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Anna Lanzetta “La tragedia di un personaggio” di Luigi Pirandello
Georg Grosz: Senza titolo, 1920
Georg Grosz: Senza titolo, 1920 
18 Maggio 2008
 

Quest'ultima domenica sono entrato nello scrittojo, per l'udienza, un po' più tardi del solito, così inizia la giornata di uno scrittore che si accinge con garbo e con pazienza a dare forma a chi nella vita è soltanto un’ombra vaga, vagante tra i meandri dell’essere alla ricerca di una maschera da indossare per un giorno ed essere autentico fin quando tutto svanisce per il giudizio di un critico che si intestardisce affannosamente a smontarci pezzo per pezzo, per capirci, scoprirci, definirci e che finisce solo per frantumarci in un giudizio che non ci appartiene. “Questa è la vita”, rincorriamo la nostra ombra e nel momento in cui crediamo di averla presa diventa altro perché altro siamo diventati noi, altro siamo nel giudizio degli altri; un gioco di parole per capire che non abbiamo un’identità capace di definirci nella quotidianità; tale è il dottor Fileno, protagonista del racconto, che vuole a tutti i costi essere personaggio per non finire nel dimenticatoio della vita ed essere ricordato, essere eternato, egli che sa che l’unico capace di ciò è lo scrittore, non uno scrittore qualsiasi che non accontenta le sue attese ma uno scrittore capace di dire ciò che egli è stato, ciò che è e che tale resterà nel corso della storia; troppe pretese per chi è solo ombra e che, diventato già personaggio, non può ritornare a esserlo sotto un’altra veste; legge inesorabile della vita, un filo sottile che collega il pastore errante di Leopardi alla fissità dei personaggi di Verga, alla poesia sofferta e dolorosa di Montale; uno stato di estraneità, di incomunicabilità, di impossibilità di conoscersi, di relazionarsi e di definirsi dell’uomo del Novecento; un tentativo di autoconoscenza che si frantuma di fronte alla realtà poco attenta ai bisogni e alle attese dell’uomo che vede frantumarsi il suo credo come nebbia al vento, svanire una speranza; che si trascina a fatica in una realtà in cui i suoi sogni quotidianamente si vanificano; dove cambiamenti improvvisi frantumano ideologie e creano ansia per ciò che è e per ciò che sarà; in cui lo stesso individuo appare grottesco come i personaggi di Grosz, o si carica di autoironia come i personaggi di Svevo, o si eleva a esteta come D’Annunzio, o si separa dal mondo come Pascoli, o si lega alle piccole cose come Gozzano, o perde fiducia come poeta -che piange-.

La “tragedia” è sfilare in una società che ci impone una maschera che camuffa la parte più autentica di noi , quella che non riusciamo a mostrare, quella che gli altri non vogliono vedere, in quel “male di vivere” che spesso, troppo spesso diventa diniego di un credo e di speranza; di una cultura che non sempre risponde alle attese di chi vuole da essa essere rappresentato con i propri bisogni e le proprie idee, di chi chiede che continui il processo educativo tra passato e futuro sul sottile filo di un presente che funga da filtro; il dottor Fileno, a ragione cercava una penna, non una qualsiasi ma uno scrittore capace di rappresentarlo nella maniera più autentica perché tale dovrebbe essere la verità senza orpelli e senza finzioni. “La tragedia di un personaggio” si pone come testo chiave per comprendere il nostro Novecento e oltre, un misto di scrittura e filosofia che ancora una volta pone Pirandello in linea con Leopardi e che alla luce della relatività lo affianca a Picasso nella rappresentazione di un volto mutevole, nel pensiero di chi lo giudica, mutevole nel tempo e nello spazio; un’immagine dell’uomo, fortemente espressiva sia nella linea e nel colore che nella parola e nel concetto-forma, ambedue linguaggi capaci di interloquire profondamente e in simbiosi con il lettore e l’osservatore e di suscitare inquietudine, quesiti, attese; un invito a farci riflettere, a capire noi stessi e gli altri specialmente ora che le problematiche universali ci invitano a essere diversi sul piano umano, a non diventare nemici su un terreno comune come diceva Leopardi e a capire che la mancanza di una forma ci investe tutti e che tutti, indipendentemente da ciò che la vita ci ha riservato e che ci ha dato in eredità ne abbiamo bisogno per sostenerci in quel solidarismo resistenziale di Leopardi di stampo pirandelliano e oltre, e a capire che tutti abbiamo una maschera al di sotto della quale c’è l’autentico principio dell’eguaglianza. In tale ottica, “La tragedia di un personaggio” si pone come testo chiave per comprendere la poetica di Pirandello e non solo, e il suo rapporto con l’uomo e con se stesso. È adombrata in questo racconto la tragedia dell’individuo consapevole di non poter vivere la propria identità se non diventando personaggio, attraverso la penna di un valente scrittore, capace di penetrare nei meandri del suo animo e tracciarne quella forma che lo definirà personaggio per sempre. Emerge il ruolo dello scrittore, fondamentale, nel dare metaforicamente nella vita, la vita a chi non ce l’ha, nel tentativo di farlo vivere: nel pensiero del lettore, nella critica feroce, nel sorriso bonario di chi osserva compiaciuto tale costruzione che in fondo non esiste mai di per se stessa, ma che si succede in fonogrammi che si sovrappongono come il pensiero di chi giudica; non siamo forse “Uno, nessuno e centomila”? non è forse la vita, in ogni situazione “Così è (se vi pare)”; nulla sarà mai definito e questa è “La tragedia di un personaggio”; dirà Pirandello consapevole del suo ruolo: voglio penetrare in fondo al loro animo con lunga e sottile indagine…

 

Anna Lanzetta

 

 

La tragedia di un personaggio”

di Luigi Pirandello

 

È mia vecchia abitudine dare udienza, ogni domenica mattina, ai personaggi delle mie future novelle. Cinque ore, dalle otto alle tredici.

M'accade quasi sempre di trovarmi in cattiva compagnia.

Non so perché, di solito accorre a queste mie udienze la gente più scontenta del mondo, o afflitta da strani mali, o ingarbugliata in speciosissimi casi, con la quale è veramente una pena trattare.

Io ascolto tutti con sopportazione; li interrogo con buona grazia; prendo nota de' nomi e delle condizioni di ciascuno; tengo conto de' loro sentimenti e delle loro aspirazioni. Ma bisogna anche aggiungere che per mia disgrazia non sono di facile contentatura. Sopportazione, buona grazia, sì; ma esser gabbato non mi piace. E voglio penetrare in fondo al loro animo con lunga e sottile indagine.

Ora avviene che a certe mie domande più d'uno aombri e s'impunti e recalcitri furiosamente, perché forse gli sembra ch'io provi gusto a scomporlo dalla serietà con cui mi s'è presentato.

Con pazienza, con buona grazia m'ingegno di far vedere e toccar con mano, che la mia domanda non è superflua, perché si fa presto a volerci in un modo o in un altro; tutto sta poi se possiamo essere quali ci vogliamo. Ove quel potere manchi, per forza questa volontà deve apparire ridicola e vana.

Non se ne vogliono persuadere. E allora io, che in fondo sono di buon cuore, li compatisco. Ma è mai possibile il compatimento di certe sventure, se non a patto che se ne rida?

Orbene, i personaggi delle mie novelle vanno sbandendo per il mondo, che io sono uno scrittore crudelissimo e spietato. Ci vorrebbe un critico di buona volontà, che facesse vedere quanto compatimento sia sotto a quel riso.

Ma dove sono oggi i critici di buona volontà?

 

È bene avvertire che alcuni personaggi, in queste udienze, balzano davanti agli altri e s'impongono con tanta petulanza e prepotenza, ch'io mi vedo costretto qualche volta a sbrigarmi di loro lì per lì.

Parecchi di questa lor furia poi si pentono amaramente e mi si raccomandano per avere accomodato chi un difetto e chi un altro. Ma io sorrido e dico loro pacatamente che scontino ora il loro peccato originale e aspettino ch'io abbia tempo e modo di ritornare ad essi.

Tra quelli che rimangono indietro in attesa, sopraffatti, chi sospira, chi s'oscura, chi si stanca e se ne va a picchiare alla porta di qualche altro scrittore.

Mi è avvenuto non di rado di ritrovare nelle novelle di parecchi miei colleghi certi personaggi, che prima s'erano presentati a me; come pure m'è avvenuto di ravvisarne certi altri, i quali, non contenti del modo com'io li avevo trattati, han voluto provare di fare altrove miglior figura.

Non me ne lagno, perché solitamente di nuovi me ne vengon davanti due e tre per settimana. E spesso la ressa è tanta, ch'io debbo dar retta a più d'uno contemporaneamente. Se non che, a un certo punto, lo spirito così diviso e frastornato si ricusa a quel doppio o triplo allevamento e grida esasperato che, o uno alla volta, piano piano, riposatamente, o via nel limbo tutt'e tre!

Ricordo sempre con quanta remissione aspettò il suo turno un povero vecchietto arrivatomi da lontano, un certo maestro Icilio Saporini, spatriato in America nel 1849, alla caduta della Repubblica Romana, per aver musicato non so che inno patriottico, e ritornato in Italia dopo quarantacinque anni, quasi ottantenne, per morirvi. Cerimonioso, col suo vocino di zanzara, lasciava passar tutti innanzi a sé. E finalmente un giorno ch'ero ancor convalescente d'una lunga malattia, me lo vidi entrare in camera, umile umile, con un timido risolino su le labbra:- Se posso... Se non le dispiace...Oh sì, caro vecchietto! Aveva scelto il momento più opportuno. E lo feci morire subito subito in una novelletta intitolata Musica vecchia.

 

Quest'ultima domenica sono entrato nello scrittojo, per l'udienza, un po' più tardi del solito.

Un lungo romanzo inviatomi in dono, e che aspettava da più d'un mese d'esser letto, mi tenne sveglio fino alle tre del mattino per le tante considerazioni che mi suggerì un personaggio di esso, l'unico vivo tra molte ombre vane. Rappresentava un pover uomo, un certo dottor Fileno, che credeva d'aver trovato il più efficace rimedio a ogni sorta di mali, una ricetta infallibile per consolar se stesso e tutti gli uomini d'ogni pubblica o privata calamità. Veramente, più che rimedio o ricetta, era un metodo, questo del dottor Fileno, che consisteva nel leggere da mane a sera libri di storia e nel veder nella storia anche il presente, cioè come già lontanissimo nel tempo e impostato negli archivii del passato.

Con questo metodo s'era liberato d'ogni pena e d'ogni fastidio, e aveva trovato - senza bisogno di morire - la pace: una pace austera e serena, soffusa di quella certa mestizia senza rimpianto, che serberebbero ancora i cimiteri su la faccia della terra, anche quando tutti gli uomini vi fossero morti.

Non si sognava neppure, il dottor Fileno, di trarre dal passato ammaestramenti per il presente.

Sapeva che sarebbe stato tempo perduto, e da sciocchi; perché la storia è composizione ideale d'elementi raccolti secondo la natura, le antipatie, le simpatie, le aspirazioni, le opinioni degli storici, e che non è dunque possibile far servire questa composizione ideale alla vita che si muove con tutti i suoi elementi ancora scomposti e sparpagliati. E nemmeno si sognava di trarre dal presente norme o previsioni per l'avvenire; anzi faceva proprio il contrario: si poneva idealmente nell'avvenire per guardare il presente, e lo vedeva come passato.

Gli era morta, per esempio, da pochi giorni una figliuola. Un amico era andato a trovarlo per condolersi con lui della sciagura. Ebbene, lo aveva trovato già così consolato, come se quella figliuola gli fosse morta da più che cent'anni. La sua sciagura, ancor calda calda, l'aveva senz'altro allontanata nel tempo, respinta e composta nel passato. Ma bisognava vedere da quale altezza e con quanta dignità ne parlava! In somma, di quel suo metodo il dottor Fileno s'era fatto come un cannocchiale rivoltato. Lo apriva, ma non per mettersi a guardare verso l'avvenire, dove sapeva che non avrebbe veduto niente; persuadeva l'anima a esser contenta di mettersi a guardare dalla lente più grande, attraverso la piccola, appuntata al presente, per modo che tutte le cose subito le apparissero piccole e lontane. E attendeva da varii anni a comporre un libro, che avrebbe fatto epoca certamente: La filosofia del lontano.

Durante la lettura del romanzo m'era apparso manifesto che l'autore, tutto inteso ad annodare artificiosamente una delle trame più solite, non aveva saputo assumere intera coscienza di questo personaggio, il quale, contenendo in sé, esso solo, il germe d'una vera e propria creazione, era riuscito a un certo punto a prender la mano all'autore e a stagliarsi per un lungo tratto con vigoroso rilievo su i comunissimi casi narrati e rappresentati; poi, all'improvviso, sformato e immiserito, s'era lasciato piegare e adattare alle esigenze d'una falsa e sciocca soluzione.

Ero rimasto a lungo, nel silenzio della notte, con l'immagine di questo personaggio davanti agli occhi, a fantasticare. Peccato! C'era tanta materia in esso, da trarne fuori un capolavoro! Se l'autore non lo avesse così indegnamente misconosciuto e trascurato, se avesse fatto di lui il centro della narrazione, anche tutti quegli elementi artificiosi di cui s'era valso, si sarebbero forse trasformati, sarebbero diventati subito vivi anch'essi. E una gran pena e un gran dispetto s'erano impadroniti di me per quella vita miseramente mancata.

 

Ebbene, quella mattina, entrando tardi nello scrittojo, vi trovai un insolito scompiglio, perché quel dottor Fileno s'era già cacciato in mezzo ai miei personaggi aspettanti, i quali, adirati e indispettiti, gli erano saltati addosso e cercavano di cacciarlo via, di strapparlo indietro. - Ohé! - gridai. - Signori miei, che modo è codesto? Dottor Fileno, io ho già sprecato con lei troppo tempo. Che vuole da me? Lei non m'appartiene. Mi lasci attendere in pace adesso a' miei personaggi, e se ne vada.

Una così intensa e disperata angoscia si dipinse sul volto del dottor Fileno, che subito tutti quegli altri (i miei personaggi che ancora stavano a trattenerlo) impallidirono mortificati e si ritrassero.- Non mi scacci, per carità, non mi scacci! Mi accordi cinque soli minuti d'udienza, con sopportazione di questi signori, e si lasci persuadere, per carità!

Perplesso e pur compreso di pietà, gli domandai: - Ma persuadere di che? Sono persuasissimo che lei, caro dottore, meritava di capitare in migliori mani. Ma che cosa vuole ch'io le faccia? Mi sono doluto già molto della sua sorte; ora basta.

- Basta? Ah, no, perdio! - scattò il dottor Fileno con un fremito d'indignazione per tutta la persona. - Lei dice così perché non son cosa sua! La sua noncuranza, il suo disprezzo mi sarebbero, creda, assai meno crudeli, che codesta passiva commiserazione, indegna d'un artista, mi scusi! Nessuno può sapere meglio di lei, che noi siamo esseri vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni; forse meno reali, ma più veri! Si nasce alla vita in tanti modi, caro signore; e lei sa bene che la natura si serve dello strumento della fantasia umana per proseguire la sua opera di creazione. E chi nasce mercé quest'attività creatrice che ha sede nello spirito dell'uomo, è ordinato da natura a una vita di gran lunga superiore a quella di chi nasce dal grembo mortale d'una donna. Chi nasce personaggio, chi ha l'avventura di nascere personaggio vivo, può infischiarsi anche della morte. Non muore più! Morrà l'uomo, lo scrittore, strumento naturale della creazione; la creatura non muore più! E per vivere eterna, non ha mica bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Mi dica lei chi era Sancho Panza! Mi dica lei chi era don Abbondio! Eppure vivono eterni perché - vivi germi - ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire per l'eternità.

- Ma sì, caro dottore: tutto questo sta bene,- gli dissi. - Ma non vedo ancora che cosa ella possa volere da me.

- Ah no? non vede? - fece il dottor Fileno. - Ho forse sbagliato strada? Sono caduto per caso nel mondo della Luna? Ma che razza di scrittore è lei, scusi? Ma dunque sul serio lei non comprende l'orrore della tragedia mia? Avere il privilegio inestimabile di esser nato personaggio, oggi come oggi, voglio dire oggi che la vita materiale è così irta di vili difficoltà che ostacolano, deformano, immiseriscono ogni esistenza; avere il privilegio di esser nato personaggio vivo, ordinato dunque, anche nella mia piccolezza, all'immortalità, e sissignore, esser caduto in quelle mani, esser condannato a perire iniquamente, a soffocare in quel mondo d'artifizio, dove non posso né respirare né dare un passo, perché è tutto finto, falso, combinato, arzigogolato! Parole e carta! Carta e parole! Un uomo, se si trova avviluppato in condizioni di vita a cui non possa o non sappia adattarsi, può scapparsene, fuggire; ma un povero personaggio, no: è lì fissato, inchiodato a un martirio senza fine! Aria! aria! vita! Ma guardi... Fileno... mi ha messo nome Fileno... Le pare sul serio che io mi possa chiamar Fileno? Imbecille, imbecille! Neppure il nome ha saputo darmi! Io, Fileno! E poi, già, io, io, l'autore della Filosofia del lontano, proprio io dovevo andare a finire in quel modo indegno per sciogliere tutto quello stupido garbuglio di casi là! Dovevo sposarla io, è vero? in seconde nozze quell'oca di Graziella, invece del notajo Negroni! Ma mi faccia il piacere! Questi sono delitti, caro signore, delitti che si dovrebbero scontare a lagrime di sangue! Ora, invece, che avverrà? Niente. Silenzio. O forse qualche stroncatura in due o tre giornaletti. Forse qualche critico esclamerà: «Quel povero dottor Fileno, peccato! Quello sì era un buon personaggio!». E tutto finirà così. Condannato a morte, io, l'autore della Filosofia del lontano, che quell'imbecille non ha trovato modo neanche di farmi stampare a mie spese! Eh già, se no, sfido! come avrei potuto sposare in seconde nozze quell'oca di Graziella? Ah, non mi faccia pensare! Su, su, all'opera, all'opera, caro signore! Mi riscatti lei, subito subito! mi faccia viver lei che ha compreso bene tutta la vita che è in me!

A questa proposta avventata furiosamente come conclusione del lunghissimo sfogo, restai un pezzo a mirare in faccia il dottor Fileno.

- Si fa scrupolo? - mi domandò, scombujandosi. - Si fa scrupolo? Ma è legittimo, legittimo, sa! È suo diritto sacrosanto riprendermi e darmi la vita che quell'imbecille non ha saputo darmi. È suo e mio diritto, capisce?

- Sarà suo diritto, caro dottore, - risposi, - e sarà anche legittimo, come lei crede. Ma queste cose, io non le faccio. Ed è inutile che insista. Non le faccio. Provi a rivolgersi altrove.

- E a chi vuole che mi rivolga, se lei...- Ma io non so! Provi. Forse non stenterà molto a trovarne qualcuno perfettamente convinto della legittimità di codesto diritto. Se non che, mi ascolti un po', caro dottor Fileno. È lei, sì o no, veramente l'autore della Filosofia del lontano?

- E come no? - scattò il dottor Fileno, tirandosi un passo indietro e recandosi le mani al petto. - Oserebbe metterlo in dubbio? Capisco, capisco! È sempre per colpa di quel mio assassino! Ha dato appena appena e in succinto, di passata, un'idea delle mie teorie, non supponendo neppure lontanamente tutto il partito che c'era da trarre da quella mia scoperta del cannocchiale rivoltato!

Parai le mani per arrestarlo, sorridendo e dicendo:- Va bene... va bene... ma, e lei, scusi? - Io? come, io?- Si lamenta del suo autore; ma ha saputo lei, caro dottore, trar partito veramente della sua teoria? Ecco, volevo dirle proprio questo. Mi lasci dire. Se Ella crede sul serio, come me, alla virtù della sua filosofia, perché non la applica un po' al suo caso? Ella va cercando, oggi, tra noi, uno scrittore che la consacri all'immortalità? Ma guardi a ciò che dicono di noi poveri scrittorelli contemporanei tutti i critici più ragguardevoli. Siamo e non siamo, caro dottore! E sottoponga, insieme con noi, al suo famoso cannocchiale rivoltato i fatti più notevoli, le questioni più ardenti e le più mirabili opere dei giorni nostri. Caro il mio dottore, ho gran paura ch'Ella non vedrà più niente né nessuno. E dunque, via, si consoli, o piuttosto, si rassegni, e mi lasci attendere a' miei poveri personaggi, i quali, saranno cattivi, saranno scontrosi, ma non hanno almeno la sua stravagante ambizione.

 

(Luigi Pirandello Novelle a cura di Giuseppe Morpurgo, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori)

 

 

Al di là di tutto però c’è quel -sentimento del contrario-, con il quale Pirandello ci guida oltre le cose, a scoprire ciò che spesso non vediamo o che non vogliamo vedere per comodo; c’ è sempre un’altra possibilità oltre il contingente, c’è sempre un domani diverso dall’oggi ma costruttore di idee e di speranze capaci di realizzare le attese di tutti e dei giovani in particolare, la cui fiducia nella vita non sarà mai tradita, se la cultura, attraverso il processo educativo, coadiuvata da tutti gli organi ad essa preposti, porrà fermamente le basi a quello che è il suo ruolo storico. (il corsivo nel testo è solo un arbitrio della scrivente) (A. L.)


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