Scusate, buon uomo, a che punto è la notte?
Mi guardava. Non sorrideva.
La notte, udite, sta per finire, ma il giorno ancora non è arrivato, sembra che il tempo nel suo fluire resti inchiodato. Ma io veglio sempre, perciò insistete, voi lo potete: ridomandate! Tornate ancora se lo volete, non vi stancate!
Faceva freddo. Nonostante l'estate. Io, una coperta, l'oscurità.
Non riuscivo a pensare. La notte era quieta, senza rumore. C'era solo il suono che faceva il silenzio. Avevo mangiato un paio di yogurt. Un pezzo di carne mal riscaldato.
Tra l'altro, avevo ancora fame.
E a chi è triste di suo, come un limone già adoperato, dà ancora più tristezza mangiare male...
Tanti dubbi. Domande mute. Del tipo: Farlo o no? Parlare o no? Restare assieme o cambiarsi vita?
Attendevo.
Ma la notte stava per finire. Ed il giorno ancora non era arrivato.
Chiedevo, domandavo, supplicavo. Il tempo era ancora inchiodato.
Come dite? Anche voi aspettate? E cosa di sorta?
Un lavoro migliore, l'amore, l'appuntamento del giorno, la cena, l'uscita di Harry Potter?
Certo. Come tutti. Attendete.
Ed anche io.
Ma era interminabile. Eterna. Eterea.
Io attendevo la morte. Non la fine della vita. Perché quella era già giunta.
Solo lo spegnersi lentamente di questo corpo.
Che dovevo fare? Litigare con qualcuno per sfogare l'urlare della noia?
Domanda forse inutile, com'era forse inutile quel giorno, da prendere così come viene, senza calcolare il resto.
Il peccato fu creder speciale una storia normale. Credere che quel maglione, con un profumo di cui non avevo mai conosciuto il nome, continuasse per sempre ad odorare. Che il suono di quella voce, ti continuasse a seguire. Ed in effetti è sempre così. Le voci ti seguono. Ti rincorrono. Per farti ricordare, per non permetterti di guarire, per l'egoismo del tu sei mio non mi dimenticherai. Una violenza sentimentale.
Il primo bacio. Non il primo primo. Il primo di allora. Dentro un armadio, con Guccini che cantava qualcosa, forse l'inspiegabile processo dello scorrere del tempo, inesorabile, silenzioso, avvizzito. La nefandezza dei secondi, dei minuti, che rendono tutto marcio, logoro, tempestato di rimando farò rimedierò.
Un bacio lungo, sommesso, di cui avrei ricordato il sapore per sempre. E le notti, quelle in cui guardavo ed osservavo, mentre l'amore entrava, da ogni poro. Non finirà mai, ti amerò per sempre, ti aspetterò. Illudersi che l'attesa sarebbe sempre stata emozionante. L'arrivo di un treno, lo scorgere una testa bionda, l'ascoltare da lontano quei passi. I suoi passi.
Farewell non pensarci e perdonami se ti ho portato via un poco d'estate... Un qualcosa di fragile come le storie passate... Forse un tempo poteva commuovermi ma ora è inutile credo perché ogni volta che piangi e che ridi non piangi e non ridi... con me...
Ad un certo punto mi ero svegliata. Non l'amavo più.
Qualcosa era cambiato. Il fastidio per le parole, per gli atteggiamenti, i pensieri non detti. La voglia di cambiare, di provare una persona nuova, cosciente che dopo poco l'avrei gettata via. Eppure non mi interessava.
Questo è mio questo è tuo questo cd è un mio regalo, questo l'ho comprato alla fiera questo non mi ricordo tienilo tu lo tengo io non lo so. Il momento della divisione, accucciati davanti quella credenza. I dvd divisi, con una precisione certosina, con le lacrime che scendevano silenti senza che l'altra potesse scorgerle.
Il sentire un pezzo di se stessi entrare in una valigia, salutarti, dire guarda io non posso più restare, hai ucciso la bellezza, l'utopia dell'amore eterno, non posso stare con te.
E questa storia che si trascina. I tradimenti quando non possono essere più tali, le lacrime mentre abbraccio un'altra persona, le nostre risate, incuranti del dolore.
Poi a casa, a guardare quella credenza. Vedere i vuoti, i dvd mancanti, pensare a tutto fuorché all'amore.
Sentire tutto fuorché la felicità. Piangere sommessamente. Ascoltare i vicini di casa fare l'amore, sapendo benissimo che non esiste, che sarebbe finito, che è un peccato credere speciale una storia normale.
Osservare una tortorella sul davanzale, il suo muoversi veloce, a scatti, alla ricerca del cibo e dire vorrei essere come lei lei non sente dolore e poi pensare che non è così che qualcuno le ruba le uova, non può vedere gli uccellini ticchettare l'uovo romperlo dipendere da lei.
Allora anche la tortora è strumento di dolore, anzi mezzo di dolore, vedere un dio onnipotente sorridere, non si può essere un dio crudele, pensare alla forza oscura di Luke, forse dio è come la Morte Nera forse la morte nera sono io. Cos'è questo dolore cosa devo fare.
Rimanere abbracciata a quella credenza, fotografando i vuoti dei dvd, cercando di ricordare ogni titolo, ogni abbandono.
Cercare quel maglione profumato consapevole che niente avrà mai più lo stesso odore.
Alice Suella