Non vorrei sembrare eccessivo nel confronto, ma la nuova raccolta di poesie di Paolo Ruffilli (Rieti, 1949) Le stanze del cielo (Marsilio, 2008, pagg. 89, Euro 12), mi ha fatto tornare in mente il capolavoro di Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River (Einaudi). Tra le due opere c'è in comune l'elemento narrativo. Masters racconta in ogni poesia la personale vicenda esistenziale di un personaggio sconosciuto della cittadina di provincia americana in cui è vissuto. Attraverso quelle tante storie, scritte come epitaffi sulle lapidi del. «E resti sempre/ più azzerato:/ non sei più padre/ o figlio/ non sei più niente./ Sei solo un delinquente/ condannato».
Ruffilli apre il poemetto riportando una famosa pagina di A. Cechov: «Chi ha un rapporto di professione con la sofferenza altrui come il giudice o il poliziotto o il medico, con l'andare del tempo e per forza di abitudine si indurice a tal punto che, anche senza volerlo, finisce col trattare i propri clienti in modo del tutto automatico». In particolare, al giudice che condannerà magari un innocente al carcere serve il «tempo» per le formalità, «per la qual cosa riceve uno stipendio». Insomma, la giustizia, nonostante le leggi, è quasi sempre opinabile, spesso punisce un innocente e, poiché il giudice interpreta l'autorità dello Stato, non è giudicabile per i suoi possibili errori.
Ruffilli ancora una volta si pone, in poesia, con un risultato alto ed efficace, dalla parte delle minoranze, degli emarginati, dei sofferenti. Un atteggiamento già rivelato nel precedente poemetto La gioia e il lutto (Marsilio, 2001), in cui ha raccontato il rapporto spettacolare e mediatico del condannato a morte di Aids, con versi e quadri che animano una coralità di creature anonime in cui per trasposizione si consuma la cimitero, l'autore ricostruisce anche la particolare fase storico/politico/poetica dell'inizio Novecento negli USA. Anche nel libro di Ruffilli ogni poesia è un quadretto in cui un detenuto comune o tossicomane focalizza la propria esperienza di vita. Il fattore comune della narratività connota anche qui un affresco storico-politico-sociologico del sistema carcerario italiano.
Non è importante sapere in quale casa di detenzione Ruffilli sia andato a raccogliere le sue storie. Non è cronaca, infatti, il suo libro, ma testimonianza psicologico/letteraria di drammi, patemi, orrori, alienazioni, disperazioni, ossessioni di chi vive, giorni o anni, nelle celle. Attraverso l'amplificazione di dolori e sentimenti, gli spazi ridotti diventano stanze «aperte», cioè «stanze del cielo». E qui il cielo è un'immagine del desiderio, che attraversa gli occhi dei reclusi che si rivolgono verso l'alto, verso l'agognata libertà.
Si tratta di un poema in cui i personaggi anonimi, ma identificabili per le loro qualifiche o per le loro azioni prima di essere chiusi dietro le sbarre, si propongono o vengono raccontati in un'estremizzazione delle percezioni. La libertà non è ipotizzabile in alcun modo se non con la morte o dopo aver scontato la pena. Manca quindi del tutto la speranza. Poema quindi della disperazione assoluta, della segregazione del corpo che diventa coazione della mente. Non ci sono pentimenti, Nè sogni né riscatti possibili, e neppure attese d'amore. C'è solo il presente nel chiuso della prigione, con i sentimenti del qui ed ora. Non ci sono filosofie, né proposte o ipotesi. Solo quel che è: la costrizione, la ripetitività dei giorni e delle cose, e il pensiero ossessivo dell'autorigenerazione per reggere l'esistente.
«E della libertà/ che farne.../ la vita è un fiume/ che scivola nel fango./ A cosa serve?/ Se ti ha portato/ dove sei finito/ senza essere arrivatotragedia del malato incurabile». I precedenti libri, Piccola colazione (Garzanti, 1987) e Camera oscura (Garzanti, 1992), si muovevano nell'emisfero del «romanzo familiare» (secondo l'intuizione di Giovanni Raboni), alternando toni elegiaci a quelli ironici e autoironici. E anzi, l'ironia e il disincanto sono connotazioni ricorrenti in tutti i suoi libri, compreso quello di racconti Preparativi per la partenza (Marsilio, 2003). Ironia che, sia pure in varianti tenere e avvolgenti, appare anche in Diario di Normandia (Amadeus, 1990), poesie di viaggio, di riflessione, di formazione.
Per tornare ai detenuti de Le stanze del cielo e ai drogati (in questo libro, seconda tipologia di diseredati sofferenti, anch'essi in carcere), bisogna sottolineare l'acuta e ragionata presentazione di Alfredo Giuliani che riconosce a Ruffilli la capacità di far diventare poesia qualsiasi argomento lo appassioni. E mette in evidenza che «Si staglia sempre più inquietante la solitudine che incatena “l'io delinquente”, mentre emerge lo squallore di un regime carcerario» che al di là dell'impegno e degli sforzi di civiltà è il segno tangibile del fatto che «le grandi conquiste/ dello spirito/ quaggiù sono solo/ lettera morta./ In basso regna/ l'abiezione:/ il male non si vuole/ semplicemente è». Ruffilli, quindi, vuole scoprire e mostrare, la sofferenza che si annida e si sviluppa nei reclusori. Il perché del prima e l'ipotesi del poi non sfiorano nemmeno la mente dei detenuti, perché il vero dramma è l'oggi e il qui: come proseguire nell'accidentato percorso di vita in un perimetro chiuso, a contatto con altre persone dure, vinte dalla routine delle regole segreganti. «L'effetto è che/ mi sento addosso/ la fiacca del malato/ .../ mani che si allungano/ .../ a riordinare carte/ di una improbabile/ cercata verità...». «Scrivere la storia/ del mio caso,/ pur sapendo che/ a nient'altro vale/ che a provare a se stessi/ la propria parziale/ incerta verità».
Il tempo scorre come goccia che scava ed è naturale «che il senso della vita/ vada via perduto/ .../e il terrore del tempo/ ti consuma i nervi/ così come il pensiero/ che fuori qualcosa/ sta accadendo/ e ti è sottratto». E con il tempo incede la degradazione: «niente di elevato/ qui resiste». «I rimpianti arrivati/ troppo tardi» ed «è sempre troppo tardi/ a rimediare...».
Il desiderio di scappare, sapendo di non poterlo fare o l'insonnia da combattere con sedativi; il dolore che non si riesce a lenire. Sono stati d'animo permanenti, perciò si cade nel «buio che ti allaga/ .../ e ti cancella dentro/ la tua parte migliore». Così anche consumare la roba che si compra se si hanno soldi, ma dopo un'ora ritornare «in culo al mondo». Abituarsi a quel ritmo quotidiano: diventare «un corpo inerte/ ruvido e appiccicoso». Dunque «sei un numero adesso/ senza più persona». E l'amore svanito è la sentenza mortale: «la ragazza / dagli occhi neri/ che per sempre/ mi ha lasciato./ .../ È il supplizio/ mio di qui:/ morire senza morte». «cadi in preda/ all'orrore del non più». «Tutto l'odio infinito/ concentrato qua». E via così, ogni pagina un quadro, un detenuto, una confessione. Spesso in prima persona, molte altre volte è l'autore che si rivolge a un tu ipotetico sempre diverso. «Dissolvimento/ oscurità infinita,/ la fine/ di tutti i valori/ della vita"; "non faccio/ che andare su e giù/ come un leone/ dentro la gabbia/ .../ e guardo lassù in alto/ ma forse anche il cielo/ è fatto a stanze/ e non si può abitarne/ più d'una».
Nella seconda sezione “La sete, il desiderio” c'è il girone dei drogati: «avendola aggredita/ ho guardato in faccia,/ tagliata,/ la mia vita». Che cos'è che attira verso la droga? «L'ebbrezza di scappare/ verso il vuoto,/ tra le braccia / del suo niente». E «senza di lei/ la sete, il desiderio». Alla fine, il tutto è qui: «È solo lei che conta/ da quando/ ti si ficca dentro il corpo/ mettendoci radici/ che non riesci/ più a estirpare/ per quanto/ sono scese a fondo» e «tutto il resto/ che ti diventa noia/ ti basta lei» per dare «finta luce al buio/ che ti gonfia il cuore».
Leggiamo ora la poesia che sintetizza il senso dell'astinenza in carcere.
Amante
È un ritornare continuo
alla tua amante,
sognata ed inseguita
senza averla
potuta conquistare.
E la sua assenza andante
ecco, ti svuota
fino in fondo al sangue
nell'interiorità delle interiora,
ti rende opaco
senza altri desideri
se non di lei.
Ogni altra parte minima
di te squartato
la chiama e implora
per esserne gonfiato.
Prende la corsa il cuore
ti suda freddo
il corpo devastato
e il collo deglutisce
all'onda che ti sale
su dallo stomaco
con il suo conato
lì tra le bisce
del male ingordo
che proprio per sfamarti
ti divora.
Ogni detenuto è il morto dentro le mura, un morto/vivo che racconta la sua vicenda come fosse già finita. E vive la grande solitudine, la più grande: «l'orrido male lancinante/ di stare soli e nudi/ con se stessi./ Siamo un fastidio/ insopportabile a chiunque,/ perfino ai nostri cari/ che si vergognano di noi/ e che si sentono traditi:/ offesi e defraudati».
Il detenuto per droga, poi, non pensa nemmeno al luogo, ma a quella “parte” che gli manca. «C'è un abisso/ tra quello che promette e ciò che dà davvero:/ una voragine che non/ si può riempire». E infine: «Vorrei lasciare/ adesso, sì, l'inferno/ del tempo mio perduto,/ cercare di levarmi/ giù dal volo,/ ma non riesco/ a smettere da solo».
Se chiede aiuto, sarà disposto a tentare la strada del recupero, magari in una comunità. E questa è l'unica speranza che Ruffilli ci ha fatto intravvedere dopo il lungo viaggio nel lungo inferno del carcere.
Ottavio Rossani
NOTA BIOGRAFICA
Paolo Ruffilli è nato nel 1949. Ha pubblicato alcune raccolte di versi, tra le quali Piccola colazione (1987), che ha ottenuto l’American Poetry Prize, Diario di Normandia (1990, Premio Montale), Camera oscura (1992), Nuvole (1995) e La gioia e il lutto (2001, Prix Européen) e i racconti di Preparativi per la partenza (2003, Premio delle Donne). È autore di una Vita di Ippolito Nievo (1991) e di Vita, amori e meraviglie del signor Carlo Goldoni (1993). È curatore di edizioni delle Operette morali di Leopardi, della traduzione foscoliana del Viaggio sentimentale di Sterne, delle Confessioni d’un italiano di Nievo, di un’antologia di Scrittori garibaldini. Ha tradotto Gibran, Tagore, i Metafisici inglesi e la Regola celeste del Tao.
www.paoloruffilli.it