Abuja è una grande metropoli africana che di africano ha soltanto la cultura racchiusa dietro le palpebre pensanti dei Nigeriani che la abitano (insieme alle infinite etnie-altre quivi disseminate). Palazzi enormi e costruzioni varie comprendono uffici, supermercati e attività commerciali. Ampie aree verdi fungono da parchi e danno un respiro alle strade che serpeggiano tra gli edifici dall’apparenza avveniristica. Le moschee elevano al cielo i minareti con discrezione. Una grande moschea dorata, a prima vista appare come un tocco esotico welcoming, poi resta nella mente come un’immagine che, pur sforzandosi di essere discreta, esplode in tutto il suo imponente splendore. Alcune chiese offrono spettacoli di bellezza e di grazia. La chiesa internazionale, nata come tempio inter-religioso pronto ad accogliere fedeli di ogni credo, ha guglie cristiane che richiamano i minareti mussulmani e vetrate sposate al caldo colore del rame; è una visione che non può passare inosservata.
La città non ha un centro, ma ha varie prospettive: quella delle belle ville dall’architettura più o meno internazionale/coloniale/svizzera; quella degli edifici in muratura colorata di rosa, di marrone o di bianco; quella dei centri commerciali arabeggianti; quella degli edifici dalle facciate a vetri che riflettono il cielo; quella degli hotel mastodontici e classici o più piccoli e dalle forme quasi spaziali, con colonne e luminarie tecnologiche. La mancanza di un centro cittadino, per chi giunge in questa città dall’occidente, all’inizio è quasi una sofferenza, perché la mente cerca una piazza, un ritrovo importante, attestato attorno a un cuore pulsante (teatro di cerimonie e di direttive di vita). Ogni mente, poi,si adegua agli ampi spazi dispersivi e vive la città come una parentesi-bivacco propedeutica al viaggio verso la vera Nigeria-Africa.
I mercati generali sono formicai in cui è difficile muoversi tra le mercanzie infinite e la densità umana così fitta che, se potesse, diverrebbe ‘stratificata’ in senso verticale; hanno file di negozietti-bugigattoli rigurgitanti ogni genere di mercanzia e una zona coperta ove verdure e frutta sono esposte e custodite dai loro venditori ingegnosi, che le annaffiano con bottiglie provvidenziali dai tappi forati. Quei mercati sono l’anima vera, l’unica, che resta a questa città africana che, per assomigliare a Washington e/o a Los Angeles, ha sradicato, rimosso, ammonticchiato e sospinto fuori città (letteralmente con le ruspe) i poveri e, con loro, tutta l’identità africana.
Viaggio da Abuja a Kaduna e viceversa
La strada aggira l’agglomerato cittadino e, senza accorgersene, si ritrova a snodarsi tra le colline che sembrano guardarsi attorno come pecorelle spaesate che si siano risvegliate in una dislocazione sconosciuta. La vegetazione familiare non tarda a sfilare. I primi ad apparire sono gli ithace kalwa (in lingua hausa), ovvero i kalwa tree (in lingua inglese), gli alberi del kalwa (una bacca contenente molti semi). Questi alberi hanno tronco bianco, simile a quello della betulla, rami consistenti (rivolti verso l’alto e potati a poca distanza dal tronco centrale) privi di ramificazioni sottili e adorni di foglie verde chiaro affollate soltanto attorno alla cima. Le bacche sono scure e pendono da rami-filamento che sembrano estranei ai rami; la gente le raccoglie, le lava, le pela e ne fa bollire i semi per almeno un’ora. L’impasto granuloso, lasciato a fermentare, asciugato al sole, appallottolato e conservato, viene usato come insaporitore per i cibi. I Nigeriani lo chiamano local maggi cubs (dado Maggi locale).
Veri e propri alveari di vita si affollano lungo la strada. Vegetazione e roccia lavica si alternano su ambo i lati. La natura non disegna frontiere tra lo Stato della Capitale e quello del Niger che s’incunea tra esso e il Kaduna State, come un dito di verde terra adorna delle incredibili rocce simili a panettoni ‘sgocciolati’ di bitume o spruzzati di opaca glassa alla liquirizia.
Sorelle sono le dimensioni umane, anche dove diversi sono gli Stati. Appaiono e ritornano i cumuli di legna-corteccia da ardere, i capanni sorretti da contorti rami secchi, le mercanzie misteriose appese agli alberelli scheletriti, i recessi di terra rossa calpestata bordati di erba impavida su retrovie pattugliate da tuguri pacifici in ascolto perenne.
I formicai di andirivieni umani hanno incomprensibili vie pendii rientri sporgenze semine delle spore variegate di miseria sparsa sotto forma di rimasugli-detriti sulla terra battuta, di cimiteri di macchine resuscitati, di recipienti accatastati-scrostati sotto l’unico contenitore pieno di preziosa farina o di altro tesoro. Presenze artigiane ancorate al passato onorano capanni senza pareti, nel bel mezzo del nulla. I bordi delle strade si animano, come gallerie di immagini da conservare, adornandosi di venditrici fiduciose, che espongono su costoni assolati mercanzie campestri contenute in sacchi-ceste e… in fiduciosa innocenza bambina.
La vegetazione fitta e coraggiosa, lontana dai ricordi-giungla è affollata di sottobosco orfano di foreste e cortigiano di boschi sparsi-pregiati-affratellati.
I gruppi-scultura di macigni preistorici imponenti creano schiarite di pace tra cui le rare pasture s’installano come inquilini irreali. Le piramidi di pomodori su bancarelle di rami sono come rubini. Il bosco di manghi si annida nel folto selvaggio, tradendo l’abitato insospettato. I flamboyant infiammati di grappoli-fiori rosso fuoco appaiono e scompaiono nella città dei sogni e della bellezza-linfa. La convivenza tra tetti di paglia e di zinco emette dissonanze e stridori. Le fascine allineate evocano l’immagine delle schiene prone contro il cielo stagliate. La legna ammonticchiata ha sfumature-calore. La terra si fa mattone/ casa/ tratturo/ abbraccio / Africa a misura di orizzonte.
Tra poche capanne, due mini-campanili perfetti sorgono direttamente dal terreno e stanno sull’attenti, ad altezza d’uomo: sono le sentinelle della fede di due diverse chiese che, da un invisibile abitato, si annunciano ai passanti e ai viaggiatori.
Il suolo arso si allunga tra le foglie secche della bassa vegetazione e vibra dell’aspettativa delle erbe avvizzite; il suo richiamo senza voce si addensa e schiera nel cielo le strategie belliche degli eserciti-nubi destinati alle battaglie epiche delle annuali rain season africane. I cespugli arrossati piangono le foglie divenute polvere di linfa e s’ingegnano per moltiplicare la speranza stivata nelle radici delle nuove stagioni, che oseranno ancora e ancora l’elettrizzante sfida della conquista dell’aria e del sole e, a cicli, esaleranno il respiro nel germe che la morte è obbligata a pagare alla vita da sempre e per sempre. Il sonno delle mutazioni senza frontiere canta canzoni potenti come ultrasuoni.
Grande e verde è il Kaduna State. La città di Kaduna si avvicina. I siti stanziali-ghetto hanno tetti-lamiera feriti da raggi-specchio stranieri tra capanne e tuguri. Una distesa di terra rimossa è rossa come carne viva e divorzia dalla riserva di autobotti che la offende.
L’abitato espone, ai lati della strada, porte in legno e in ferro, mobili, divani, letti nella polvere e tende appese alle recinzioni. Il traffico è un’avventura. Motorini e macchine gareggiano in gimcane-carambole nei vicoli fiancheggiati da cortili-squallore-abbandono e da magnifiche chiome fiorite; si sfidano attorno ai round about assediati ed espugnati a turno dalle guerre per la precedenza dei motori a vari stadi del nuovo e della decomposizione. La gente siede sui camion in cammino come a casa, in tenuta lavorativa o da viaggio, e si affaccenda, agli angoli delle vie e lungo le carreggiate, in mille andirivieni.
Le accoglienze imbandite dai rossi fiori delle fiamme della foresta sono ikebane-leggiadrie da ammirare e da leggere.
L’ora degli addii lascia alle spalle saluti sussurrati e sventolati e ridisegna il viaggio a ritroso. Polvere e detriti flagellano l’uscita da Kaduna. Il cielo è un conflitto di titani. L’uragano ci segue o ci precede? Il vento è come carta vetrata. Un motociclista è un Don Chisciotte africano, la sua moto un Ronzinante del duemila. Il fischio violento del vento ci arrotola attorno abbracci che fuggono verso il crogiuolo del cielo del tramonto, percorso dal solo fremito di intensa luce sotto la nera cappa immensa e severa. La massa profonda di basse nubi minacciose ci batte con inclementi frecce di acqua pesante e determinata. Il tragitto a ritroso ci viene incontro con alberi che chinano le chiome come sudditi ossequiosi. Tre donne corrono con ceste vuote, fasciate dai lunghi abiti bagnati; i loro piedi nudi ricamano danze spaurite sull’asfalto alieno. I fili d’acqua si aprono come fiori appesi a riverberi-sorrisi dispettosi. Piove proprio cats and dogs, come dicono gl’Inglesi. La strada è quasi un fiume, eppure il sole finge di voler rispuntare. L’aria condizionata sembra il respiro fresco della pioggia possente di questa nuova stagione delle piogge. Le capanne sembrano gallinelle appollaiate sul grembo-terra che le ha partorite.
Un alone di solennità impalpabile celebra nozze di veli tra l’etere e il mistero. Avvolta in parecchie yarde di coloritissimo cotone, una donna trasporta un peso in testa e un bimbo tra le braccia. Due uomini la scortano, ma nessuno l’aiuta. L’argilla rossa beve e non estingue la sete. I postumi degl’incendi non si lavano, ma tramano primavere; le rinascite invisibili fremono tra anfratti e rovi; le argille austere, vestite di ocra e di marrone, si lasciano corteggiare dal verde dalla piumosità graduata. Il riverbero cresce all’occaso e veste di crepuscolo l’altra metà del cielo, in questo angolo d’Africa in cui liquide nostalgie cadono come musiche sui secchi rami scuri.
Un fulmine in diretta si disegna accanto al mio viso, bello e terrificante, come cucitura cocente di luminosità sospese tra dimensioni proibite.
La collina vulcanica è lucida come dorso di balena e ha sorelle rivestite di sassi-pecorelle simili a marzapane. Il lampo scolpisce in un albero morto un cavalluccio marino e lo staglia sul plumbeo cielo. La barriera della pioggia era reale e, di colpo, ci ha lasciato (non ho visto dove). Disattesa, è sparita (a chi chiederò le mappe dei suoi talismani?). Le cataratte del suo arcano sono ovunque e in ogni luogo e giocano con noi a un nascondino africano. Riecco il velo dalle trasparenze note; è pioggia di nuovo, dopo il ritrovato sereno. Il vento gioca a bocce, tirando addosso all’aria liquidi diamanti altalenanti.
Progettiamo di fermarci sul costone a picco che incombe sul villaggio munifico di grandi ceste piene di ortaggi e verdure e di polli (che abbiamo definito ‘olimpici’, per quanto corrono e quanto sono duri). Il cielo si arrabbia e c’investe con il diluvio di un liquido muro impenetrabile come diga sfondata; ci segue e c’insegue con gocce pesanti come secchi rovesciati. Procediamo con grande rischio e fatica, poi, d’improvviso, la luce torna e della pioggia nulla sa, ma l’acqua ricompare a sorpresa e di nuovo ci tende l’agguato e, infine, quasi pensiamo di averla immaginata. Non c’è pioggia nelle vicinanze di Abuja, ove gli agglomerati disordinati non hanno visto acqua da parecchie lune. Compriamo manghi, caschi giganteschi di banane e grandi tuberi di igname sul bordo della strada, poi ci accodiamo a un furgone che ha porte aperte debordanti di sacchi, valigie, mobili sospesi all’esterno, come uova di rana alla madre appese.
Una collina lavica ha forma di volto umano e porta il dolce nome del miele. La carcassa di un’auto spicca come soprammobile su un trono nella vita che le brulica attorno. Un armento torna dalla pastura e rallenta il passo, per ritardare l’ora del recinto e del digiuno. Un altro furgone viaggia a porte aperte, esponendo il suo carico come budella incontenibili e cascanti. C’è una città fantasma di case-capanne tutte uguali, tra le colline-avanscoperta della capitale. Era destinata ai poveri cacciati (come vergogne indesiderate) dalla città occidentalizzata. Gli ultimi della terra non hanno collocazione nell’ambizioso sviluppo industriale della città che vuole apparire come tutte le metropoli d’oltreoceano (abitate dalle ‘risorse-nomi’ in borsa quotate), ma sono proprio loro il popolo sul quale «i politici si arrampicano con scarponi chiodati» (come ha scritto una studentessa nigeriana nella sua tesi di laurea). Pensare di ‘ripulire’ la città dai ‘detriti’ umani, raggruppandoli e ‘inscatolandoli’ in un ghetto spersonalizzante e senza futuro si è rivelata un’utopia più cieca che errata: come api pervase dalla frenesia primaverile tesa verso la crescita dell’alveare, i poveri hanno disertato il ghetto imprigionante e sono fuggiti nel bush, dove sono liberi di non vivere a pochi metri l’uno dall’altro e dove possono continuare a tessere le identità-culture fatte di coltivazione della terra e di storia atavica da tramandare. Alla città ritornano come spiriti liberi di cercarvi lavoro e/o di accattonarvi senza farsi troppo notare. Se mi è permesso sperare, è proprio in questa categoria di Africani che riconosco lo zoccolo duro delle speranze indomite di questa nazione e dell’intero continente africano.
La notte che si addensa e m’impedisce di scrivere non è più effetto della pioggia o dello storm inclemente. Adesso è notte davvero e quest’Africa-patria di colline si ammanta di atmosfere irreali, che sanno d’altri lidi esotici e hanno un’anima che solo qui serpeggia tra le case che annunciano la capitale e gli strati geologici di un’argilla unica al mondo. In questo luogo complesso, la vita ha volti e maschere e le colline formano anfiteatri di vincitori e vinti di ogni giorno di lotta e di sopraffazione. La recita per la sopravvivenza, qui, non prevede il ricco, il borghese e il popolano. Il copione della vita non si snoda tra il ceto alto, il ceto medio e il ceto basso. Ricco, qui, è chi può vivere; povero è chi muore (per mancanza di casa, di cibo, di medicine e di diritti primari). Vari sono i livelli della ricchezza available in questi luoghi, ma due soltanto sono le categorie. Il povero può soltanto avere periodi di vita meno dura, in cui riesce a sopravvivere e a mangiare, ma la caduta a picco è inevitabile, perché ogni malattia gli divorerà qualsiasi risparmio-guadagno-speranza nel futuro, prima di ucciderlo irrimediabilmente e senza appello (poiché niente denaro = niente ricovero, niente medico, niente medicine o false illusioni).
La cultura della povertà è anche la cultura del presente (nell’oblio del futuro), a scapito della strategia spicciola dei sacrifici in favore del domani. Il poco di cui godere nel presente non viene capitalizzato per la sopravvivenza del domani, perciò la povertà è e resta endemica e senza spiragli a lungo termine. La filosofia di vita che il povero respira pare essere la seguente: goditi l’oggi e non pensare al domani, tanto il poco che potresti accantonare non farebbe molta differenza; se puoi vestirti bene e fare invidia ai più, fallo e, se puoi vantarti, vantati; godi di tutto ciò di cui puoi godere e specialmente dell’ammirazione altrui; oggi sei vivo, domani non si sa… ... ...
Abuja, comunque, più che una città è una dimensione (che racchiude tutti i paradossi della realtà nigeriana).
L’anamnesi di questa realtà variegata risiede, forse, nella sede del Ministero degli Esteri, un modernissimo edificio a forma di barca, che sembra farsi bandiera della Nigeria in primis e dell’Africa in generale, mentre attende venti propizi per prendere il mare… Quali e quanti sogni africani racchiude questa simbolica nave/ quali e quanti viaggi ambiti verso il futuro… /… quali e quante vittime sacrificali…?
Moonisa 2008