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Valter Vecellio. A Chianciano, perché
01 Maggio 2008
 

Organizzazione mondiale della e delle democrazie, Stati Uniti d’Europa e d’America, alternativa di democrazia per costruire la pace in tutto il Medio Oriente, adesione piena di Israele e della Turchia all’Unione Europea. Questo è, da sempre, il disegno ideale e strategico dei radicali. Assistiamo alla sostanziale paralisi degli Stati-nazione che non sanno, non possono, non vogliono dare e trovare risposte adeguate ed urgenti ai gravissimi problemi del pianeta. Ora, in questi giorni, si “scopre” che c’è la fame, e che milioni di persone non hanno, letteralmente, di che mangiare. Ora, lo si scopre. Più di vent’anni fa, con le prime marce di Pasqua e con le altre iniziative, con il Manifesto – il primo e unico manifesto politico e operativo, non solo un appello – firmato da centinaia di premi Nobel, si cercò di porre nell’agenda politica italiana ed europea la “questione fame”. Marco Pannella e i radicali vennero liquidati come esibizionisti, malati di protagonismo; si obiettò che il problema era sovrastrutturale, che quella radicale non era una soluzione “scientifica” e che per quanto apprezzabile quella radicale non era una soluzione.

 

Oggi come allora, come sempre: utopisti, provocatori, esibizionisti.

Il Primo Satyagraha Mondiale per la Pace: ve lo ricordate? “Siamo tutti tibetani”, giuravano. Come poco. Di solito dura la solidarietà nei confronti degli oppressi e dei perseguitati, quando non sono gli americani o gli israeliani a opprimere e a perseguitare. Per i radicali che siamo e che vogliamo essere, la repressione cinese in Tibet impone un salto di qualità, un ulteriore compito impegnativo per i nonviolenti. Si tratta infatti di provocare cambiamenti di politiche internazionali che siano capaci di scongiurare conflitti e tensioni, guerre, sterminii. Ce lo chiede il capo spirituale della comunità tibetana, il Dalai Lama; ma con lui ce lo chiedono tutti i perseguitati e gli oppressi in lotta nonviolenta: e che per questo sono “ignoti” e ignorati dai governi “democratici”, dai pacifisti, dai mezzi di comunicazione pubblici o privati che siano.

 

Sul fronte “interno”, c’è poi la madre di tutte le questioni, di tutte le emergenze: lo stato della giustizia in Italia. Berlusconi come Veltroni, Rutelli come Alemanno hanno suonato la grancassa, in questi giorni e in queste settimane, dell’ordine pubblico. I mezzi di comunicazione hanno descritto un paese che sembra essere sull’orlo del baratro: ogni giorno delitti, stupri, rapine, violenze di ogni tipo… E dire che tutte le cifre raccolte dal Ministero dell’Interno, dal CENSiS, dall’Istat, le relazioni dei procuratori, certificano che i crimini – che certo ci sono – sono comunque in diminuzione. Macché: caccia al rom, caccia al romeno, caccia all’extracomunitario... E pazienza se le violenze e gli stupri all’80 per cento almeno sono consumati nell’ambito della famiglia e dintorni… Li abbiamo visti a Roma e un po’ ovunque, i frutti avvelenati di questa campagna allarmistica e demagogica.

Resta comunque la questione giustizia, che non si vuole (non si sa?) risolvere.

C’è, in piena attività, il partito dei “giustizialisti”: quello che prima ti sbatte in galera, poi ti chiede di dimostrare che sei innocente, perché parte dall’assunto che sei colpevole; e c’è lo speculare partito della prescrizione, dell’amnistia strisciante: di chi si può permettere un buon avvocato che sa come tirar per le lunghe una causa; un partito che si fa leggi ad personam, così il reato cessa di essere tale. Poi ci sono i radicali, il partito della giustizia giusta. Il partito di Enzo Tortora: vittima di una mostruosa macchinazione; è con noi radicali che Tortora affrontò i processi, ne uscì vittorioso, la sua innocenza venne riconosciuta. Quei radicali che hanno voluto e promosso un referendum (vinto, e poi tradito) per la responsabilità civile del magistrato: perché la sua condizione sia equiparata a quella di ogni altro pubblico funzionario; neppure il giudice può essere superiore alla legge, e quando il magistrato sbaglia per colpe gravi deve essere giudicato come qualsiasi altro organo pubblico.

Il partito che vuole la rigorosa separazione delle carriere del Pubblico Ministero da quella del Giudice: perché il cittadino che deve essere giudicato deve essere certo della “terzietà” del giudice; perché, come diceva Giovanni Falcone, «nel dibattimento il Pubblico ministero non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece è oggi, una specie di para-giudice. Avendo formazione e carattere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e PM sono, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri»; siamo il partito che vuole abolire l’obbligatorietà dell’azione penale. È sempre Falcone che parla: «È giunto il momento di razionalizzare e coordinare l’attività dei Pubblici ministeri finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica dell’obbligatorietà dell’azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli della sua attività». Il partito che individua nella ormai cronica situazione di collasso della giustizia la vera, grande emergenza nazionale da risolvere con provvedimenti urgenti e “radicali”: perché nel solo settore civilistico sono oltre tre milioni i processi in attesa di sentenza; 10mila i ricorsi contro lo Stato italiano pendenti davanti alla Corte europea per i diritti dell’uomo, 1.500 le condanne (e si parla solo delle recenti) per violazione del dovere di amministrare la giustizia in tempi ragionevoli. Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha avvertito che «sotto il peso di 4 milioni e mezzo di procedimenti civili e 5 milioni di fascicoli penali, l’eccessiva durata rappresenta un vero pericolo per il rispetto dello Stato di diritto in Italia». Il partito, ha detto Leonardo Sciascia, che costantemente dimostra di avere il senso del diritto, della legge, della giustizia: «che ricorda agli immemori l’esistenza del diritto e rivendica tale esistenza di fronte ai giochi di potere che nel vuoto del diritto, o nel suo stravolgimento, la politica italiana conduce».

Il partito che non si vergogna, e anzi rivendica con fierezza, di essersi battuto e di aver voluto l’indulto. Ora tutti sostengono che è stato un errore, che è stato inutile; che sono stati scarcerati una quantità di delinquenti, che hanno ulteriormente aggravato la situazione dell’ordine pubblico; dicono…

Dicono un sacco di fregnacce. Grazie alla loro inerzia colpevole la situazione sta nuovamente e drammaticamente collassando; ma di questo occorre ringraziare quanti, al governo e all’opposizione, pur potendo, nulla hanno fatto. Abbiamo sempre avvertito che l’indulto avrebbe “solo” decongestionato le carceri,dove erano stipati un numero doppio di detenuti rispetto la loro capienza; abbiamo sempre detto che parallelamente andava varata un’amnistia: così da sgomberare le scrivanie dei magistrati da centinaia, migliaia di fascicoli per reati “minori”, comunque destinati a essere “amnistiati” di fatto per prescrizione; e dar loro la possibilità di concentrarsi su quei reati gravi che in questa situazione rischiano di non essere perseguiti: è un caso limite, quello dei mafiosi di Gela scarcerati perché per anni non si è trovato il tempo di scrivere la sentenza di condanna, ma tutt’altro che raro. Occorreva, soprattutto, varare le riforme necessarie per non rendere inutile il provvedimento di indulto; non sono neppure state abbozzate; cosicché le carceri sono tornate allo stato pre-indulto: quasi 50mila detenuti, quasi la metà dei quali in attesa di giudizio: dunque innocenti perché nessun tribunale li ha ancora dichiarati colpevoli…

Quelli che “dicono”, si dimenticano di ricordare che un anno prima del provvedimento d’indulto la percentuale dei recidivi era del 48 per cento, mentre l’anno successivo era del 42 per cento; dunque non è vero che con l’indulto si è assistito a una recrudescenza dei crimini. Nel 2006, per esempio, si sono consumati 621 delitti: tanti, certo, quasi due al giorno. Bene: nel 1991 gli omicidi sono stati 1.901, più del doppio. Siamo finiti al 1991 perché da quell’anno il numero dei delitti diminuisce, anno dopo anno. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria documenta che sui circa 30mila detenuti che hanno beneficiato dell’indulto circa il 17 per cento è tornato in cella; una percentuale bassa, ritenuta “fisiologica”; comunque dovrebbe far riflettere che tra coloro che, scarcerati non per l’indulto, ma per aver saldato il loro debito con la giustizia, il 60-68 per cento è poi tornato nuovamente in carcere. Insomma: l’indulto non sembra proprio aver fatto precipitare il paese in una guerra civile. La verità è che il recupero umano dei detenuti non interessa quasi nessuno. Su circa 30mila detenuti usciti dal carcere per l’indulto, ci sono state 158 borse di lavoro, che hanno portato a otto assunzioni; mentre lo sviluppo di attività lavorative all’interno del carcere è quasi inesistente: i dati disponibili (gli ultimi risalgono al dicembre 2006) dicono che solo 609 detenuti lavoravano veramente all’interno delle carceri italiane. Già: ma chi le racconta, chi le scrive, le fa conoscere queste cose? Piuttosto si strilla: “Era fuori per l’indulto”, e chissenefrega se poi non era vero…

 

Per queste, e per tante altre ragioni e questioni: ecco a cosa serve la Convention di Chianciano.

 

Valter Vecellio

(da Notizie radicali, 1° maggio 2008)

 

 

ALCUNI DOCUMENTI IN PREPARAZIONE DI CHIANCIANO:

Per un partito - realmente - democratico da 200 mila iscritti
di Diego Galli, Simone Sapienza e Michele Lembo

Per una linea autonoma e originale
di Mino Vianello


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