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Maria G. Di Rienzo. Una fiaba orientale
08 Maggio 2008
 

C'era una volta una dea che viveva nelle profondità dell'oceano primordiale dell'India. Il suo nome, in sanscrito, era Vak, che come nome proprio significa voce, suono, parola. Come sostantivo, vak, che è sempre femminile, significa linguaggio, sia umano sia animale, ed anche il suono dei tamburi. Dal nome della dea si originano altri termini in sanscrito: vacas, che si riferisce sia ai cinguettii degli uccelli che al parlare degli oracoli; vakya, sempre per i suoni emessi dai volatili; vaka vuol dire mormorare o canticchiare a bocca chiusa, e vacasyasyate è il termine usato dai Veda per indicare il suono del soma gocciolante. Al giorno d'oggi, la radice del nome della dea continua a vivere in molti vocabolari: voca-bolario, appunto. Vox, voix, voice, voce, vocalizzare, convocare, evocare...

Pure, per eoni, la dea rimase in silenzio. Viveva negli abissi acquatici, dove non sentiva il bisogno di manifestare ad altri la sua voce. Al fondo dell'oceano stava Vak, accanto alle radici dell'albero primordiale, e proteggeva il vaso che conteneva l'elisir della vita, che gli indiani chiamano “soma”, o “amrita”. Vak non sentiva il bisogno di essere udita; stava bene nel silenzio, o nel mormorio, o nel produrre suoni movendosi nell'acqua. Era lì da moltissimo tempo, e probabilmente non prestava molta attenzione a quel che accadeva in superficie. Può darsi che abbia saputo della guerra fra i Deva (gli dei) e gli Ashura (i demoni) abbastanza tardi, visto che comunque precedeva di gran lunga i due gruppi. Questi Deva, i cosiddetti dei, venivano identificati con i nomi dei loro padri, mentre gli Ashura, i demoni, venivano identificati con il nome delle loro madri. Il che suggerisce come la “guerra” sia la figurazione di uno scontro concernente le politiche di genere.

Dopo che gli dei ebbero sconfitto i demoni, vennero a sapere che vi era un elisir di immortalità, nascosto fra le radici dell'albero sacro, sul fondo dell'oceano. Come lo seppero, lo desiderarono. Ma erano troppo pochi, e non sapevano come tirar fuori l'elisir dagli abissi. Avevano bisogno di aiuto. Perciò si rivolsero agli sconfitti, ai demoni (che erano tra l'altro i loro fratelli maggiori) e promisero di dividere il tesoro con loro se li avessero aiutati. Gli dei mentirono sin dal principio, progettando di truffare i demoni mentre chiedevano il loro sostegno, ma gli Ashura si fidarono, e cooperarono.

I due gruppi trovarono un enorme serpente, Vasuki, disposto ad arrotolarsi attorno ad un'isola montagnosa, che avrebbe funzionato come il bastone nella zangola per fare il burro. Si trattava di agitare l'oceano in quel modo, insomma. Gli dei da una parte e i demoni dall'altra spinsero e tirarono.

Alla testa del serpente stavano i demoni, e i dei alla coda, perché gli dei avevano assicurato agli altri che la testa era la posizione più onorevole, ma senza menzionare il fatto che così sarebbero stati quelli più vicini al respiro infuocato del serpente.

E così agitarono le acque per secoli e secoli, formando schiuma come nel latte, generando grandi cerchi nell'acqua, spingendo e tirando, fino a che il vaso del soma uscì dalle radici dell'albero sacro. Nessuno dei due gruppi sapeva nulla della dea Vak. Si aspettavano che il vaso salisse semplicemente alla superficie, fluttuando, e gli dei erano pronti a prenderlo e a svanire con esso. Invece, con gran meraviglia di tutti, fu la dea ad emergere, con il vaso dell'elisir stretto nelle mani.

In sanscrito questo contenitore, questa coppa sacra, questo santo graal, è chiamato patra, vaso. Patra significa però anche “attore”, il che può suggerire come il soma o amrita non sia tanto, o non sia solo, un liquido, ma anche la poetica magia del linguaggio. Le implicazioni della scena, se ci si riflette, sono profonde. C'è l'archetipico dono della vita fatto dalla dea liberamente, e sollecitato dal lavorare insieme degli opposti. Nei Veda, Vak spiega a dei e demoni chi è: «Io sono colei che dice, da se stessa, ciò che dà gioia agli dei e agli esseri umani».

Tornando al mito, poiché gli dei avevano agito in malafede, l'agitarsi dell'oceano non rivelò solo l'elisir originale, ma anche il suo doppio, la sua ombra: il kalakuta, un veleno capace di infliggere grande dolore agli esseri divini e di distruggere tutta la vita sulla terra. A questo punto, nella storia entra Shiva. Comprendendo i rischi, il dio decide di trangugiare il kalakuta prima che possa distruggere altre forme di vita.

Ingoia il veleno ma lo trattiene nella gola, non permettendogli di entrare in contatto con il resto del suo corpo. Il veleno gli colora il collo di blu, di quel colore (dice uno degli antichi testi) che resta dopo il colpo inferto da un serpente. Per questo Shiva viene detto Nilakantha, che significa infatti Gola Blu.

Abbiamo quindi Vak, la dea-voce che porta l'intero spettro del linguaggio alla luce, e Shiva, che si dispone a contrastare l'elemento ombra del tradimento maschile, imprigionando la tossina nella sua propria voce affinché non danneggi allo stesso tempo colpevoli ed innocenti: il mito mostra nella dea degli oceani il divino femminile, nella sua età matura, come gentile e generoso, ma mostra anche nei Deva uno stadio patriarcale, giovanile ed “eroico” del divino maschile, incapace di agire se non ingannando. Shiva, che era un antico dio-danzatore proveniente dall'Himalaya, è uno stadio più anziano (e più isolato) del divino maschile, un divino maschile che agisce per arginare il danno, e di fatto lo neutralizza anche a prezzo del proprio dolore.

Ma io lo sento, o mio carissimo Shiva. Ti ascolto. Nella costruzione della mascolinità il tuo modello oggi non c'è. Non c'è chi celebri antichi e saggi dei con la capacità e la volontà di neutralizzare le tossine generate dai tradimenti, i quali si traducono tutti in violenza: guerra, stupro, povertà, inquinamento. Posso solo sperare che sempre più dee emergano con la loro propria voce, per trasformare, o almeno educare, i piccoli Deva litigiosi, bugiardi e avidi. Tu resta al loro fianco, Shiva. Io sono solo la cantastorie, ma so che in questo compito hanno bisogno del tuo aiuto.

 

Maria G. Di Rienzo

(da Notizie minime della nonviolenza in cammino, 8 maggio 2008)


 
 
 
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