Lei dice: “Siamo come un fascio di ramoscelli. Se il mazzo non è stretto, gli uomini possono prenderci una alla volta e spezzarci. Ma se il mazzo è stretto non può essere spezzato”.
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Quando la mostra è terminata, raccolgo le macchine fotografiche, faccio i bagagli, e mi sposto nel prossimo paese. Gli staff locali dell'Irc continuano a lavorare con le donne e a sostenere la loro agenda per il cambiamento. Mentre scrivo, sono stata appena informata tramite e-mail che dopo aver mostrato la serie di fotografie ad un comitato parlamentare della Sierra Leone, lo staff dell'Irc e le fotografe sono state invitate a portare la mostra all'intero parlamento.
Noi non lasciamo le macchine fotografiche perché le donne non hanno modo di curarsene o di far poi sviluppare le immagini e perché, e questa è la cosa più importante, non ne hanno bisogno. Il progetto non è centrato sulla fotografia. Il progetto riguarda le voci delle donne che si alzano, nelle zone di conflitto, in un crescendo globale di dolore, protesta e speranza.
La macchina fotografica è solo il mezzo per incoraggiare altri modi di guardare. Le discussioni che le donne fanno sulle fotografie stimolano nuovi metodi di analisi. La mia collega ivoriana dell'Irc, Tanou Virginie, ha detto questo alle fotografe: “I vostri occhi sono le lenti. La memoria è nel vostro cervello. E l'immagine può uscire dalle vostre labbra”. Io lo ripeto a tutte le donne con cui lavoro. E loro sono d'accordo. Una fotografa liberiana ha commentato nel mezzo del gruppo di discussione: “Alcune persone usano macchine fotografiche, altre lo sono. Io, sono la macchina fotografica”.
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Attraverso le zone di conflitto africane, fra le donne consumate dalla violenza e dalle guerre, in cui non hanno altro ruolo se non quello dei bersagli, e il cui principale desiderio è poter nutrire i figli, ci sono donne che si sono messe insieme, si sono organizzate per aiutare le altre.
Hanno formato gruppi che si chiamano “unità” o “comune delle donne”. Sono intelligenti e coraggiose, e moltissime sono arrabbiate. Stanno valutando criticamente le loro vite, gestite dagli uomini e dalle “tradizioni”. Alcune di esse hanno preso parte al progetto “Crescendo globale”, guardando alle cose con occhi nuovi, discutendone, parlando pubblicamente ed argomentando a favore del cambiamento in modo persuasivo. Fra le rovine dei loro paesi, le loro voci si alzano sempre di più, ogni giorno.
Ann Jones
(traduzione di Maria G. Di Rienzo)
Ann Jones, scrittrice, fotografa, attivista per i diritti umani, sta lavorando come volontaria con l'International Rescue Committee ad uno speciale progetto contro la violenza di genere dal nome “Crescendo globale: voci di donne dalle zone di conflitto”.
Opere di Ann Jones: Kabul in inverno: vita senza pace in Afghanistan, Metropolitan Books, 2007.