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Maria G. Di Rienzo. Burundi. Storia di Francine
06 Maggio 2008
 

Francine Nijimbere dipende interamente da sua madre per le necessità di base quali mangiare o lavarsi. Suo marito le ha tagliato ambo le braccia all'altezza del gomito nel 2004, perché non aveva messo al mondo un maschio. Francine era incinta, all'epoca, e perse il bambino a causa delle ferite. Il marito, un soldato, aveva ricevuto una condanna all'ergastolo, ma è stato recentemente incluso nel provvedimento di grazia concesso dal presidente del Burundi. Francine teme il suo arrivo, e si è rivolta alle associazioni che proteggono i diritti delle donne. Quella che segue è la sua testimonianza, rilasciata a fine febbraio scorso a Irin News Africa.

*

«Nel dicembre 2007 il presidente annunciò il perdono per tutti i detenuti che soffrono di malattie incurabili. Ho saputo che mio marito è stato graziato, sulla base di dichiarazioni false perché non è malato. Come può essere mandato libero un simile criminale?

«Io ero la moglie di suo fratello maggiore, che era anche lui un soldato. Morì nel 2000, cinque mesi dopo il nostro matrimonio. Restai in casa sua mentre aspettavo che finisse il periodo del lutto, dopo di che sarei tornata dai miei genitori. Mia suocera, però, insisteva sul fatto che non potevo andarmene fino a che la dote non era completamente pagata. Convinse i miei genitori che avrei potuto sposare l'altro suo figlio. Io non volevo, ma i miei parenti raggiunsero un accordo. Sin dall'inizio non ho accettato la situazione. Una notte il mio nuovo marito ha forzato la mia porta e mi ha stuprata. Sì, sono rimasta: dove si supponeva che potessi andare?

«La nostra vita insieme consisteva nel fatto che lui era là, semplicemente. Non mi ha mai dato una mano, non mi ha mai comperato un vestito, niente. A volte mi faceva dormire fuori, al freddo, altre volte si sentiva abbastanza buono da lasciarmi entrare. Poiché non restavo incinta abbastanza in fretta mi minacciò di prendere un'altra moglie, e si mise addirittura a costruirle una casa. Non ce la portò solo perché io rimasi incinta poco dopo. Quando partorii s'informò unicamente del sesso del nascituro e quando seppe che era una bambina non si scomodò a farmi visita all'ospedale, e neppure pagò il conto quando fui dimessa. Dopo tre mesi, una sera venne a casa dal lavoro e mi disse: “E tu ti consideri una madre, tu che sai solo fare figlie femmine?”. Continuava a ripetermi che non valevo nulla. Quando la bimba aveva sette mesi restai incinta di nuovo. Questa volta lui mi disse che se era un'altra femmina avrei dovuto trovare qualcuno a cui darla. Ma più tardi, tornando a casa in licenza, era tutto gentile, e mi disse che gli dispiaceva di avermi fatto torto, e che da allora in poi le cose sarebbero andate diversamente, perché lui era un altro uomo. E io gli ho creduto. Io davvero speravo che sarebbe cambiato.

«Poi, una sera, l'ho visto che affilava un machete. Non sapevo che si stava preparando ad uccidermi. Dopo cena sono andata a dormire e l'ho lasciato con sua madre e sua sorella. A svegliarmi è stato il colpo del machete sul braccio. Ho urlato, ho pianto, ho chiesto pietà, ma lui mi ha tagliato anche l'altro braccio. Nessuno è venuto in mio soccorso. I vicini di casa avevano paura, perché lui era armato. Avevo ferite dappertutto, ed è cominciato l'aborto. Mio marito mi ha lasciata là a sanguinare ed è scappato. Più tardi l'hanno trovato e messo in prigione. Sono stata portata all'ospedale per pietà, ma nessuno si aspettava che sopravvivessi. All'ospedale sono rimasta in coma sei giorni. Quando mi sono ristabilita un poco sono andata a vivere con mia madre, che è anziana, assieme alla mia bambina. Adesso dipendo interamente da mia madre. Se lei si ammala, io non posso mangiare, non posso lavarmi, non posso vestirmi. A volte i vicini hanno compassione di me e mi assistono. Sono più impotente di un neonato.

«Due settimane fa, mia cognata è venuta ad informarmi che mio marito ha lasciato la prigione. So che questa è una sentenza di morte per me, per cui sono fuggita a Bujumbura. Ho saputo che mentre era in prigione ha giurato che se mai fosse uscito avrebbe 'finito il lavoro'. Io non chiedo niente tranne giustizia, e assistenza».

 

Maria G. Di Rienzo

(da Notizie minime della nonviolenza in cammino, 6 maggio 2008)


 
 
 
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