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NNI 16. Boris Borgato
Boris Borgato
Boris Borgato 
15 Giugno 2008
 

Boris Borgato nasce a Desio (MI) nel 1985. Diplomato geometra, lascia architettura dopo aver passato il test d’ingresso, entra a scienze umanistiche per la comunicazione (Università Statale di Milano) e continua a scrivere. Rifiuta le pubblicazioni a pagamento e fa bene. Ha un caratterino niente male, abbiamo pure litigato, ma lo pubblico lo stesso perché è bravo e lo merita. Il leccaculismo non fa parte della mia cultura, sono controcorrente per vocazione e preferisco chi m’insulta a chi mi loda. Non crede nei corsi di scrittura e ancora una volta condivido. Spera di valere come scrittore, pure se è confuso su cosa sia scrivere, perché non ha fiducia negli editori, neppure in me che lo pubblico su Tellusfolio. Sostiene che non ho tempo e neppure la sufficiente serenità per valutare aspiranti scrittori prossimi a diventare veri scrittori. Forse ha ragione, soprattutto sul fatto che ho poco tempo, dovrei fare l’editore a tempo pieno, ma non posso permetterlo, ho una famiglia e un lavoro normale che mi fa campare.

Vorrebbe anche capire chi è in grado di dire se uno è uno scrittore oppure no. A questa domanda rispondo subito. Nessuno, caro Boris. Solo tu stesso. Se pensi che scrivere sia la cosa più importante della tua vita e per niente al mondo vorresti smettere di farlo, allora sei uno scrittore. Cosa importa se non ti pubblicano? Leggetevi questi due raccontini che non sono per niente male.

 

Gordiano Lupi

lupi@infol.it

 

 

per sempre, questa volta per sempre

 

Annina scusami se t’ho detto per sempre e poi non l’è stato.

Annina mani in tasca che fuori il freddo le divora. Che il vento è ghiaccio dell’indifferenza soffiato sul cuore, e, alle volte, involontariamente, da soli, si muore.

Annina nasconditi se ti chiedon dell’amore, tu non dirgli dove l’hai perso, lasciagli creder non ci sia più, non cercarlo per ora e non mostrare nemmeno lacrime amare, digli che è neve che col calore del tuo corpo sul viso s’è sciolta, e Annina credi che ci sia da creder, in fondo è una magia la magia.

Annina col caldo della stufa scaldati i piedi stanchi di cinquant’anni di chilometri sul ghiaccio e nella neve e guardati nella foto che ti ritrae veder l’oceano lì dove non c’è mare, e lascia che le onde ti cullino nel sogno, inverso, della realtà che scorgi, come abbiam s’è sempre fatto io e te.

Annina mia che negli anni dell’adolescenza sotto il cappotto t’ho nascosta, ora perdonami se non ci sono più a proteggerti, ma il tempo avaro s’è rubato l’orologio del mio cuore e io prima di andarmene ti lascio tutto ciò che ho: una clessidra di parole, che cadan flebili e dolci sulla riva dei tuoi lobi e che scalpitii di bimbi alzando la sabbia ti suggeriscano il sorriso che voglio regalarti, ma ora perdonami amore, non ci sono più, e questa volta per sempre sarà per sempre, ora, non ci sono più, nemmeno per me, annegato nel respiro di un dio che soffierà instancabile e per sempre, questa volta per sempre.

 

 

Variazioni in bianco di una storia dai tempi moderni

 

Steso su di lei il materasso, coperto da un grezzo velo bianco, finisce per essere il mio unico orizzonte, strano, poiché da bimbo ho sempre pensato che sarebbe stata una noia un intero giorno a letto, eppure crescendo ecco che la prospettiva cambia, sempre io, beh ora con lei, ma sempre io in me, nuovamente diverso, a pettinare pieghe nelle lenzuola con la grazia di uno stalliere che accarezza la crinolina del suo cavallo alato, forse sogno, ma sono nel letto, non sembra sbagliato, dove dovrei sognare altrimenti?

Fuori la pioggia cade così lenta che riuscirei a contarla, non mette tristezza ma dona armonia, come pantofole calde vicino al camino nella notte bianca del natale d’inverno, babbucce che non son prigione di una vita casalinga, ma la più grande libertà: il sogno. Ciabatte, linde e volgari, come scarpe di carta che fuori da questa galera con l’acqua si inzuppano, zoccoli di cartone rigido, la suola, traditrice, è la terza di copertina, quante volte m’hai fregato maledetta, lì a dirmi sublime dove non ce n’era, eppure mi fido ancora di te e dei miei casalinghi calzari: alati e magici, calzari dalle ali leggere che sorreggono il mio peso e quello dei miei pensieri, calzari da milioni di pagine, calzari che calzo così come la mia mente calza un libro e in lui si perde, nell’immagine che ne deriva, negli attributi che vi trova, nei personaggi che nascendo ti rubano un sorriso e morendo, nella carta bianca, vengono sepolti dalla lacrima che, staccandosi dal profilo del mio viso, precipita sulla pagina: enorme goccia di pioggia nel giorno del loro funerale, che morte stramba, pensate voi ad andar via così, con un dio infinito che piange un solo piccolo oceano per la vostra scomparsa, dignitoso, più che dignitoso, meritevole direi, non come me nudo fuori dal letto e ora sul terrazzo, a osservare questa pioggia che cade sulla carta bianca delle pagine bianche e sulla stoffa bianca delle mie pantofole bianche.

Sembra che io abbia sviluppato la mia piccola bianca ossessione, sarà felice la mia città ora che mi ha, tutto per sé, malato anch’io di sindrome moderna e metropolitana, come un Chaplin che continua ad avvitare bulloni, come un uomo in mutande color latte sul terrazzo, con una pagina bianca davanti agli occhi e una candida sigaretta poggiata in bocca, perso nella mia costante, colorata, monotona e mono-tonale aggettivazione, ecco come finirà, sarà così anche per me prima o poi, sotto quest’identica e calma pioggia me ne andrò, come un personaggio inesistente ed esistito, beh, speriamo solo non sia ora, non sia oggi.

Gli aggettivi con cui descrivi il mondo finiscono per descriverti ma io in questo caso finisco col coesisterci, con l’identificarmi ed eccomi bianco, pallido, tornato a letto, a sognare un amore che mi guarisca dalla malattia che ogni giorno la città frenetica mi dona, vorrei anch’io rivivere la trama di tempi moderni, ma, di questi tempi, moderni, si dice sia difficile lasciarsi andare alla passione, a quell’amore che regna nelle pellicole in bianco e nero, oddio la mia ossessione, ecco che piccola ritorna, mi vuole ma non posso lasciarmi andare, devo combattere, combatterla.

Mi rigiro e finisco col capo suo seno, morbido e caldo al mattino. Mi sento protetto fra questi due bottoni rosei che rappresentano i poli del minuto globo della mia quotidiana realtà, la nuda pelle è l’oceano in cui nuoto a colpi dolci di lingua e nel percorrerla sveglio la sensuale dea che mi ospita su di sé, dea che non posso dir mia, ma sulla cui pelle sosto, con la zattera ingombrante della mia testa, pelle che non chiamo carne perché il sentimento che provo è quieto amore e non sciocca passione. La guardo negli occhi, finalmente aperti, poi fisso le coperte: bianche, ed era un sogno la mia ossessione, eppure fuori piove e la pioggia scende così calma che riuscirei a contarla e la vita mi sembra una pagina bianca di un libro bianco che vivo in questo letto bianco, in dolce e bianca compagnia.

 

Boris Borgato


 
 
 
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